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La Tunisia dopo il 21 luglio: quando il razzismo fa dimenticare l’autoritarismo

Tunisia, Porto Laouata a Sfax (ph. Wahid Dahech)

Tunisia, Porto Laouata a Sfax (ph. Wahid Dahech)

di Chiara Sebastiani 

La cacciata dei migranti dell’Africa sub sahariana: un incidente diplomatico 

Sei anni fa, sulle pagine di questa rivista (n. 25, maggio 2017) [1] ci eravamo occupati della questione del razzismo di cui in Tunisia sono vittime le minoranze di origine africana, tanto i Neri autoctoni quanto quelli provenienti da Stati dell’Africa subsahariana, studenti o lavoratori, regolari o irregolari. L’allarme-razzismo, all’epoca, era partito dall’interno del Paese: si può dire che esso era il frutto della nuova rappresentanza democratica che aveva portato per la prima volta in parlamento una donna di origini africane, e della libertà di espressione che permetteva di discutere un fenomeno scomodo.

Nel 2018 viene promulgata la Legge 2018/50 relativa a “l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale” che punisce atti e discorsi discriminatori a base razziale, assicura protezione e risarcimento alle vittime e impegna lo Stato a realizzare programmi di sensibilizzazione. Si tratta all’epoca di una questione squisitamente interna al Paese che non va al di là di alcuni marginali scambi diplomatici quali la protesta dei membri del corpo diplomatico dei Paesi d’Africa sub sahariana in solidarietà con un collega maltrattato dalla polizia tunisina.

Colpisce, allora, la pronta e indignata protesta delle istituzioni europee ed internazionali al discorso pronunciato dal presidente della repubblica Kais Saied il 21 febbraio 2023 durante una riunione del Consiglio di Sicurezza Nazionale convocato per discutere delle «misure urgenti da prendere per affrontare il fenomeno dell’afflusso di un cospicuo numero di migranti irregolari sub sahariani in Tunisia». La Banca Mondiale interruppe un negoziato in corso con la Tunisia per un prestito, altre istituzioni espressero unanime deplorazione.

Eppure si trattava di questione che in termini più o meno simili discutono tutti i Paesi europei e le istituzioni dell’Ue un giorno sì e uno no. Salvo che Kais Saied aggiunge che il fenomeno è il prodotto di «un piano criminale preparato dall’inizio di questo secolo per trasformare la composizione demografica della Tunisia»: si tratta del tema della “grande sostituzione”, cavalcato da molti politici in Occidente ma inaccettabile da parte di un capo di stato individuato come partner rispettabile. Il presidente specifica: ci sarebbero organizzazioni che dopo il 2011 avrebbero ricevuto ingenti somme di denaro per insediare migranti irregolari subsahariani in Tunisia con l’obiettivo di fare della Tunisia «uno Stato africano senza più alcuna appartenenza araba e islamica» e lamenta che questi migranti irregolari portano «violenze, crimini e pratiche inaccettabili».

Nella parte conclusiva del suo discorso, invece, Kais Saied torna ad un linguaggio che non si discosta molto da quanto si va ripetendo nei governi d’Europa: invita ad «applicare rigorosamente la legge in materia di posizione degli stranieri in Tunisia e l’attraversamento illegale delle frontiere» e denuncia i «»trafficanti di esseri umani che pretendono di difendere i diritti dell’Uomo». Si tratta di discorsi che si sentono tutti i giorni in Europa e c’è da scommettere che Kais Saied non si aspettava una simile reazione. Sembra addirittura [2] che egli avrebbe convocato la riunione del Consiglio di Sicurezza a seguito di una campagna razzista contro i subsahariani scatenata sui social.

Tunisia, Porto Laouata a Sfax (ph. Wahid Dahech)

Tunisia, Porto Laouata a Sfax (ph. Wahid Dahech)

Quello che è certo però è che a seguito di tali dichiarazioni si è scatenata la “caccia al migrante” o più precisamente una brutale “cacciata dei migranti” da alloggi e posti di lavoro che occupavano senza uno straccio di contratto e certo non per loro scelta. Forse nemmeno sempre per scelta dei proprietari e datori di lavoro, in Tunisia gli stranieri non possono lavorare se non per società offshore.  La stessa legge 2018/50 precisa che «non costituisce discriminazione razziale qualunque distinzione, esclusione, restrizione o preferenza stabilita tra tunisini e stranieri a condizione di non privilegiare nessuna nazionalità a scapito delle altre e fatti salvi gli impegni internazionali della Repubblica Tunisina». È sulla base di questa legalità che non contravviene a nessuno standard o accordo internazionale in materia di diritti degli stranieri che all’indomani della dichiarazione di Kais Saied si sono viste formarsi le file di fronte ai consolati dei Paesi sub sahariani, con il desolante spettacolo di famiglie cacciate da un giorno all’altro dalle loro case, di gente rimasta senza lavoro e senza risorse, mentre i Paesi coinvolti dal controesodo hanno organizzato in quattro e quattr’otto, senza fiatare, rimpatri di emergenza.

Se violazioni di diritti umani ci sono state – o assenza di pura umanità – essa è consistita da un lato nei maltrattamenti dei migranti in attesa di rimpatrio da parte della polizia, denunciati dalle Ong, dall’altro nella brutalità con cui le istituzioni hanno gestito l’intera operazione. E tuttavia, a ben guardare, i disgraziati stranieri e le loro famiglie in attesa di rimpatrio non stavano peggio di quelli abbandonati alla deriva su gommoni senza motore dalla Grecia o sui monti ai confini della Francia, o nelle foreste alla frontiera con la Polonia. In quanto alla brutalità poliziesca, essa va ben oltre il caso dei migranti sub sahariani: i corpi di polizia, che sostenevano Ben Ali, si stanno oggi vendicando della paura provata durante la rivoluzione, e del potere perduto durante la transizione democratica.

Le radici della vicenda ormai declassata a mero incidente diplomatico vanno cercate invece nell’ideologia neo-fascista di Kais Saied, generata dal mix tra il complesso culturale della sponda sud del Mediterraneo e l’antirazzismo strumentale della sponda nord. 

La teoria del complotto: la paranoia di un dittatore 

Due sono i riferimenti del discorso di Kais Saied che lo differenziano dai discorsi che si sentono sulla sponda nord del Mediterraneo. Il primo è quello al “complotto”, uno dei temi ricorrenti nella sua retorica, sul quale i Tunisini ormai ironizzano come in questo post su Business Week: 

«Presto l’esistenza dei Tunisini diventerà un complotto!
Le 4 ruote delle automobili sono un complotto, ce ne voleva solo una!
Mangiare carne è un complotto.
L’alto tasso di consumo di birra dei Tunisini è un complotto!
L’enorme numero di caffè in ogni quartiere è un complotto …
La nostra vita è un complotto!» 
Tunisia, Porto Laouata a Sfax (ph. Wahid Dahech)

Tunisia, Porto Laouata a Sfax (ph. Wahid Dahech)

Di “paranoia” parlano invece analisti accademici e think tank internazionali [3], allargando il campo alle allusioni del Presidente a “forze straniere” in combutta con una quinta colonna domestica per distruggere «l’economia, la società e l’identità della Tunisia». La denuncia del complotto, come quella di uomini d’affari e politici corrotti, è una strategia da tempo perseguita da Kais Saied e si iscrive in quella dei fascismi vecchi e nuovi: serve a distrarre l’opinione pubblica dagli insuccessi del regime, e le offre insieme un capro espiatorio e la speranza che le cose cambieranno quando tutti i colpevoli saranno in prigione. I colpevoli indicati da Kais Saied sono stati nell’ordine: la classe politica (parlamentari e partiti) in generale, gli islamisti in particolare, gli uomini d’affari corrotti e gli speculatori.

Che ad essere accusati di complotto siano adesso poteri occulti che manovrano i migranti africani non ha dunque emozionato particolarmente i Tunisini – al di là dell’umana solidarietà di alcuni e della poco celata soddisfazione di altri – i quali rispediscono l’accusa di razzismo al mittente, ovvero alle istituzioni della sponda nord. «È solo da poco tempo che si è incominciato a parlare dell’Africa come di un problema» sostiene Mariam, psicologa che lavora con i giovani in difficoltà, tra tossicodipendenze e abbandono scolastico. «La Tunisia si è sempre vissuta come un Paese aperto, tollerante, dal patrimonio molteplice. Io stessa conosco diverse coppie miste, arabo-africane».

Il ceto medio colto è spesso sensibile alla tematica identitaria come difesa del proprio patrimonio culturale. Così Afef, professoressa di arabo in un liceo della capitale, che se da un lato si commuove sui “barconi della morte” come vengono chiamate le imbarcazioni dei migranti clandestini tunisini, dall’altro afferma candidamente: «La Francia ha aperto fin troppo le porte all’immigrazione e oggi ha perso la sua identità e la sua cultura».

C’è chi racconta del porto di Sfax, la seconda città della Tunisia, in cui ormai stazionano letteralmente folle di migranti africani, man mano che i porti di partenza si vanno spostando sempre più verso sud, da Mahdia a Zarzis, a Sfax. C’è chi racconta pacatamente degli studenti africani nel proprio quartiere e chi parla della concorrenza tra manodopera domestica tunisina e africana. «Le tate africane sono meglio pagate di quelle tunisine da anni abituate ai bassi salari, e al contempo più sfruttate perché senza famiglie sono disponibili ventiquattro ore al giorno» spiega Khaoula che ha una schiera di nipotini. Al complotto non ci crede nessuno.

Il secondo riferimento del discorso di Kais Saied, che lo differenzia dai discorsi etnonazionalisti della sponda nord, è quello relativo all’identità “araba e islamica” e al pericolo che la Tunisia si trasformi in uno “Stato africano”. Subito dopo però Kais Saied afferma che «la Tunisia è fiera della sua appartenenza africana», ricorda che essa «fa parte dei Paesi fondatori dell’Organizzazione dell’Unione Africana» e che «ha sostenuto molti popoli nella loro lotta per la liberazione e l’indipendenza». Come spesso quando parla a braccio, il presidente accumula artifici retorici senza troppo curarsi della loro coerenza interna. Procede infatti esortando a «mettere fine alle sofferenze dei popoli africani causate da decenni di guerre, carestie e altre catastrofi» senza indicare chiaramente chi porta la responsabilità di queste sofferenze: i popoli stessi? le potenze ex-coloniali? Il discorso potrebbe anche esser interpretato come un familiare “aiutiamoli a casa loro”. Mentre la contrapposizione tra Neri e Arabi (musulmani) appartiene specificamente a Kais Saied che, al pari del suo ispiratore Gheddafi, oscilla tra panarabismo e panafricanismo.

Al Libro Verde di Gheddafi, del resto, si ispira la nuova Costituzione tunisina, in parte commissionata a esperti volenterosi e in parte riscritta da Kais Saied di suo pugno, in particolare con la soppressione, nell’articolo 1, della storica espressione. «La Tunisia è una repubblica indipendente, la sua lingua è l’arabo, la sua religione è l’islam». Considerata un trionfo del principio di laicità, in realtà tale espressione è stata sostituita nell’articolo 5 dalla frase: «La Tunisia appartiene alla umma [comunità] islamica e spetta solo allo Stato operare per il conseguimento degli obiettivi dell’islam puro». Si tratta di un ritorno all’islam di Stato, già usato da Ben Ali per reprimere l’opposizione del movimento islamico, oggi incorporato da Kais Saied nella retorica del complotto contro l’identità arabo-islamica tunisina. Retorica con la quale il presidente accarezza frustrazioni e rancori tipici del complesso culturale del decolonizzato: un terreno di cultura ideale del fascismo. 

Tunisia, Porto Laouata a Sfax (ph. Wahid Dahech)

Tunisia, Porto Laouata a Sfax (ph. Wahid Dahech)

Visto dalle due sponde: complesso culturale e antirazzismo strumentale 

Si tratta però di terreni dissodati e concimati da altri, venuti dalla sponda nord. Ricorda S., che ha vissuto in Tunisia da bambina, quando nella vicina Algeria ancora infuriava la guerra anticoloniale: 

«Avevo una tata francese, che mi passava i libri di Frison-Roche e mi spiegava: “Gli Arabi sono sporchi – les Arabes sont sales. Sono meglio gli Africani. Sono puliti e sinceri mentre gli Arabi sono dei dissimulatori”. Non era cattiva la mia tata francese. In Tunisia si trovava bene e aveva anche avuto un fidanzato tunisino. La pensava semplicemente come tanti nella Francia degli anni Sessanta, gli anni della decolonizzazione». 

Nella costruzione di una contrapposizione Neri/Arabi, in chiave anti-araba, si iscrive anche l’interesse per certe manifestazioni minori dell’islam che andrebbero a configurare un islam “buono” contrapposto ad un islam insieme fanatico e fatalista, intollerante e oscurantista. Troviamo in questo filone la predilezione per un sufismo ridotto alle sue manifestazioni folcloristiche o la riscoperta degli Ibaditi dell’Isola di Djerba, piccolissima comunità con radici Berbere ed Africane, presentata come «l’altro volto dell’islam” ovvero quello dei “democratici dell’islam» [4]. 

La sistematica costruzione di una rappresentazione negativa dell’“arabo musulmano” identificato negli anni passati con il “terrorista”, adesso con il “razzista” alimenta il “complesso culturale” – per riprendere un’espressione della psicoanalisi post-junghiana – dei Tunisini che si sentono vicini all’Europa e da essa vengono sistematicamente respinti. Un sentimento recentemente esacerbato quando, a seguito dell’invasione russa, le frontiere d’Europa si sono improvvisamente e generosamente aperte a masse di profughi ucraini per i quali tutte le difficoltà evocate per altri migranti – il numero, la non conoscenza della lingua, la mancanza di alloggi, la scarsità di risorse, i  limiti del welfare – sono sparite d’incanto, suscitando nei Tunisini – indipendentemente dalla loro classe sociale e credo politico – l’unanime commento tra l’ironico e l’amaro: «Loro sono biondi con gli occhi chiari».

Se sulla sponda sud del Mediterraneo il complesso culturale dei Tunisini suscita atteggiamenti negazionisti, sulla sponda nord l’ossessione migratoria alimenta un antirazzismo strumentale. Se sei anni fa ci occupavamo del “razzismo degli altri” per mettere in luce come le vittime possano al contempo essere carnefici, oggi ci tocca sottolineare come “i razzisti sono sempre gli altri”. A definirli sono coloro che detengono le risorse che contano – economiche, politiche, culturali – sulla base di interessi di parte assai più che di valori universali: in questo caso, specificamente, gli interessi dell’Europa.

Le dichiarazioni di Kais Saied infatti mettono a repentaglio la politica europea sui flussi migratori: basti pensare a quello che succederebbe se la Tunisia non dovesse più essere considerata “Paese di provenienza sicuro” o “Paese terzo sicuro”. Era già successo ai tempi di Ben Ali quando l’avvocato Luca Bauccio riuscì finalmente a far riconoscere ciò che era evidente a tutti: ovvero che in Tunisia vi era una dittatura, i diritti umani erano stati aboliti e i profughi avevano diritto di conseguenza all’asilo politico. E se ai tempi di Ben Ali era “l’emergenza terrorismo” a giustificare i cordiali rapporti che l’Europa intratteneva con il vecchio dittatore, oggi è “l’emergenza migrazioni” a giustificare l’apertura di credito nei confronti di un nuovo dittatore. Fermarsi alle dichiarazioni sui Neri di Kais Saied significa guardare il dito, cioè il razzismo, anziché la luna, cioè l’autoritarismo del regime. Ne consegue una serie di false rappresentazioni.

In primo luogo è falso presentare il problema come specifico della Tunisia o degli arabi. Il razzismo anti-africano è diffuso in moltissimi Paesi, nel mondo occidentale, in Europa, in Italia. In secondo luogo è falso parlare di incremento del razzismo dopo il 2011, dimenticando che la Tunisia del decennio di transizione democratica ha affrontato per la prima volta nella sua storia il razzismo come problema politico, in nome degli ideali democratici della rivoluzione e grazie alla libertà di parola e di stampa, ad un parlamento democraticamente eletto, alla prima donna deputata di origini africane, Jamila Ksiksi. In terzo luogo è falso parlare di continuità con il precedente regime di Ben Ali come fa un importante studioso quale Vincent Geisser [5] ed è ugualmente falso sostenere che ai tempi di Ben Ali il problema non esisteva come sostenevano alcuni dei miei intervistati sei anni fa.

Ai tempi d Ben Ali, gli Africani presenti in Tunisia erano pochi, spesso studenti, spesso provvisti di sufficienti mezzi economici, che Ben Ali aveva tutto l’interesse a coccolare. Subito dopo la Rivoluzione tunisina del 2011, il disastro libico creato dall’intervento Nato ha riversato in Tunisia migliaia di migranti africani da anni installati in Libia. Se la Libia di Gheddafi puntava ad «accreditarsi come potenza di riferimento dell’Africa» [6] (rompendo con il precedente panarabismo, «racconti di brutalità e soprusi sono comuni tra i migranti africani da quando il dittatore libico è stato deposto» [7] e sono causa determinante dello spostamento di migranti africani verso la vicina Tunisia. Ignorare tutto ciò significa puntare il dito contro il razzismo per ignorare il fascismo allorché i due fenomeni – come la storia ci insegna – sono strettamente collegati. 

kairouan (ph. Aisha Cosmi)

Kairouan (ph. Aisha Cosmi)

La posta in gioco per l’Italia: governo dei flussi migratori e riposizionamento geopolitico 

La piccola Tunisia si è trovata, assai suo malgrado, a ereditare il ruolo che fu della Libia, ben altrimenti dotata di risorse: punto di riferimento per le rotte migratorie dall’Africa subsahariana, porta d’Europa per l’Africa. Stretta tra l’Algeria dei militari e la Libia delle milizie, è diventata un collo di bottiglia in cui si incanalano i flussi migratori provenienti dalle regioni subsahariane. Ad essi si aggiungono in misura crescente i Tunisini. Questi ultimi, dapprima in percentuale assai ridotta, sono andati crescendo man mano che la situazione economica del Paese peggiorava, dapprima per la crisi del turismo seguita all’attentato del Bardo, poi per le ripercussioni della crisi economia mondiale, infine per le conseguenze della pandemia del Sars-covid che ha dato a Kais Saied il pretesto per appropriarsi dei pieni poteri con l’appoggio dei militari.

Oggi per capire l’evoluzione delle politiche sulla sponda nord è significativa una certa evoluzione della politica dei visti nei vari Paesi. Mentre da tempo la Francia ha imposto una stretta a quelle che vengono descritte come “procedure umilianti” cui sono sottoposti tanti rispettabili impiegati e funzionari, lavoratori e professori, pensionati e familiari di emigrati, per ottenere un breve visto a costi esosi non rimborsabili [8], altri Paesi si stanno muovendo in senso opposto. Racconta Kawthar, pensionata statale che in passato ha già ottenuto più volte un visto Schengen di durata triennale per la Francia: 

«Oggi le procedure per ottenere un visto per la Francia sono diventate impossibili, le attese estenuanti, i rifiuti ingiustificati sempre più numerosi. Sai cosa mi ha consigliato la mia agenzia di viaggi? Indovina un po’ – di richiedere il visto al Consolato italiano! Non ci crederai, ma l’Italia sta facendo una politica di apertura per il rilascio dei visti. Le agenzie di viaggio consigliano ai loro clienti che vogliono recarsi in Francia di presentare la richiesta al consolato italiano. Anche a quello spagnolo. Con un visto Schengen dormo una notte in Italia e poi vado in Francia».    

Si tratta di un indizio che sembra confermare una ridefinizione in corso delle mappe geopolitiche, con un baricentro che si sta spostando verso il Mediterraneo e più in generale la regione MENA (Middle East and North Africa) e che per i Paesi del sud Europa apre una finestra di opportunità. Questa visione sembra guidare l’attivismo del nuovo governo italiano, sia a Tunisi sia Bruxelles, dagli incontri del ministro degli Esteri Tajani con il suo omologo tunisino Nabil Ammar, a quelli della Presidente del Consiglio Meloni – affiancata dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e dal premier olandese Mark Rutte – con lo stesso Kais Saied e il primo ministro tunisino signora Najla Bouden. Un attivismo che ha permesso a Francesco Lollobrigida (che come ministro ha la delega all’Agricoltura ma come privato è cognato della premier) di dichiarare fiducioso, in una intervista a Monica Guerzoni (Corriere della Sera 12 giugno 2023): «Oggi l’Europa passa per l’Italia per trattare con l’Africa e l’Africa passa per l’Italia per trattare con la Tunisia». 

In altri termini, la posta in gioco non si limita al mero controllo sul flusso dei migranti che sembra la preoccupazione principale di Meloni, né allo sdegnoso rifiuto di fare della Tunisia il “hotspot dell’Europa”, come tuona di rimando Kais Saied. Il problema per il governo è un altro: o l’Italia riesce ad agganciare la Tunisia nella costruzione di una partnership libera da influssi neocoloniali o la Tunisia guarderà ad est – ai Paesi del Golfo e alla Russia già mete da anni di emigrazione qualificata tunisina, in futuro anche alla Cina.

Le premesse favorevoli al primo scenario ci sarebbero tutte. L’Italia non è mai stata potenza coloniale in Tunisia. Nel Paese vi sono solidi “depositi di italofonia” che risalgono a quando l’Italia realizzò in Tunisia la prima emittente televisiva. In Tunisia operano circa 800 imprese italiane. E centinaia di imprese tunisine sono attive in Africa: 160 nella solo Abidjan, come ha ricordato recentemente Anis Jaziri, presidente del Tunisia-Africa Business Council, proprio in reazione alle dichiarazioni di Kais Saied. Dal 2022 l’Italia è diventata il primo partner commerciale della Tunisia, scalzando sessantacinque anni di monopolio francese [9]. Insomma, una serie di dati strutturali sembrano supportare l’ambizione del governo italiano di fare delle relazioni Italia-Tunisia il fulcro delle relazioni Europa-Africa, e la spina dorsale di un asse nord-sud che faccia da contrappeso alle crescenti spinte ad est di Africa e Oriente mediterranei.

Ma questo progetto non è privo di ombre. Certo, la partita che Meloni sta giocando va al di là dei flussi dei migranti e riguarda il protagonismo dell’Italia in un mondo che si ricentra sul Mediterraneo. Certo Meloni ha riportato la Tunisia sui media e sotto i riflettori e non si può fingere che si tratti solo di migranti. Ci sarebbe materia per rallegrarsi se non fosse che ritornando ad una politica centrata sul Mediterraneo si ripropone un vecchio vizio delle democrazie europee: quello di fare accordi con dittatori. Sistematicamente presentati come una strada obbligata, rientrano in realtà in una tradizionale costruzione delle alleanze che distingue alleati di serie A – che vanno educati con le buone e le cattive alla democrazia per venire infine ammessi nell’ambito club europeo dei Paesi democratici e ricchi come è la politica verso l’Est da decenni – e alleati di serie B di cui si plaudono le transizioni democratiche però senza muovere un dito di fronte ai tentativi di destabilizzazione di cui sono oggetto. Se infine questi tentativi vanno in porto – anche in mancanza di un qualche supporto economico o finanche simbolico e a costo zero come una apertura sui visti e una accoglienza più generosa di studenti – ci si accomoda a negoziare con il nuovo dittatore invocando “pragmatismo”. 

kairouan

Tozeur (ph. Aisha Cosmi)

Il prezzo degli accordi con i dittatori 

È stata questa la parabola del “laboratorio Tunisia” nelle politiche europee: plauso alla “rivoluzione dei gelsomini”, diffidenza quando il voto popolare ha dato la maggioranza ad un partito (Ennadha) che ha il difetto di ispirarsi ai valori dell’islam, crescente indifferenza alle difficoltà naturali di una giovane democrazia, malcelata soddisfazione per un colpo di stato (mai riconosciuto come tale) che prometteva di farla finita con “l’islam politico” e apertura di credito al nuovo dittatore e al suo islam di Stato. Il prezzo da pagare per un accordo con un dittatore, in questo caso come in altri, potrebbe però rivelarsi molto alto per tre motivi.

Primo. L’avvento di Kais Saied non ha fermato i flussi migratori verso l’Europa, né da parte dei subsahariani né da parte dei Tunisini. I dati macroeconomici periodicamente rilanciati dai media – disoccupazione che sfiora il 20% con punte del 40% tra i giovani, inflazione che si aggira intorno al 10% – non fanno capire compiutamente la realtà della vita quotidiana, quale emerge dal racconto di Safiya, con cui ho chiacchierato il 14 giugno: 

«Non si trova né semola né farina, né caffè né zucchero. Si trova un poco di caffè turco con razioni di 200 grammi. La settimana scorsa siamo stati diversi giorni senza pane [era in corso uno sciopero dei panettieri nda]. Ti rendi conto di cosa significa per i Tunisini restare senza pane? Qui non c’è più niente, i giovani vogliono tutti partire, non parlano d’altro». 

In Tunisia il cibo è ancora, nel quotidiano delle fasce medie e popolari (dimenticate il cous cous dei giorni festivi), companatico, piatti basati basato su salse e ragù vengono posti in mezzo al tavolo e raccolti con il pane. In Tunisia negli anni Ottanta le Rivolte del Pane per un lieve aumento del prezzo calmierato obbligarono Burghiba a capitolare. In Tunisia il “caffè” non è solo una bevanda ma una istituzione culturale e politica. In queste condizioni il passo è breve dall’attuale silenziosa rassegnazione ad una nuova rabbiosa rivoluzione.

Secondo. Non tutti i giovani guardano solo alla mitica isola di Lampedusa. I più accorti stanno studiando il tedesco, contando su politiche più aperte della Germania. I più intraprendenti puntano alla Russia dove sta studiando anche il figlio di Safiya, dove si è appena laureata in medicina una sua nipote che oggi si sta specializzando in Italia. Ci sono genitori come Safiya che si svenano non per pagare ai trafficanti un passaggio su un barcone ma per pagare ai figli gli studi nei Paesi dell’Est dopo l’ottenimento di un regolare visto. Le forze migliori del Paese stanno emigrando fuori d’Europa: la nuova rivoluzione sarebbe di soli disperati e assai più violenta di quella del 2011.

Terzo. Oggi i principali leader politici – tra cui professori, avvocati, deputati e attivisti – di un “arco costituzionale” che include conservatori e modernisti, laici ed islamisti, sono in prigione, al pari di diversi giornalisti e bloggers, e qualche imprenditore. Dall’inizio di quest’anno si assiste ad un crescendo sapientemente dosato: canali accreditati presso la presidenza annunciano con alcuni giorni di anticipo imminenti arresti che puntualmente poi si avverano, come nel caso dell’unica donna arrestata, Chaima Issa, con la quale ho parlato pochi giorni prima del suo arresto e che ignorava di cosa fosse accusata. Questa tattica che semina la paura nei ranghi dell’opposizione e eccita le aspettative di una popolazione esasperata è culminata con l’arresto di Rashid Ghannushi, l’ottantunenne leader del partito islamico Ennahdha, dopo una serie estenuanti di convocazioni in tribunale, stati di fermo e successivi rilasci, interrogatori e rinvii. Le accuse ricorrenti sono quelle di «complotto contro la sicurezza dello Stato» [10] e di qualcosa che molto ricorda la “intelligenza con il nemico” di sovietica memoria, trattandosi in diversi casi di “contatti con diplomatici stranieri”.

Tra i prigionieri politici troviamo anche l’ex primo ministro Ali Larayedh, membro del partito di ispirazione islamica Ennahdha, che sotto Ben Ali si è fatto quindici anni di prigione, è stato torturato, e la cui moglie è stata abusata sessualmente dalla polizia; Issam Chebbi, presidente del partito repubblicano Joumhouri, un pilastro del fronte laico, già presieduto dal padre Nejib Chebbi, storico oppositore di Ben Ali; Ghazi Chaouchi, ex presidente del partito di matrice social-democratica Attayar. Vi è poi una lunga lista di giornalisti, economisti, artisti in libertà vigilata e passibili da un momento all’altro di sequestro giudiziario senza accesso alla difesa. Kais Saied sta tentando di decapitare una classe politica che malgrado i suoi limiti era dotata di solide competenze (spesso acquisite in Occidente), che per dieci anni ha traghettato la Tunisia allo status riconosciuto di democrazia senza mai fare ricorso alla violenza e che ha sempre protetto le sue minoranze, Neri o Berberi, Ebrei o Cristiani.

Se domani la violenza dovesse di nuovo divampare rischia di non esserci più nessuno per guidare una nuova transizione democratica. E il prezzo – in termini di sicurezza – lo pagherebbe l’Europa. 

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023 
Note
[1] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-razzismo-degli-altri-arabi-e-neri-nella-nuova-tunisia-2/ 
[2] https://www.businessnews.com.tn/kais-saied-a-propos-des-subsahariens–il-sagit-dun-plan-criminel,520,127044,3 
[3]https://arabcenterdc.org/resource/the-success-of-tunisian-president-kais-saieds-neofascist-populism/ 
[4]https://www.lemonde.fr/afrique/article/2015/10/30/en-tunisie-les-ibadites-presentent-un-autre-visage-de-l-islam_4800236_3212.html
[5] https://www.cairn.info/revue-migrations-societe-2023-1-page-7.htm 
[6] https://www.parlamento.it/documenti/repository/affariinternazionali/osservatorio/note/Nota_21_CESI_LibiaAfrica.pdf 
[7]https://www.linkiesta.it/2021/09/gheddafi-libia-alqaida-isis-boko-haram-mali-ciad-unione-europea-rotta-migranti-sahara-nazioni-unite/
[8]https://kapitalis.com/tunisie/2023/04/10/le-visa-pour-la-france-serait-il-devenu-une-humiliation-pour-les-tunisiens/
[9] https://www.africaeaffari.it/38586/tunisia-le-aziende-italiane-guardano-al-parco-economico-di-zarzis 
[10] https://www.businessnews.com.tn/liste-des-personnalites-politiques-en-prison,519,127245, 3

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Chiara Sebastiani, sociologa, politologa, psicoanalista, è professore Alma Mater dell’Università di Bologna. Tra i suoi temi di interesse le politiche delle città, lo spazio pubblico, le questioni di genere. Ha vissuto e insegnato in Tunisia dove dal 2011 ha seguito sistematicamente le trasformazioni in corso, scrivendo numerosi articoli e un libro (Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico, Cosenza, Pellegrini Editore, 2014). Tra le sue altre pubblicazioni: La politica delle città, Bologna, Il Mulino, 2007 e La sfida delle parole. Lessico antiretorico per tempi di crisi, Bologna, Editrice Socialmente, 2014. Collabora a diverse riviste e webmagazines e lavora come psicoterapeuta a Milano

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