di Federico Costanza
Sono passati più di tre anni dalla cosiddetta “Rivoluzione della Dignità” (karama in arabo) del gennaio 2011 in Tunisia, malamente soprannominata “Rivoluzione dei Gelsomini”. La terza Costituzione della storia moderna tunisina è stata finalmente approvata e promulgata ufficialmente lo scorso 10 febbraio.
Ci sono voluti, dunque, tre anni perché il dibattito, intrapreso in seno all’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) riunita nel Palazzo del Bardo di Tunisi ed eletta a suffragio universale nell’ottobre del 2011, approdasse alla redazione di una nuova Carta Costituzionale che sostituisce quella del dopo Indipendenza (1959) emendata a più riprese, peraltro, dai regimi di Habib Bourguiba e Zine el Abidine Ben Ali. Un triennio segnato dalla contrapposizione fra i partiti al potere (la cosiddetta “Troika”, la coalizione formatasi all’indomani delle elezioni dell’autunno 2011) e l’opposizione, quella parlamentare e quella civile, fatta dai movimenti per i diritti civili, dalle famiglie delle vittime che durante la Rivoluzione e successivamente hanno pagato con la vita il tributo alla lotta per la libertà in Tunisia. Un periodo drammatico che ha raggiunto il suo climax nel corso del 2013 con gli omicidi politici di due leader dell’opposizione di sinistra, Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi. Una scia di sangue che è stata preceduta e seguita da tanti altri episodi di violenza, in un’atmosfera sempre più cupa e segnata da aspre discussioni: la virulenza dei gruppuscoli estremisti di stampo salafita, dentro le Università e verso i rappresentanti del mondo laico e intellettuale, l’assalto all’ambasciata americana a Tunisi, le violenze perpetrate dalla Lega per la Protezione della Rivoluzione (una milizia di ambigua matrice politica islamista, contraddistinta dalla violenza delle sue azioni contro sindacalisti e membri dell’opposizione laica).
Questa fase di profonda incertezza politica e sociale, accompagnata dalla preoccupante recessione economica, ha fatto da contraltare a proteste e scioperi, soprattutto nelle zone più periferiche dell’interno del Paese. La Tunisia, che si era posta quale faro ispiratore di uno storico processo di cambiamento in seno ai regimi del mondo arabo, ha vissuto il proprio momento di disillusione politica, contemporaneamente allo sfaldarsi dei movimenti di protesta in tutto il Maghreb e al tramonto delle speranze di una transizione democratica pacifica – come dimostrano le vicende di Siria, Libia ed Egitto.
Ciò nonostante, la forte pressione internazionale ha infine permesso un’accelerazione del processo di transizione democratica in Tunisia. Sotto gli auspici di una nuova fase di composizione sociale tra i partiti di governo e le altre parti sociali – come il maggiore sindacato del Paese, l’UGTT, il cui ruolo è stato cruciale nel post-Rivoluzione –, il nuovo clima ha favorito le dimissioni del Governo Ali Laarayedh capeggiato dal partito vincitore delle elezioni di ottobre 2011, En-Nahdha, e la nascita di un esecutivo “tecnico” guidato dall’ex ministro Mehdi Jomaa. Lo sblocco della stasi politica, seppure mai del tutto completo, ha permesso la revisione delle precedenti bozze costituzionali attraverso emendamenti discussi apertamente, articolo per articolo. All’indomani del terzo anniversario della Rivoluzione, finalmente l’approvazione e la conseguente promulgazione della Costituzione.
Lo scenario internazionale e la pressione dei principali partner politici ed economici della Tunisia hanno certamente giocato un ruolo importante in tale svolta. Anche la ritrovata capacità di mobilitazione della società civile tunisina, amplificata dall’azione delle ONG straniere e dall’interesse dei media internazionali, ha permesso di trasferire il confronto politico dall’ambito interno all’ANC a una maggiore visibilità pubblica. L’unica scelta per uscire dall’impasse era quella di rendere la fase finale di approvazione del testo un processo finalmente partecipato e trasparente.
La Costituzione approvata dall’Assemblea del Bardo esprime l’auspicato compromesso: da una parte l’affermazione di una coscienza identitaria religiosa e linguistica ormai largamente affermata, che radica la Tunisia nel contesto arabo-musulmano e che rappresenta il movimento ideologico filo-islamico che dall’Egitto alla Tunisia ha attraversato le cosiddette “Primavere Arabe”; dall’altra, il tentativo di preservare la specificità del Paese, la ricca tradizione culturale, la storia di riforme civili e politiche, di acquisizione consolidata di diritti – soprattutto per le donne – che hanno fatto della Tunisia una sorta di avanguardia nel mondo arabo. Tuttavia, è proprio tale eredità laica e mediterranea a rappresentare oggi un dilemma nell’evoluzione socio-politica. Non può di per se stessa costituire un baluardo dinanzi all’avanzata degli estremismi religiosi – sempre più rilevante è infatti il peso della predicazione di matrice integralista tra le fascie più deboli della popolazione [1]– né si tratta di una questione completamente pacifica nella composizione identitaria del popolo tunisino. Numerose sono poi le contraddizioni offerte dalla lettura della nuova Costituzione, dalla mancanza di tutela per le minoranze (una su tutte, quella amazigh), alla genericità dell’enunciazione dei diritti individuali costituzionalmente garantiti.
I valori a cui è informato il testo costituzionale sono ben espressi nel preambolo, che rappresenta l’enunciato dei principi di fondo cui si ispira la nuova Tunisia, frutto di un lungo e complesso compromesso fra approcci ideologici spesso contrapposti: l’appartenenza all’eredità culturale araba e musulmana – come si evince già dal primo e immodificabile articolo «La Tunisia è uno Stato libero, indipendente e sovrano, l’Islam è la sua religione, l’Arabo la sua lingua e la Repubblica il suo regime» –, la conformazione “civile” a una derivazione dei diritti dell’uomo dall’Islam, così come, d’altronde, ribadito da testi di costituzionalismo islamico di riferimento come la Dichiarazione del Cairo sui Diritti Umani nell’Islam (1990), e tutto ciò a dispetto del tentativo, bloccato durante la discussione della bozza, di introdurre la shari’a nel testo costituzionale tunisino.
Ne è nata così una Costituzione di matrice identitaria confessionale piuttosto che derivata direttamente dalla religione, riservando all’Islam, per l’appunto, un ruolo ispiratore e aggregante. Artificio peraltro già ben collaudato in precedenti esperienze costituzionali moderne nel mondo arabo, laddove le istanze riformiste di ispirazione liberale sono state dovutamente declinate in un contesto sociale e giuridico islamico, proprio a tutela dell’unicità della comunità musulmana.
L’articolo 6, fonte di un’accessa disputa durante i lavori preliminari al punto da essere definito da più parti “pericoloso”[2], traduce ancor più chiaramente tale matrice identitaria affidando allo Stato un ruolo attivo, quello di «guardiano della religione», giungendo a impegnarlo nella diffusione e protezione del sacro, seppur precisando la salvaguardia del dialogo, della tolleranza e il ruolo di argine contro ogni tipo di deriva (impegno a opporsi a campagne di incitamento all’odio e contro l’apostasia), garantendo la neutralità dei luoghi di culto; l’articolo 39 insiste sul radicamento dell’identità arabo-musulmana, attraverso la diffusione della lingua araba. [3]
Al centro del nuovo disegno costituzionale vi è lo Stato, garanzia di un potere equo e plurale, a dispetto di un passato di tirannia e culto della persona. I tunisini si riappropriano del concetto di Patria affermando il diritto alla cittadinanza rispetto alle privazioni subìte e al precedente sistema di sottomissione, come testimonia l’attenzione rivolta dal nuovo testo costituzionale alla piaga della corruzione che ha saccheggiato l’economia, dilaniando la società e affievolendo la fiducia della gente verso le istituzioni, al rifiuto della tortura e della censura politica, nello sforzo di giungere a una giustizia finalmente trasparente. È la pretesa di uno Stato dal carattere “civile”, come definito dall’art. 2 – che non è permesso emendare – che tuteli i propri cittadini e la loro volontà, che salvaguardi diritti e benessere sociale, che sia garante di ogni giusto processo di sviluppo della società.
Lo si è sottolineato durante la lunga e faticosa battaglia che ha portato le donne, relegate a un ruolo “complementare” dalla precedente bozza, a difendere le proprie prerogative, quelle già acquisite e quelle che lo Stato si impegnerà a realizzare, come espressamente sancito dall’uguaglianza di diritti e doveri di cittadini e cittadine (art. 21), e dalla promozione della parità di genere nei consigli elettivi (art. 46). La famiglia rimane comunque la cellula essenziale, espressamente “protetta” dallo Stato, così come i giovani sono la forza motrice della società, portatori anche di doveri nello sforzo collettivo verso lo sviluppo sociale. Vi è spazio anche per il diritto alla cultura, alla proprietà intellettuale e alla promozione e difesa della libertà di creazione culturale (art. 42).
Nelle pieghe del confronto laico-religioso i movimenti per la tutela dei diritti, la società civile, le componenti che a vario titolo hanno trascinato nei mesi scorsi il dibattito per le strade e sui media, hanno ribadito con forza il valore delle conquiste sociali e politiche, precedenti e seguenti la caduta del regime di Ben Ali e l’acclarazione di una libertà se non ancora compiutamente garantita, quanto meno pretesa nei rapporti fra lo Stato e la cittadinanza.
A ben vedere però, e a dispetto dell’accoglienza entusiasta di buona parte degli opinionisti, la nuova Costituzione tunisina tradisce un aspetto mai davvero risolto nel confronto fra differenti approcci filosofici e culturali all’universalismo dei diritti umani: il loro fondamento. Molti studiosi di mondo arabo rifiutano segnatamente le critiche allo scarso coraggio del riformismo islamico, giungendo a tacciarle perfino di “razzismo”, preferendo osservare i tangibili risultati raggiunti, in questo caso, dai movimenti di rivolta seguiti al gennaio 2011. Ci si dovrebbe chiedere: dove portano tali risultati?
La lezione delle “Primavere Arabe” ci ha insegnato che le società arabo-musulmane, per quanto composite, complesse e in continua evoluzione, ricercano un’identità collettiva nell’affermazione di una propria specificità. Rispetto alle campagne mondiali per l’universalismo dei diritti e la lotta alle discriminazioni – si veda l’esempio, tra i più avanzati e moderni, della Costituzione del 1996 in Sud Africa – il costituzionalismo di matrice islamica stabilisce un’eccezione, nella ricerca di un proprio percorso. Questo è un fatto che va preso in considerazione.
In un contesto travagliato come quello del Nord Africa fuoriuscito dalle rivolte dei mesi scorsi – il vacillare del regime Bouteflika in Algeria e il montare dell’opposizione interna, la precarietà dello Stato libico e la frammentazione politica della sua società, la svolta autoritaria dei militari in Egitto – la Tunisia deve rispondere alla sfida interna ed esterna posta dalla spinta vigorosa dei movimenti di matrice integralista religiosa rispettando il patto costituzionale stretto fra cittadini e istituzioni. La minaccia del terrorismo internazionale ha lanciato una nuova sfida: la scoperta di campi di addestramento jihadista sul territorio tunisino, gli scontri a fuoco ormai periodici fra pattuglie dell’esercito tunisino e gruppi terroristici, le imboscate e la caccia agli infiltrati sulle montagne al confine con l’Algeria, la partecipazione di molti giovani tunisini alla guerra siriana, sono tutte questioni che il Paese si trova ad affrontare.
La Tunisia deve scegliere: che colore dare a questa nuova Costituzione? Quale percorso seguire, ad esempio, nella riforma della giustizia, in un paese che ancora vive i fantasmi del passato regime? [4] Le famiglie dei martiri della Rivoluzione, i giovani nelle piazze, gli attivisti che ogni giorno lottano per l’affermazione di spazi concreti di libertà e rinnovamento civile: questi sono i protagonisti di una transizione non ancora conclusa. La nuova Costituzione, con le sue contraddizioni e le sue speranze, cammina sulle spalle di questo piccolo esercito rutilante.
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014
Note
1 Si veda F. Merone e F. Cavatorta, “The emergence of Salafism in Tunisia” (www.jadaliyya.com)
2 Il filosofo Youssef Seddik mette in guardia contro l’approvazione di questo articolo e rispetto all’approvazione del testo costituzionale parla di “euforia sospetta”.
3 Il giurista Habib Sayah giunge ineluttabilmente a dimostrare la mediterraneità dell’identità tunisina. In “La Tunisie, un pays arabe?”(http://www.contrepoints.org).
4 Nella vicenda del processo ai responsabili della repressione durante i giorni della rivolta del gennaio 2011, il Tribunale militare di Tunisi, lo scorso 12 aprile, ha in gran parte ridotto le pene o assolto molti imputati accusati delle violenze di quei giorni, dimostrando come ancora la giustizia transizionale risulti inefficace a disgregare un sistema di connivenze e reticenze.