Stampa Articolo

La Tunisia tra opportunità e crisi. Quale ruolo per l’Italia?

kais_saied

Il nuovo Presidente della Tunisia, Kais Saied

di Michela Mercuri

La Tunisia è uno dei Paesi nordafricani con cui l’Italia ha storicamente sviluppato rapporti economici e politici di primo piano. Tuttavia negli ultimi anni sembra essere stata accantonata dall’agenda politica italiana. Si tratta di un grave errore poiché il Paese dei gelsomini, mai come oggi, può essere un partner strategico per il nostro governo ma, se non supportato in termini economici e di sicurezza, può divenire un arco di crisi i cui effetti si potrebbero riverberare anche dall’altra parte del mare.

A distanza di quasi nove anni dalle rivolte di piazza, che hanno portato alla destituzione di Ben Alì, il Paese è ancora in una fase di transizione che lo rende fragile e che fa sì che rimangano ancora in piedi tutte le incertezze e le incognite legate all’effettiva riuscita del passaggio da un regime autoritario a un sistema pienamente democratico. A fare da sfondo a questa debolezza istituzionale permangono i problemi legati alla stagnazione economica e al terrorismo di matrice jihadista.

Sono queste le sfide che il nuovo governo tunisino dovrà affrontare in fretta per evitare che il malcontento popolare possa riesplodere. Le elezioni che si sono svolte lo scorso ottobre nel Paese hanno assicurato la poltrona presidenziale al candidato indipendente Kais Saied che ha ottenuto oltre il 75% dei voti, davanti al contendente populista Nabil Karoui. Saied, outsider del sistema politico tunisino e promotore di una visione politica conservatrice, ha ottenuto il maggior consenso nelle periferie e nelle aree più povere della Tunisia, accogliendo il favore dei più giovani, stanchi della dilagante corruzione e dell’assenza di prospettive lavorative. Le difficoltà che dovrà affrontare sono molte, dai problemi di sicurezza interni alla necessaria ripresa economica del Paese.

1La minaccia terroristica

La minaccia terroristica rappresenta una delle principali sfide per il governo tunisino che deve preoccuparsi sia della radicalizzazione di molti giovani all’interno del Paese, sia del “terrorismo di ritorno”, visto che, come ben noto, è il Paese che ha esportato il maggior numero di foreign fighters nei teatri operativi levantini, tra i 4 mila e i 5 mila secondo la più parte delle stime. Da un punto di vista interno, nonostante le ripetute ed efficaci operazioni anti-terrorismo intraprese negli anni scorsi dal governo, diversi gruppi jihadisti locali sopravvivono arroccati nell’area montuosa occidentale. La minaccia del fondamentalismo è un fenomeno profondamente intrecciato con la questione socio-economica: la radicalizzazione e l’adesione a gruppi estremisti da parte dei più giovani, infatti, è correlata al dilagante malessere sociale tra cui l’assenza di un impiego (un terzo dei giovani nelle periferie e oltre il 20% di quelli delle aree urbane è disoccupato), la mancanza di prospettive future e l’incapacità di assorbire la vasta richiesta di laureati qualificati.

A questo si aggiungono i problemi derivanti dall’instabilità dei Paesi confinanti. In particolare, la vicinanza del failed State libico rende il quadro ancora più a tinte fosche. Il dato è confermato anche da uno studio del Tunisian center for research and studies on terrorism che evidenzia come il 70% dei tunisini arrestati per jihadismo nel 2017 hanno ricevuto addestramento in Libia, in particolare nei campi di Derna (per gli affiliati ad Al Qaeda nel Maghreb islamico- Aqmi) e Sabratha (per gli affiliati a Isis)[1]. Alla base della radicalizzazione dei giovani tunisini c’è spesso il sentimento di marginalizzazione a cui le politiche dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese non hanno saputo fornire risposte adeguate. Non è un caso se un numero altissimo di combattenti tunisini, oltre che dalle storiche roccaforti di Ben Gardane, Bizerte e Tunisi sia partito dalla piccola e povera città periferica di Remada che “vanta” 90 foreign fighters su una popolazione totale di 11 mila abitanti[2]. In questo contesto, il sostegno delle fasce più giovani a Saied può essere considerato un fattore positivo. Tuttavia lo scenario è ancora tutto da delineare: se le politiche proposte dal neo Presidente non dovessero soddisfare le richieste dei giovani tunisini, la conseguente, ulteriore, disillusione potrebbe esacerbare ancora di più il senso di marginalizzazione e impotenza con il conseguente rischio di ulteriori fenomeni di radicalizzazione.

Dall’altra parte del mare, è facile intuire come la piccola Tunisia possa tramutarsi in una grande polveriera anche per l’Italia. Lo scorso anno sono giunti nel nostro Paese dalle coste tunisine, attraverso i cosiddetti “sbarchi fantasma”, circa 3 mila migranti di cui solo 400 identificati. L’Interpol ha documentato 50 sospetti jihadisti arrivati tra luglio e settembre 2018 in Italia proprio attraverso questa nuova rotta, notizia poi smentita dal governo italiano ma che per lo meno insinua qualche dubbio. D’altra parte questi sbarchi per le loro caratteristiche – “spostamenti” che utilizzano mezzi veloci, come gommoni carenati con potenti motori fuoribordo ed esperti scafisti e che riescono a raggiungere in poche ore le coste italiane, spesso sfuggendo ai radar – possono essere viaggi piuttosto sicuri anche per i terroristi.

La Tunisia, inoltre, rappresenta, oggi, uno dei luoghi di destinazione di molti migranti in fuga dai centri di detenzione libici sparsi nella costa. L’esacerbarsi delle violenze in corso nell’ex Jamahiriya, specie nell’area di Tripoli, in cui sono per lo più localizzati i centri per i migranti, solo parzialmente controllati dalle autorità governative, ha favorito la fuga di molti dei detenuti che si stanno dirigendo a piedi verso la Tunisia. Nel corso dell’ultimo anno il Paese ha accolto un gran numero di persone, specie nelle regioni di Tatouine e Medenine, vicine al confine libico. In queste città, già di per sé povere e carenti di infrastrutture, il sistema di accoglienza dei migranti provenienti dalla Libia si polarizza in due centri: quello di Al-Hamdi, gestito dalla Mezzaluna Rossa tunisina, e quello di Ibn Khladoun, presidiato dall’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Si tratta, però, di un sistema non in grado di gestire dignitosamente le emergenze sempre più ricorrenti. Come testimonia, ad esempio, una recente relazione del Garante per i diritti delle persone detenute e private della libertà personale, i rimpatri non sempre avvengono nel rispetto dei diritti dei migranti [3]. Un altro passaggio fondamentale, in vista dell’accoglienza di alcuni migranti nei Paesi europei, riguarda i cosiddetti “corridoi umanitari”. Per chi, però, non ha diritto allo status di rifugiato (quasi il 90% dei migranti presenti in Tunisia) non resta che l’alternativa tra una vita irregolare e di stenti oppure il ritorno in Libia per cercare, di nuovo, la fortuna su un barcone ripercorrendo la strada da cui sono fuggiti per evitare violenze.

Il governo di Tunisi, per lo meno fin qui, sembra essersi concentrato in via preminente sulle attività di chiusura delle frontiere con la Libia. Recentemente il Ministero della difesa tunisino ha investito 18 milioni di euro per rafforzare il pattugliamento del confine, ai quali si sono aggiunti anche gli aiuti esteri forniti dall’Occidente. Lo scorso anno Stati Uniti e Germania hanno deciso di stanziare quasi 50 milioni di dollari per dotare la Tunisia di strumentazioni di rilevamento ad alta tecnologia, con il fine di rafforzare le misure di sicurezza nel sud. Il sistema difensivo permanente della Tunisia si estenderà per 180 chilometri e sarà concluso nel 2020. Nel frattempo, però, la situazione continua a essere difficile, sia per quel che riguarda la gestione dei flussi migratori, sia per coloro che tentano di fuggire dal Paese o per coloro che cercano di entrare dai confini libici.

2La difficile ripresa economica

Il post rivolte tunisino è stato accompagnato da una perdurante crisi economica resa ancor più grave dal crollo del settore turistico a causa degli attentati avvenuti dal 2015. Dal 2011 si è registrata una diminuzione del 30% nel numero di turisti complessivi e del 50% di quelli provenienti dall’Europa. Il calo degli introiti generati dal settore turistico, che rappresenta da sempre una voce importante del Pil del Paese, non è solo addebitabile al problema della sicurezza ma anche ai persistenti problemi strutturali, tra cui la mancanza o l’inadeguatezza delle infrastrutture e la marcata dipendenza dal mercato europeo. Seppure a partire dal 2017 i dati relativi all’affluenza dei turisti, nelle spiagge del golfo di Hammamet, Tunisi e Gabès, hanno registrato una crescita del 46% rispetto al 2016, i numeri sono ancora ben lontani dagli “anni d’oro” del boom tunisino. Questa situazione si riflette inevitabilmente anche sull’elevato tasso di disoccupazione che è arrivata a superare il 15%, trainata da quella giovanile (40% in media). Questo fa della Tunisia lo Stato con il più alto numero di disoccupati di tutta l’area nordafricana, ad esclusione della Libia. Tale dato è ancora più allarmante se pensiamo che la maggior parte dei giovani inoccupati presenta un livello di istruzione piuttosto elevato. Detta in altri termini, la disoccupazione non è addebitabile soltanto a una carenza di offerta di lavoro, ma anche ad un sistema produttivo incapace di offrire adeguate opportunità.

Questo stato delle cose ha perpetuato l’esacerbarsi di tensioni sociali, specie nelle aree periferiche [4], sfociate spesso in manifestazione violente, nell’aumento del tasso di migrazione, e, in alcuni casi, nella radicalizzazione di molti giovani. Le difficoltà dell’economia sono, poi, legate anche al rallentamento della produzione industriale, specie nel settore minerario. Anche questa problematica interessa maggiormente le regioni delle aree periferiche, come ad esempio il governatorato di Gafsa, un tempo denominato la “Petit Paris” e oggi desolato scenario di proteste da parte dei lavoratori. Le conseguenze sono facilmente immaginabili: «Per noi la soluzione è l’emigrazione, la morte o il carcere» ha affermato un giovane tunisino di 25 anni, disoccupato[5].

In un contesto lavorativo molto precario, per due milioni di tunisini il mercato nero è diventato l’unico modo per sbarcare il lunario. Circa la metà di tutti i lavoratori ha un impiego nell’economia informale[6]. Soprattutto ai confini con Libia e Algeria, infatti, negli ultimi anni si è strutturata una rete di economia sommersa dedita al contrabbando spesso in una connection sempre più stretta con la criminalità organizzata e i gruppi jihadisti. Anche il traffico di migranti rappresenta una voce importante di questo business.

Dai dati sopra esposti, è evidente come nei cinque anni di governo che si sono da poco conclusi, non vi sono stati miglioramenti concreti nelle condizioni economiche e sociali del Paese capaci di superare le disparità regionali, apportare serie riforme del sistema economico e piani industriali in grado di attrarre gli investimenti esteri. Questo stato delle cose si riflette inevitabilmente sullo “stato d’animo” dei cittadini. Secondo un sondaggio effettuato alla fine del 2018 dall’International republican intitute (Iri), il numero di tunisini che ritiene la democrazia il miglior tipo di governo è sceso dal 70% del 2013 al 40% del 2019[7]. Molti, vista l’impasse che ha contrassegnato il Paese negli ultimi anni, hanno dichiarato di preferire un governo di un uomo forte o addirittura un sistema monopartitico[8].

È questo il quadro con cui dovrà confrontarsi il nuovo Presidente che dovrà tentare di risollevare una economia in crisi ma soprattutto fare fronte al crescente malcontento popolare per la politica di austerità promossa dai precedenti governi che, però, non è stata in grado di risolvere i problemi legati all’economia. Su tutti, come già ricordato, l’elevata disoccupazione giovanile. Le maggiori priorità rimangono la creazione di nuovi posti di lavoro, l’attuazione di politiche volte ad attrarre maggiori investimenti dall’estero e il rafforzamento del settore privato. La nomina di Saied, però, potrebbe rappresentare un freno, viste le idee protezionistiche e nazionalistiche di cui si è fatto portavoce. Il presidente, infatti, ha annunciato che sarà «tradizionalista in politica interna e nazionalista nei rapporti internazionali»[9], poiché le potenze straniere hanno cercato di interferire troppe volte negli affari interni del Paese. Questa sua retorica “nazionalista” ha conquistato la fiducia degli elettori più giovani, specie quelli più istruiti e lo ha condotto alla vittoria. Solo se saprà trasformare le promesse elettorali in realtà la Tunisia potrà aspirare al tanto agognato “miracolo economico” che i giovani delle piazze chiedevano già in quel “lontano” 2011.

bandieraitaliatunisi-840x480-e1572017554496-710x388Tra Italia e Tunisia. Opportunità e problemi da risolvere

La Tunisia è un partner di primo piano dell’Italia, sia in termini economici sia per quanto riguarda la questione migratoria. L’Italia «è il secondo partner commerciale della Tunisia con oltre 890 imprese, un volume di scambi commerciali tra i due Paesi di 16 miliardi di dinari nel 2018». A dirlo è l’ex ministro tunisino dello Sviluppo, dell’Investimento e della Cooperazione internazionale, Zied Laghari, in una recente visita a Milano[10]. Per la Tunisia l’Italia rappresenta ancora il primo partner commerciale e un punto di riferimento importante per sviluppare nuovi business.

È quanto è emerso anche dal Tunisia investment forum, che si è svolto a Tunisi il 20-21 giugno 2019, con l’obiettivo di presentare le opportunità di investimento offerte dal Paese ai possibili partner stranieri. Durante il forum è stata ribadita l’importanza degli accordi in essere con l’Italia, come ad esempio il Memorandum of understanding del 9 febbraio 2017, siglato a Roma, che definisce il programma di cooperazione per il 2017-2020 per il quale sono stati concessi dall’Italia 165 milioni di euro per l’attuazione di progetti di sviluppo.

barcone-in-difficolta-nel-mediterraneo-salvini-i-famosi-20-migranti-salvati-dalla-libiaAltrettanto importante per l’Italia è la questione migratoria. Come già ricordato, dalla Tunisia partono numerosi sbarchi fantasma diretti verso le coste italiane, ma è anche il luogo di arrivo di molti migranti che stanno fuggendo dai centri di detenzione libici. Una maggiore collaborazione con le autorità di Tunisi è indispensabile per Roma che ha siglato con il Paese nordafricano accordi pilota in materia di rimpatri, al momento con risultati piuttosto deludenti, ma che andrebbero implementati con una partnership rafforzata. Saranno necessari, poi, ulteriori aiuti economici per supportare le autorità di Tunisi nella creazione di posti di lavoro anche in settori più attrattivi, specie per i giovani, per evitare che possano cadere nella chimera dei facili guadagni offerti dalla criminalità organizzata, gestiti dai trafficanti di esseri umani che spesso agiscono “in combutta” con i miliziani dello Stato islamico o di altre organizzazioni terroristiche.

La volontà di Tunisi appare dunque chiara: voler migliorare la propria condizione politica e di sicurezza e puntare anche sull’Italia per realizzare queste sue legittime ambizioni. Tuttavia la strada per trasformare la Tunisia da un Paese a rischio ma con grandi potenzialità in un Paese in cui “fare affari” passa per una riforma sostanziale del sistema economico e di sicurezza. Il posizionamento geopolitico nel cuore del Mediterraneo e una forza lavoro altamente qualificata, istruita e giovane, potranno essere dei punti favorevoli solo se la piccola Tunisia sarà supportata nella ripresa dell’economia che passa anche per una modernizzazione delle infrastrutture e per una “bonifica” dalla minaccia terroristica. Solo se l’Italia sarà capace di affiancare la Tunisia in questo processo avremo un partner strategico dall’altra parte del Mediterraneo.

Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
 Note
[1] Dati in: A. Y. Zelin et. All, Foreign Fighters in Libya, The Washington Institute for Near east policy, Policy note 45, Gennaio 2018.
[2] F. Bobin, La Tunisie veut empêcher les jihadistes de l’EI de revenir de Syrte, in “Le Monde”, 11 Ottobre 2016.
[3] Garante per i diritti delle persone detenute e private della libertà personale, Rapporto sull’attività di monitoraggio  delle operazioni di rimpatrio forzato di cittadini stranieri (dicembre 2017 – giugno 2018).
[4] F. Borsari, F. Salesio Schiavi, La Tunisia dopo Essebsi: quali scenari?, Focus, Ispi, 25 luglio 2019.
[5] The Medit Thelegraph, Tunisia, tornano i turisti ma è crisi nelle miniere, 34 maggio 2018.
[6] European council of foreign relations, Tunisia. Tra instabilità e rinnovamento, 25 gennaio 2019.
[7] International republican institute (Iri) Center for Insights in Survey, Research, Sondage d’opinion publique: Résidents de la Tunisie, 25 Gennaio-11 Febbraio 2109.
[8] Ibidem.
[9] F. Borsari, F. Salesio Schiavi, Tunisia: tutte le sfide del nuovo presidente Kais Saied, Focus Ispi, 14 ottobre 2019
[10] Notizia riportata anche da Ansa: Tunisia: Italia secondo partner con 890 imprese, Ministro Sviluppo tunisino, entro 2025 Paese aperto al futuro, 21 maggio 2019.

______________________________________________________________

Michela Mercuri, insegna Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata dal 2008 ed è editorialista per alcuni quotidiani nazionali. Ha partecipato a numerose pubblicazioni collettanee per Etas e Egea e presso riviste specializzate. Di recente ha curato, con Stefano Maria Torelli, La primavera araba. Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente, edito da Vita e Pensiero e ha di recente pubblicato il volume Incognita Libia. Cronache di un paese sospeso, edito da FrancoAngeli.

_______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Politica, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>