di Rosario Lentini
La descrizione di quella vasta e composita area della Sicilia occidentale denominata Valle del Belice ‒ necessario presupposto alla conoscenza della sua viticoltura e dei suoi vini ‒ impone prioritariamente alcune precisazioni che attengono ai suoi caratteri identitari, che nel corso dei secoli hanno subìto modifiche e variazioni, a cominciare proprio dal nome del fiume che la attraversa: Hypsas (Υψας) in greco, Hypsa nel Naturalis Historia di Plinio il Vecchio [1], Bilich in arabo, come riportato nel diploma episcopale della Chiesa di Girgenti (1082-1093): «[…] flumen de Bilich, quod est divisio Mazarie» [2], fino allʼodierno Belìce (dial. Bilìci), toponimo già rinvenibile nei testi cinquecenteschi: «[…] Belich sarracenice, sed Belicis vulgo hodie nominati» [3]. È il fiume, anche in questo contesto, che ha costituito il principale elemento di aggregazione umana, di formazione di nuclei abitativi, di sviluppo di attività produttive agricole e pastorali e che ha dato nome ad una Valle oggi territorialmente condivisa da tre province (Agrigento, Palermo e Trapani), in un avvicendarsi di Alto, Medio e Basso Belice [4].
Il corso dʼacqua si compone di due rami che traggono origine nelle alture del Palermitano: il destro, dai monti del circondario di Piana degli Albanesi e di Santa Cristina Gela, proseguendo per 55 Km, fino a congiungersi ‒ in prossimità del comune di Poggioreale ‒ con il ramo sinistro che, invece, discende dal massiccio di Rocca Busambra per 57 Km, passando a ovest di Corleone. Dopo la confluenza dei due corsi, il fiume prosegue per altri 50 Km, raccogliendo anche le acque del torrente Senore, per poi sfociare sul versante africano, tra Marinella di Selinunte (TP) e Porto Palo (AG). La superficie del bacino imbrifero che contribuisce ad alimentare il Belice viene ufficialmente stimata in 964 Km², interessando i comuni di Piana degli Albanesi, Bisacquino, Campofiorito, Contessa Entellina, Corleone, Gibellina, Menfi, Montevago, Sambuca di Sicilia, Poggioreale e Castelvetrano [5]. Si passa da unʼaltitudine massima di 1.613 metri (e media di 436) alla parte meridionale del bacino, più uniforme, collinare, pianeggiante e, infine, al livello del mare.
Si avvicendano suoli calcarei, nella parte alta, a quelli sabbioso-calcarenitici e marnoso argillosi nella fascia meridionale. I terreni, pur nella prevalenza del seminerio, sono diffusamente ricoperti dai vigneti e dagli oliveti, che dallʼetà moderna ai nostri giorni rappresentano elementi caratterizzanti del paesaggio agrario. Il terremoto del 1968 con il suo carico di morti e di devastazioni, oltre a sconvolgere la vita degli abitanti, ha avuto lʼeffetto di portare allʼattenzione della comunità nazionale principalmente i sei comuni più colpiti (Gibellina, Montevago, Poggioreale, Salaparuta, Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa), fin quasi a ridefinire la delimitazione e lʼidentità della Valle medesima, inclusa lʼaccentazione del nome: da Belìce (piana) a Bèlice (sdrucciola), per opera e influenza dei media che hanno adottato, diffuso e notificato questo uso.
Le variazioni intervenute negli ultimi cinquantʼanni ‒ dei dati demografici e degli assetti economico-produttivi ‒ e le principali questioni sociali irrisolte sono state oggetto di numerosi studi, non ultimo per importanza il rapporto REVES pubblicato nel 2016 nel quale è stata proposta una rappresentazione «a geometria variabile» del territorio in questione:
«In riferimento al Belice, ciò significa che il suo territorio è qui considerato non come quellʼarea nella quale i due bracci del fiume Belice si riuniscono […] quanto piuttosto come unʼarea aggregata (o aggregabile) intorno a diversi specifici fattori socio-economici e culturali (come ad es. lʼeconomia agricola, fortemente improntata alla viticoltura e olivicoltura; lʼesperienza del terremoto del 1968; lʼelevata presenza di beni confiscati alla mafia), che delineano una identità territoriale comune» [6].
Non deve sorprendere, quindi, se negli ultimi venti anni, una serie di strumenti e politiche di programmazione (piano strategico, patto territoriale, patto agricoltura, piani di indirizzo territoriale, gruppi di azione locale, itinerari e strade del vino) riguardanti la Valle (da Salemi e Vita nella parte centro-occidentale a Camporeale e Sambuca di Sicilia sul versante opposto), hanno incluso anche alcuni comuni geograficamente esterni alla stessa (Buseto Palizzolo, Custonaci, Erice, Valderice).
Sul piano della ricostruzione della sua storia antica, nel Belìce si concentrano evidenze di insediamenti umani che rimandano a tempi remoti, risultato della convergenza di popoli diversi. Tra il II e il I millennio a.C. lʼarea occidentale della Sicilia era già abitata dai Sicani, poi dagli Elimi (fondatori di Segesta, Erice, Entella) ai quali si sarebbero aggiunti i Fenici, interessati, questi ultimi, soprattutto agli scali marittimi commerciali (primo fra tutti Mozia, VIII sec. a.C.). Dopo la fondazione di Selinunte (650 a.C.) ‒ la più importante e ricca colonia greca della Sicilia occidentale ‒ il preesistente equilibrio si infranse, ma sarebbero stati i Cartaginesi a prevalere e a distruggere lʼinsediamento, una prima volta nel 409 a.C. e una seconda volta nel 250 a.C.
Fino a quel momento, la cerealicoltura non aveva ancora assunto quella centralità che avrebbe guadagnato durante la dominazione romana e poi bizantina e ancora nei secoli XVI-XVII allorché lʼaristocrazia intravide nuove occasioni di arricchimento e di consolidamento del proprio potere, ottenendo dai re di Spagna ‒ principalmente Filippo II (dal 1556 al 1598) e Filippo IV (dal 1621 al 1665) ‒ il diritto a popolare feudi abbandonati e terre incolte. Nacquero così le «città nuove» di Campobello di Mazara (nel Campus belli del combattimento tra Segestani e Selinuntini), Camporeale, Menfi, Montevago, Poggioreale, Santa Margherita e Santa Ninfa (su un ex feudo del barone Graffeo di Partanna).
A seguito dellʼavvio del relativo processo di antropizzazione, la viticoltura segnò una decisa crescita, soprattutto a Campobello di Mazara, Castelvetrano e Menfi. In questi due ultimi centri agricoli, rientranti nel dominio della prestigiosa e altolocata dinastia dei principi Pignatelli Aragona, la viticoltura ‒ come ha evidenziato Rossella Cancila, analizzando i manoscritti di inizio Settecento, redatti per descrivere le condizioni dei feudi da loro posseduti ‒ rappresentava il punto di forza dellʼeconomia della zona: «[…] era soprattutto la coltivazione della vite e la produzione del vino a condizionare fortemente lʼeconomia dello stato nel suo insieme. A tal punto che la crisi del settore vinicolo rischiava di comprometterla fortemente» [7]. Grandi quantitativi di vino venivano imbarcati per il porto di Civitavecchia destinati al mercato di Roma, almeno fino agli anni Venti del Settecento, quando la forte concorrenza dei vini leggeri provenienti dalla Francia, dalla Toscana e dalla Lombardia provocò una brusca caduta delle esportazioni vinicole, i cui effetti si scaricarono soprattutto sugli enfiteuti vassalli, obbligati per contratto a impiantare vigneti. Come acutamente notava il Di Marzo nel 1858, i vini di Castelvetrano erano «da gran tempo passati in proverbio» [8].
Ciascuno dei paesi del Belìce meriterebbe un approfondimento specifico, ma in questo contesto va fatto almeno cenno ai tratti essenziali delle vicende socio-economiche di alcuni di essi. I tre paesi della provincia agrigentina ricadenti nella Valle ‒ Santa Margherita, Menfi e Montevago ‒ hanno avuto percorsi comuni e spesso intrecciati. Il primo, sorto nel sito del preesistente casale arabo Manzil-Sindi, trae la sua origine nellʼatto di fondazione del 1572, ma soltanto dal 1610 la licenza regia venne utilizzata inizialmente dai Corbera per dar vita al borgo rurale e, dal 1636, ‒ a seguito di frazionamento ‒ anche dai Filangeri. Come rilevato da Pomara Saverino, fin dai primi decenni, non si era in presenza di un paesaggio agrario a monocoltura cerealicola: «[…] si afferma senzʼaltro un altro paesaggio, che anzi diventa predominante: quello dei vigneti. […] Nel 1651 la ricchezza proveniente dal settore vitivinicolo è stimabile al 54%, il doppio rispetto a quella derivata dal cerealicolo (27%). […] Questa constatazione per Santa Margherita aiuta a rimettere in discussione il caposaldo storiografico secentesco della Sicilia occidentale come terra quasi esclusivamente riservata al cereale»[9].
Risale quasi certamente al periodo svevo, invece, la costruzione della torre di Menfi e del castello di Burgimilluso (Burgimillus), nel luogo dove Federico II ordinò la costruzione di un abitato e dove si presume esistesse, nel IX secolo, un casale musulmano. Sarà tuttavia solo con la licentia populandi del 1637 che si svilupperanno in misura preponderante sia la cerealicoltura che il pascolo, mentre bisognerà attendere lʼOttocento per osservare la diffusione del vigneto.
Diverso ancora, lʼandamento della viticoltura a Montevago; verso la fine del Cinquecento la vasta baronia di Miserendino, che fin dal 1392 era stata concessa da re Martino al conte di Adernò, includeva tre feudi, in uno dei quali (Gipponeri) si sarebbe costruito lʼabitato, autorizzato nel 1636 a beneficio di Girolama Xirotta e su di esso, cinque anni dopo, il figlio avrebbe ottenuto il titolo di principe di Montevago. Alla formazione del primo nucleo contribuirono soprattutto gli abitanti dei paesi vicini (Santa Margherita, Sambuca, Poggioreale e Partanna), «certamente invogliati dalle vantaggiose condizioni dei patti agrari» [10]. Come nel caso di Santa Margherita, anche qui, la documentazione fiscale segnala la forte prevalenza del vigneto rispetto alla cerealicoltura. A fine Seicento, agli Xirotta subentrarono i Gravina, il cui casato avrebbe favorito la crescita demografica e lo sviluppo delle attività agro-pastorali. A metà Ottocento, purtroppo, sarebbe iniziata una lunga fase di declino, accompagnato dal fenomeno dellʼemigrazione e dalla perdita di parte del suo potenziale produttivo agricolo, specialmente dopo il terremoto del 1968.
Nella parte centro-orientale, Contessa Entellina, è stata la prima colonia albanese a costituirsi in Sicilia, risalente al 1448, il cui abitato sorge sotto lʼantica rocca di Calatamauro. Nei capitoli istitutivi della comunità si precisava espressamente che «[…] detti habitatori possano e digiano haveri terri in li detti feghi [feudi] per fare vigne» [11] e questo indirizzo colturale venne perseguito per più di un secolo. Successivamente sarebbero prevalse nuove esigenze e bisogni determinati dalle difficili condizioni di vita dei contadini, in una realtà lontana dagli snodi commerciali della Valle che avrebbero favorito, da metà del Settecento in poi, il prevalere dei cereali fino ad emarginare ogni altra coltura. Dalla metà del secolo successivo, quando il paese contava circa 3.500 abitanti, iniziava il progressivo calo demografico che oggi si attesta su 1.500 unità.
Sempre al periodo arabo (sec. X) risale il toponimo Partanna, riferito ad un casale dove sarebbe sorto il paese di cui divennero e rimasero signori feudali, dal 1190 fino a inizio Ottocento, i baroni (poi principi) Graffeo, mentre il poderoso castello risale alla metà del XIV secolo. Nella prima metà del Seicento lo storiografo Rocco Pirri segnalava come il territorio di Partanna fosse ricoperto in maggior parte da vigneti la cui coltivazione «non lieve guadagno rende agli abitatori» [12].
Una lettura di sintesi del paesaggio agrario della Valle, per lo meno dal Settecento a tutto lʼOttocento, porta a individuare nella fascia costiera e nel relativo hinterland trapanese-agrigentino uno dei caratteri identitari rappresentato dal predominio della vite, senza soluzione di continuità, nelle campagne di Marsala, Mazara del Vallo, Campobello di Mazara, Castelvetrano fino a Menfi. E unʼanalisi più approfondita, a partire dai dati del Catasto borbonico raccolti ed elaborati dalla fine degli anni Trenta dellʼ800, mostra come la superficie destinata alle viti nella provincia di Trapani ‒ in rapporto allʼestensione totale del suo territorio ‒ fosse pari allʼ8,3% corrispondente cioè a 20.742 ettari e sarebbero più che raddoppiati un secolo dopo: 17%, pari a 42.503 ettari nel 1948[13]. Nella tabella sottostante si può osservare anche lʼandamento della coltivazione in alcuni comuni della Valle, in tempi diversi:
Risulta molto evidente la brusca regressione dei vigneti, più che dimezzati dopo il 1985 (98.000 ettari nel 2021), fino a un livello inferiore a quello dei primi decenni dellʼOttocento, fermo restando, ciò nonostante, il primato nazionale della Sicilia e in particolare della provincia di Trapani, per superficie vitata. Interessante notare, al contempo, la crescita significativa registrata nei territori di Santa Margherita, Camporeale, Partanna e Santa Ninfa, nel corso di 150 anni.
Lungo tutto lʼOttocento e buona parte del secolo successivo, la notevole frammentazione degli appezzamenti viticoli, sia di proprietà che in affitto ‒ soddisfatte le esigenze dellʼautoconsumo ‒ induceva i coltivatori a rimanere nel solco della “tradizione” commerciale e cioè, scegliere se trasportare uve, mosti o vini prodotti nei mercati locali viciniori; vendere ai mediatori e sensali; conferire agli stabilimenti enologici ‒ e nel Novecento, anche alle cantine sociali ‒ che andavano sorgendo, dislocati nei centri maggiori delle province di riferimento, salvo qualche eccezione.
Lʼautorevole Giuseppe Antonio Ottavi, invitato per ragioni di studio, nel 1865, a valutare le condizioni dellʼagricoltura nella provincia di Agrigento, osservava come vi dominassero le uve bianche: «vi ho però bevuto eccellenti vini rossi» e nel corso dei sopralluoghi incontrava a Menfi «un valentissimo viticoltore il signor Blandina Giovanni, il quale mi disse di preferire, per le viti, le sole spalle alle barbolotte» [14] (Ottavi italianizza “barbolotta” dal dialettale siciliano varvotta cioè barbatella).
A Partanna, nel 1879, il principale imprenditore agricolo, Girolamo Patera Polizzi, con uve Catarratto e Inzolia, produceva un vino da pasto di prima qualità: «Raccolta lʼuva a maturità, si pigia coi piedi e si versa il mosto nelle botti che nel periodo della fermentazione si lasciano colle bocche scoperte. Quindi si turano ermeticamente. In gennaio si travasa la prima volta, indi di 3 mesi in 3 mesi» [15].
I fratelli Saporito Ricca di Castelvetrano erano proprietari di un importante stabilimento enologico, fondato nel 1874 in contrada San Nicola di Mazara, nel quale erano impiegati circa 30 operai, per la produzione di vino tipo marsala [16]. Un ottimo vermouth, premiato con diploma di medaglia dʼoro fu presentato nella sezione enologica di Marsala allʼEsposizione del 1903: «Questo campione fu esposto dai fratelli Giarratani di Menfi assieme ad una specialità chiamata Amaro Menfi» [17], liquore «antimalarico, tonico, ricostituente» [18].
Si trattava ‒ almeno fino alla seconda metà del Novecento ‒ di poche eccezioni e di un esiguo numero di imprenditori vinicoli operanti nei paesi dellʼarea centrale del Belìce, rispetto a quelli della fascia litoranea, nonostante lʼesistenza di una vasta platea di viticoltori. Dʼaltronde, è comprensibile quanto sia stata condizionante e sovrastante lʼattività dellʼindustria enologica del marsala, in grado di assorbire ingenti quantitativi di mosto e di vini dalle campagne della Sicilia occidentale.
Unʼindagine accurata e preziosa per la conoscenza delle condizioni della viticoltura siciliana, allʼinterno della generale inchiesta parlamentare sullo stato di salute dellʼagricoltura nazionale, venne pubblicata nel 1885 e a questo studio si deve fare riferimento per rilevare informazioni che non risentono ancora delle conseguenze nefaste della diffusione della fillossera, già individuata in alcune contrade siciliane a partire dal 1879.
Va osservato, innanzi tutto, che lʼestensione della superficie vitata nellʼIsola, accertata dallʼindagine parlamentare, risultava pari a 321.718 ettari (seconda solo al seminerio), la punta più alta mai registrata in passato, che avrebbe segnato anche il tornante della discesa progressiva, come mostrato in tabella. Per la più puntuale descrizione del patrimonio varietale viticolo, il deputato commissario relatore dellʼinchiesta Abele Damiani si avvalse della competenza del barone Antonio Mendola (nato a Favara, nellʼAgrigentino), ampelografo rinomato e apprezzato non solo in Italia, il quale diede un contributo fondamentale alla conoscenza dello stato di fatto, per le province di Agrigento e di Trapani. Lʼelenco relativo ai «Nomi dei vitigni generalmente coltivati nella provincia di Girgenti» comprendeva ben 95 uve, tra le quali, per esempio, la Damaschina bianca, da vino e da tavola, molto coltivata a Menfi; la Guarnaccia bianca a Campobello di Licata; il Domiano nero a Castrofilippo e a Naro [19]; «Per lʼimpianto dei maglioli e dei cordazzi [tralci di due anni] si praticano scassi alla profondità di circa un metro. I tralci si sotterrano a circa 80 centimetri; le barbatelle invece vengono poste alla profondità di solo 30 centimetri» [20].
Lʼelenco approntato sempre dal Mendola per la provincia di Trapani comprendeva, invece, 41 varietà tra le quali il “neonato” Grillo bianco che prima di allora era stato citato una sola volta da altra autorevole fonte, nel 1873 [21] e che nei decenni successivi si sarebbe imposto allʼattenzione degli enologi e non soltanto tra quelli del mondo del vino marsala.
Nella parte meridionale e litoranea della Valle, i vini risultavano più alcoolici rispetto a quelli prodotti nei paesi collinari (Alcamo, Calatafimi, Salemi, Partanna e Gibellina), nei quali «in causa del frazionamento quasi eccessivo della proprietà, i vitigni sono svariatissimi, con produzione di vini di qualità inferiore e poco alcoolici» [22]. Riguardo alle rese vinicole per ettaro, nella relazione Damiani si riportano differenze talvolta notevoli, segno evidente di criteri e parametri colturali disomogenei: 21 ettolitri mediamente nellʼAgrigentino; 10 a Gibellina; 19,8 a Contessa Entellina; 25 a Poggioreale; 30 a Salaparuta; 36 a Camporeale, dove ogni ettaro comprendeva quattro mila viti; 71 ettolitri a Piana degli Albanesi.
A fine Ottocento, in provincia di Agrigento, la viticoltura aveva perduto molto della sua capacità attrattiva rispetto ad altre colture e ciò già prima dellʼarrivo della fillossera, come si rileva dalle considerazioni di una successiva indagine ministeriale:
«Questa provincia, la quale in antico produsse molto vino assai pregiato, che mandava in tutti i mercati del vecchio mondo, oggi ha poca importanza nella produzione vinaria. […] A Sciacca e a Menfi, centri vitiferi più importanti, si producono buoni vini bianchi, molto simili a quelli della provincia di Trapani. Essi, infatti, derivano dalle medesime qualità di uve Catarratto e Inzolia» [23].
Con riferimento alla provincia di Palermo, invece, si segnalavano come principali centri viticoli Partinico, San Giuseppe Jato, Bagheria, Casteldaccia, Misilmeri e Terrasini, ma non Camporeale, Contessa Entellina e Piana degli Albanesi, segno evidente anche degli effetti dellʼemigrazione. Riguardo alla provincia di Trapani, infine, si sottolineava la vastità dei vigneti che ricoprivano la fascia costiera e la pianura da Marsala a Castelvetrano: «I vigneti maggiormente coltivati sono: il Catarratto, lʼInzolia, la Damaschina, la Guarnaccia, la Greca, il Moscatello e la Malvasia per le uve bianche» con i quali si producevano circa due terzi dei vini della provincia; il Pignatello, il Nerello, il Calabrese, il Mantonico, il Catanese, il Grecanico e lʼInzolia nera, invece, per le uve nere» [24].
Come noto, il quadro generale dei fattori (di produzione e di mercato), che fino a tutto il XIX secolo avevano consentito alla viticoltura siciliana di crescere a dismisura, si frantumò non appena le conseguenze della diffusione del parassita fillosserico si fecero più evidenti, trascinando nel fallimento e nella miseria migliaia di braccianti, di enfiteuti e di piccoli proprietari. Se nel 1893 i comuni dichiarati fillosserati nelle province di Agrigento e di Trapani erano, rispettivamente, 16 e 3, nel 1908 divennero 40 e 19 [25].
A Santa Ninfa, per esempio, solo nei primi del nuovo secolo cominciò a ricostituirsi il vigneto, individuando, dopo non pochi insuccessi, due porta innesti compatibili: il Rupestris du Lot e lʼAramon Rupestris Ganzin n. 1: «Il sistema di educazione della vite è quello basso con sostegni morti (canne). Dalle varietà di uva più comuni Catarratto, Grillo, Fumuso, Insolia, ecc.) che si innestano sul selvatico con buona affinità, si ricava un liquore discretamente aromatico ricco in alcool, che basta appena per il consumo interno» [26].
Bisognerà attendere lʼultimo quarto del Novecento per cominciare ad assistere ad una rigenerazione della viticoltura e dellʼenologia belicina. Prospettive incoraggianti di sviluppo su diversi piani si sono concretizzate con la partecipazione dei comuni di Contessa Entellina, Menfi, Montevago, Sambuca di Sicilia, Santa Margherita di Belice e Sciacca ‒ allʼitinerario-sistema “Strade del vino di Terre Sicane”, creato nel 2001, che ha contribuito a far crescere lʼattenzione sulla qualità della produzione vinicola, con la riscoperta dei vitigni autoctoni (Catarratto, Inzolia, Grecanico e Nero dʼAvola) e lʼimpianto di alcune varietà alloctone (Chardonnay, Syrah, Cabernet Sauvignon, Merlot), e sulla valorizzazione degli aspetti paesaggistici, archeologici e storici.
Come evidenziato in uno studio del Cerisdi: «Al vino di S. Margherita, è stato riconosciuto il marchio D.O.C. e IGT, che evidenzia la qualità espressa dal settore vitivinicolo in questʼarea geografica tipica» [27], frutto anche di una più efficace riorganizzazione della base associativa dei viticoltori la cui produzione fornisce eccellente materia prima ad un gruppo di rinomate aziende e cantine sociali operanti nel territorio. Le principali cultivar impiantate tra Santa Margherita e Montevago sono Ansonica (Inzolia), Catarratto, Grecanico, Nero dʼAvola e Sangiovese.
A Santa Margherita, nel palazzo Filangeri di Cutò ha sede ufficiale il “Parco letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa”, in omaggio allʼautore del Gattopardo che qui trascorse diversi periodi in età giovanile; al castello Grifeo di Partanna è stato recentemente inaugurato un moderno allestimento del Museo Regionale di Preistoria del Belìce e a Salemi, nel 2019, è stato realizzato lʼEcomuseo del Grano e del Pane. La nuova Gibellina, risorta grazie allʼimpegno, alla tenacia e alla visionarietà dellʼavvocato Ludovico Corrao, intellettuale e politico locale (più volte sindaco, deputato e senatore) è ormai entrata a pieno titolo nei circuiti internazionali, grazie alla creazione di due istituzioni culturali rilevanti: il Museo delle Trame Mediterranee e la Fondazione Orestiadi, attraverso le quali sono stati coinvolti artisti e protagonisti del mondo letterario e teatrale, italiani e stranieri, di grande prestigio. La Fondazione, dal 2008, in collaborazione con una cantina locale, ha avviato anche la produzione di un rosso DOC Sicilia (90% Nero dʼAvola e 10% Cabernet Sauvignon) molto apprezzato e premiato.
«Dalla fine degli anni ʼ80, vanno così delineandosi processi di riconversione e di ristrutturazione dei vigneti a favore di una produzione orientata al mercato del vino confezionato e di qualità» [28], merito non soltanto dellʼinnovazione sul piano tecnologico e gestionale, ma soprattutto di nuove competenze e di un vitale ricambio generazionale. Diverse tipologie di vini dei territori di Contessa Entellina (dal 1993), Menfi e Sambuca (dal 1995), Santa Margherita di Belice (dal 1996) e Salaparuta (dal 2006) hanno ottenuto il riconoscimento della DOC; così come dal 1995 è stata attribuita la IGT ad alcuni vini nei territori di Salemi, Partanna (Camarro IGT) e, sotto la denominazione di Valle Belice IGT, a quelli di Menfi, Montevago, Santa Margherita per la provincia di Agrigento e di Contessa Entellina per la provincia di Palermo [29].
È lʼennesima conferma della validità e potenza rigeneratrice del binomio agroindustria-patrimonio culturale [30] in un territorio piegato dalla stagnazione di un “dopo terremoto” durato troppo a lungo; binomio in grado, finalmente, di creare sviluppo sostenibile e occupazione qualificata.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Caii Plinii Secundi (Plinio il Vecchio), Historia Naturalis ex recensione I. Harduini et recentiorum adnotationibus, J. Pomba, Torino 1831: 131.
[2] Contributo allo studio della diplomatica siciliana dei tempi normanni. Diplomi di fondazione delle Chiese episcopali di Sicilia (1082-1093), «Archivio storico siciliano», n.s., anno XVIII, 1893: 51.
[3] Fazello T., De rebus siculis decades duae, Palermo 1568, libro VI: 146.
[4] Piano di Gestione del Distretto Idrografico della Sicilia, relativo al 2° Ciclo di pianificazione (2015-2021), approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27/10/2016.
[5] Regione Sicilia, Assessorato del Territorio e dellʼAmbiente, decreto 4 luglio 2000, Piano straordinario per lʼassetto idrogeologico. Relazione generale, cap. 2° – “I bacini idrografici”.
[6] Studio di Caso Valle del Belice. Inquadramento del contesto, analisi, valutazione, Progetto pilota di valutazione locale REVES, coordinatore del progetto Serafino Celano, supervisione scientifica di Laura Tagle, 2016: 11.
[7] R. Cancila, Gli occhi del principe. Castelvetrano: uno stato feudale nella Sicilia moderna, Viella, Roma 2007: 42.
[8] V. Amico, Dizionario topografico della Sicilia, a cura di Gioacchino Di Marzo, Palermo 1858, tomo I:169.
[9] B. Pomara Saverino, Facendi vitam novam, populationem et habitationem. Economia e società nel Seicento a Santa Margherita, in Santa Margherita di Belìce. Dallʼorigine dellʼagro-town alla città nuova (1610-2010), a cura di Giovanna Fiume, Palermo 2012: 120-121.
[10] R. La Duca, Montevago, Palermo 1982: 6-7.
[11] F. Di Miceli, I riveli di Contessa Entellina del 1623, Palermo 1987: XVIII.
[12] V. Amico, Dizionario topografico della Sicilia cit., tomo II: 323.
[13] F. Pollastri, Sicilia, I.R.E.S., Palermo 1948, vol. III: XXXVII.
[14] G.A. Ottavi, Principii generali di agricoltura per le regioni calde, Casale 1866: 228 e 238.
[15] Consorzio interprovinciale di Sicilia pei concorsi e congressi agrarj, Palermo 1879: 75.
[16] Annali di statistica. Condizioni economiche della provincia di Trapani, Roma 1896: 49.
[17] 1ᵃ Esposizione Agricola Siciliana, Marsala 1903: 130.
[18] Guida commerciale dʼItalia e delle colonie italiane allʼestero, Roma 1908: III.
[19] Atti della Giunta per lʼInchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Roma 1885, vol. XIII, tomo II, fasc. IV, commissario relatore Abele Damiani:101.
[20] Ivi: 100.
[21] A. Alagna Spanò, La vite ed il vino in Marsala, «Giornale di Agricoltura, Industria e Commercio del Regno d’Italia», anno X-1873, vol. XX (luglio-dicembre): 232-233; anno XI-1874, vol. XXI (gennaio-giugno), in particolare: 6-8.
[22] Atti della Giunta per lʼInchiesta agraria cit.: 315.
[23] Notizie e studi intorno ai vini ed alle uve dʼItalia, Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Roma 1896: CXCII-CXCIII.
[24] Ivi: CXCIV.
[25] R. Lentini, Lʼinvasione silenziosa. Storia della Fillossera nella Sicilia dellʼ800, Torri del Vento, Palermo 2015: 100.
[26] G. Granozzi, Lʼagricoltura. La proprietà fondiaria e gli agricoltori nel comune di S. Ninfa, 1911, riedizione Ila Palma, pref. Rosario Lentini, Palermo 1981: 86-87.
[27] Santa Margherita di Belìce, Centro Ricerche e Studi Direzionali, Palermo 2004: 71.
[28] Studio di Caso Valle del Belice cit.: 28.
[29] Disciplinare di produzione dei vini a Indicazione Geografica Tipica “Valle Belice”, approvato con DM del 10.10.1995 e successive modifiche.
[30] A. Cusumano, Il Museo etnoantropologico della Valle del Belice, Università di Palermo, Palermo 1986.
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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero e ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni. È autore di numerosi saggi pubblicati anche su riviste straniere. Tra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano: La rivoluzione di latta. Breve storia della pesca e dell’industria del tonno nella Favignana dei Florio (Torri del vento 2013); L’invasione silenziosa. Storia della Fillossera nella Sicilia dell’800 (Torri del vento 2015); Typis regiis. La Reale Stamperia di Palermo tra privativa e mercato (1779-1851) Palermo University Press 2017); Sicilie del vino nell’800 (Palermo University Press 2019)
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