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La vita come un piccolo poema zen

perfect-daysdi Chiara Lanini 

Le giornate di Hirayama sono tutte uguali e compongono un rituale fatto dei medesimi gesti che si reiterano nella stessa sequenza, compiuti con una calma e una concentrazione che fanno di quel momento un presente assoluto. Qualcosa ci fa pensare che la sua vita non sia sempre stata quella che vediamo ma sia quella che ha scelto, dopo un crush, una crisi o forse un ripensamento. L’ingresso sulla scena della sorella accompagnata da un autista alla guida di un’auto lussuosa ci lascia intuire un’origine diversa.

Hirayama fa una vita umile, composta, scarna, essenziale. È felice? Non importa.

La sua quotidianità riflette un’attitudine operosa, una pacata diligenza che non riguarda solo la cura, amorevole o maniacale a seconda dei punti di vista, che mette nel proprio lavoro ma anche lo stile con cui conduce la vita privata, in un contesto minimale sia sul piano relazionale che materiale. La sua storia è il delicato affresco di una weltanschauung che sovverte il modo di pensare la relazione fra individuo e mondo che domina nel pianeta occidentale, abitato da irriducibili tensioni generate da unità disaggregate e autoriferite che si muovono su traiettorie divergenti, legate da relazioni deboli se non antagoniste, soggetti che competono per difendere o massimizzare i propri interessi, o anche solo per non soccombere.

Hirayama è tutt’uno con ciò che fa, con ciò che guarda, contempla, con i gesti che ripete ogni giorno, in assenza di tensioni e conflitti, in una sorta di poemetto zen. In questo modo di stare nel mondo buona parte della critica ha colto un elogio alla normalità, una rasserenante celebrazione del carpe diem, un insegnamento, forse un’intuizione della possibilità che l’individuo, pensato ora come universale, possa liberarsi dell’ingombrante esuberanza soggettiva per risolvere in un presente minimale e ricorrente la propria irriducibile tensione egoica, per riscoprire, finalmente, la poesia delle piccole cose, in una sorta di Myricae contemporanea e di tributo alla magia del gioco di luci e ombre che traspare attraverso le foglie degli alberi (komorebi), quello sì, sempre diverso. Interessante l’entusiasmo manifestato da un pubblico che, probabilmente, incarna e riproduce quella stessa logica che spinge nella direzione opposta.

da Perfect Days

da Perfect Days

D’altra parte, il mondo pacificato di Hirayama si colloca nel contesto di un Paese a sviluppo avanzato, terza potenza economica globale per PIL, entro il quale, però, il modello economico capitalista non ha pervaso ogni anfratto dell’identità culturale ma si è istituito su un sistema di valori, Asian Values (al centro di un acceso dibattito che intercetta la questione dell’universalità dei diritti umani), che per dirla in maniera estremamente riduttiva non riconosce all’individuo il centro della scena, ma anzi lo dissolve nella ragione del principio sovraordinato rappresentato dallo Stato, dalla famiglia, dalla comunità.

Un contesto in cui l’organizzazione del lavoro e i diritti ad esso connessi sono questione a dir poco controversa, dove la morte per troppo lavoro ha un nome (karoshi), mentre la traduzione della parola right, intesa come diritto soggettivo, ha attraversato vicissitudini complesse [1]. In Giappone circa 200 persone all’anno, secondo i dati Ethicjobs, muoiono di straordinario. Questi elementi di contraddizione possono ispirare una riflessione su come, da una parte, l’Occidente vagheggi di liberarsi da sé stesso e dalle pressanti ingiunzioni a cui è sottoposto, per riscoprire il piacere dell’amorevole e dedito gesto di cura del bene comune e della contemplazione fine a sé stessa, dall’altra, su come l’Oriente sia capace di mettere a profitto un’attitudine antropologica consolidata in tradizioni millenarie, asservendola ad una logica di produzione e iper-produttività capitalistica.

locandinaWenders aveva già ritratto la capitale del Giappone nel 1985, con il documentario Tokyo-Ga, un omaggio a Yasujiro Ozu morto vent’anni prima. Hirayama è lo stesso nome del protagonista del suo ultimo film: Il gusto del sakè. Torna a Tokyo grazie all’invito di girare una serie di cortometraggi dedicati ai bagni pubblici e agli architetti che li hanno pensati, con il fine di promuovere l’efficienza e l’accoglienza nipponica. L’associazione no-profit Nippon Foundation, infatti, nel 2020 aveva lanciato l’iniziativa The Tokyo Toilet: una chiamata rivolta a 16 architetti e designer giapponesi di fama mondiale per realizzare delle nuove toilet ubicate in 17 località di Shibuya, distretto conosciuto come uno dei centri della moda e della vita notturna, ripensandole in chiave di accessibilità, sicurezza e bellezza.

In effetti, nonostante il regista abbia scelto di centrare intorno a un soggetto umano la narrazione, questi luoghi, progettati dai migliore architetti, raccontati da un gigante del cinema, sacralizzati dalla liturgia che prende forma nella ricerca del gesto perfetto che li rende lustri e splendenti, sono, a mio parere, l’indiscusso protagonista e il valore del film.

Shibuga City, Tokio, un bagno pubblico

Shibuga City, Tokio, un bagno pubblico

L’accesso pubblico all’igiene e il diritto a soddisfare dignitosamente le primarie necessità materiali, tra cui quella di usare un bagno è sicuramente tanto imprescindibile quanto poco nominata (ma non l’unica), stanno nel novero dei diritti umani. Nelle nostre città, oltre a comparire le panchine con i dissuasori per chi si vorrebbe sdraiare, stanno scomparendo i bagni pubblici. Quelli che ci sono ormai sempre più spesso sono a pagamento: la pulizia (in appalto) ognuno la paga da sé e chi non può farlo evita di usarli (cosa usi non si sa). A Shibuya una questione che solo erroneamente si può considerare privata (o privatizzabile), in realtà sociale, ambientale, urbana, diventa tema pubblico e l’amministrazione non solo se ne fa carico conferendo la dovuta importanza a un servizio essenziale, ma lo fa con una certa grandiosità. I bagni, così, diventano l’oggetto emblematico della città e della proverbiale efficienza nipponica. Anche Hirayama si lava in un bagno pubblico, seppur non hi-tech.

Questa, a mio parere, è la suggestione più importante che il film ci porta e in questa chiave io leggo il personaggio di Hirayama, non tanto come virtuoso esempio della capacità individuale del prendersi cura della vita come è e delle piccole cose, ma come figura antropomorfa che con una straordinaria enfasi estetica simbolizza la rilevanza pubblica dei bisogni sociali e del bene comune. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
Note
[1] Ajani G., Serafino A., Timoteo M., con la collaborazione di Chen Han, Ortolani A., Rossi P. (2019), Diritto dell’Asia Orientale, in Sacco R. (a cura di) (2019), Trattato di Diritto Comparato, UTET, Torino. 

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Chiara Lanini, pedagogista, operatrice sociale, Phd in Scienze Sociali presso Disfor-Unige, curriculum Migrazioni e Processi Interculturali. Dal 1995 ad oggi lavora in ambito educativo, è cultrice della materia presso le cattedre di Sociologia della Famiglia e di Sociologia dell’educazione e docente a contratto di Sociologia dei Media presso il Corso di Laurea in Media, Comunicazione e Società dell’Università di Genova.

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