La vocazione tragica della forma è data dal suo costitutivo e costituente legame con la vita – problematico quanto necessario è il loro coabitare. La vita, proprio perché inesauribile e sempre volta all’oltrepassamento dei modi in cui essa viene edificata, esperita e interpretata, rende tragica ogni forma raggiunta. Il saggio di Roberto Fai. La vita e le forme. Sulla crisi della potenza istituente (Apalos 2023), breve ma filosoficamente denso, pone come argomento principale il legame tra la vita e le fòrme con particolare attenzione alla crisi del potere istituente, e dunque in relazione alla forma che per eccellenza sgorga dalla dimensione politica dell’esserci umano in der Gesellschaft (Fichte, Missione del dotto), e che di questa dimensione cerca di realizzarne le strutture più efficaci per la vita, di coglierne le necessità abissali che la abitano, di tracciare le direzioni del suo caleidoscopico sviluppo.
La presente ‘discussione’ non vuole di certo essere una sinossi del saggio in questione, e non può, pertanto, limitarsi a enuclearne i punti principali. Per questa ragione, ci si concentrerà su un aspetto che emerge dalla lettura de La vita e le forme, rintracciabile anche in altre opere dell’autore [1], ovvero la presenza di un elemento demiurgico dell’Occidente, della sua vita e delle forme che lo costituiscono attraverso la dialettica costruzione-distruzione: il tragico che, se nella riflessione di Fai trova il proprio centro nell’ambito della filosofia politica, si protende verso le diverse contrade della filosofia ricordando al lettore che una buona filosofia, ogni dire che sia autenticamente filosofico, è allo stesso tempo origine di altri sentieri ancora da esplorare. Filosofia è quel discorso che, costituendosi come πολύφημον ἄγουσα, strada ricca di canti (Parmenide, Περί Φύσεως, v. 2), nel suo rigore speculativo e metodologico è perpetua tensione verso ciò che lo mette, o potrebbe metterlo, improvvisamente in crisi. La possibilità della frattura è sempre dietro l’angolo, pronta ineluttabilmente a farsi strada.
Il saggio di Fai è attraversato da questa profonda consapevolezza che permette al lettore di affondare il bisturi della speculazione nella carne viva di Europa, nei reconditi anfratti della crisi, nei sentieri scoscesi del suo dramma attuale: «dove, come e “chi” – quale “soggetto”, proviamo ad azzardare! – è in grado di individuare una via di uscita? Ma qui, la filosofia, come sempre, si arresta sulla soglia degli eventi a venire» (ivi: 74). Ci si imbatte, dunque, in un inevitabile confronto – dialogo fecondo – con molti autori protagonisti del Novecento filosofico e pensatori contemporanei che hanno saputo cogliere e accogliere nel proprio pensiero «la realtà del tempo, i mutamenti sociali, il nuovo modo di produzione»: fattori che «avrebbero inciso irreversibilmente nelle trame dell’esistenza e dell’esperienza soggettiva» (ivi: 16). E se di mutamento si parla, allora bisognerà rispondere alla domanda: quale mutamento agita l’adesso di Europa? Fai individua nel problematico intreccio di vita e forme la tensione che dal singolare (Vita) vuole il proprio esprimersi e traboccare nella molteplicità (Forme).
La tragedia della cultura moderna pone in evidenza il fatto che la vita si estrinseca oggettivandosi in forme, e
«le forme altro non sono che gli ineludibili luoghi di oggettivazione dell’esistenza, le trame di mediazione in cui si svolge l’esperienza vitale. Le forme non sono “altre” – l’altro – dalla vita, bensì la trasformazione ‘ interna’ e il rovesciamento che la vita sperimenta su se stessa. La vita, cioè, non come un polo contrapposto all’altro (le forme), bensì l’esistenza stessa che si esperisce oggettivandosi in forme» (ivi: 18).
Qui l’autore definisce il concetto di forma, problema che ha attraversato il dibattito filosofico del Novecento. A tal riguardo, risulta imprescindibile il riferimento, data, forse, l’evocazione implicita, al giovane Lukács. Nell’opera L’anima e le forme (Die Seele und die Formen, 1910) il filosofo ungherese esplora alcune forme letterarie che risultano essenziali per una profonda comprensione del prismatico agire umano e dei tanti modi in cui gli uomini edificano l’esistenza [2]. Ora, vi sono tre momenti in cui la riflessione di Fai incontra quella del filosofo ungherese. Stando a Lukács, la tragedia è la forma che squaderna le vette dell’esistenza, delle sue mete ultime e dei suoi confini estremi; tragicità rilevata da Fai quando afferma che «la vita, sempre esperita in forme, al contempo, reclamando per sé sempre “più vita”, è destinata a rompere la crosta delle forme date, e così, simul, essa stessa, incessantemente, si staglia come “più-che-vita”» (ivi: 22). In secondo luogo, sempre secondo il filosofo ungherese, l’autentico anelito che anima l’esistenza umana si manifesta come tensione perenne entro una forma che provoca – avente quindi in sé – la propria crisi. Tale anelito, che emerge anche dalla riflessione di Fai, coglie il movimento dell’uomo verso la propria individualità che si traduce nell’aspirazione a trasformare l’apice della propria esistenza in un “tracciato pianeggiante” di cammino esistenziale.
In altre parole, si tratta di cogliere «la costellazione della soggettività, il destino del soggetto, nelle trame cangianti di oggettivazione dell’esistenza: individuale e sociale, singolare e collettiva» (ivi: 23). Infine, se per Lukács la forma è «il giudice più alto dell’esistenza» [3] e la facoltà di rappresentare in una forma è una forza giudicatrice (fatto etico), Fai sembra muoversi su questa prospettiva quando dà ragione a Guarino nel constatare che «bisogna evitare l’equivoco che la forma debba necessariamente comportare la staticità. La forma, se vuole spiegare la realtà, deve aiutare a comprenderla in tutti i suoi aspetti» (ivi: 36-37): la non staticità della forma è data dal suo essere, appunto, un fatto etico. E qui l’autore porta alle estreme conseguenze il proprio pensare: la forma è forma-istituzioni e quest’ultimo componente della diade è costitutivamente caratterizzato da un “respiro ontologico” (Corneluis Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società), una prassi istituente – vitam instituere – che implica una continua tensione tra dentro e fuori (ivi: 34-35). Dunque: «Come andrà declinandosi questa vita, in un tempo in cui lo scarto tra vita e forme o, detta con altre parole, tra esistenza e istituzioni, appare la cifra dominante di un tempo/mondo unificato nei suoi sparsi ed ineffabili frammenti individuali?» (ivi: 28).
L’esigenza che si fa strada, nell’arduo tentativo di pensare la forma-istituzione, è quella di una dinamica teorico-prassica che dice il dinamismo della forma e il suo continuo cor-rispondere a ciò che si manifesta come mehr als Leben (più che vita). Si tratta, dunque, di «aprire l’Istituzione al flusso vitale di nuove istanze, riattivando quel potere costituente che svolge funzione trasformativa e democratica» (ivi: 36). Può l’istituzione aprirsi al mutamento, alla trasformazione che pertiene al suo stesso instituere (stando al vasto campo semantico dello stesso verbo: impiantare, fondare, costruire, preparare, disporre, stabilire, intraprendere, introdurre, ordinare, educare)? Interrogativo urgente del nostro tempo, posto che «esiste solo l’uomo quale si forma attraverso la mediazione delle istituzioni» (ivi: 37). Qui entra in campo quella che l’autore definisce formalizzazione istituente, secondo cui ogni prassi umana, essendo de facto tendente a istituzionalizzarsi, rende ogni istituzione perennemente soggetta a una crisi che sorge da una nuova prassi. Ecco il movimento dell’istituzione.
Fai non si tira indietro dall’urgente e complesso, nonché gravoso e problematico, tentativo di sottoporre
«l’Istituzione ad una radicale interrogazione, ad un corpo a corpo con il suo “fuori”, per coglierne innanzitutto la sua genealogia, innanzitutto per sviscerare quella che egli definisce «la relazione enigmatica tra istituzione e vita umana», chiave di volta per delineare un’inedita ontologia dell’attualità. In altri termini, l’unica chance per poter ricollocare ruolo e finalità dell’Istituzione nel nostro tempo» (ivi: 42).
Istituzione e vita umana: come pensare e dare nuovamente forma a ruolo e finalità dell’istituzione nel nostro tempo? Domanda euristica che guida il saggio di Fai e la sua lucida analisi del presente. Presente in cui Arconti e potenze di questo mondo [4] hanno iniziato a realizzare un mutamento epocale di paradigma politico-economico in cui si fa avanti la forma che pone la crisi della mediazione come suo culmine: sarà mai possibile neutralizzare questa violenza distruttrice? (Machiavelli). Biagio De Giovanni, nel suo saggio Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa [5], ci ha restituito il polso della situazione europea, diastole e sistole del presente con cui Fai si confronta dando uno sguardo alla dimensione più profonda che pertiene al plesso sorgivo vita-forma (La potenza del tragico nella storia d’Europa è la prima tappa dell’itinerario da percorrere – quale destino si delinea per l’uomo europeo?): irrompe, dunque, «la potenza del Negativo carica di un carattere conflittuale e affermativo, con un effetto pieno di dirompente visibilità, manifestando un’intenzione irriducibile di intensificazione e radicalizzazione, mobilitando istanze trasformative in grado di far saltare le forme istituzionali, messe sotto stress in quelle ricorsive crisi delle mediazioni – di ogni mediazione, potremmo dire!» (ivi: 53).
I mutamenti storico-politici d’Europa che la filosofia rileva “sul far del crepuscolo” conducono, inevitabilmente, alla fine della mediazione. Evento che non passa certamente inosservato alla riflessione di Fai. Se la crisi dell’istituzione che caratterizza l’attuale situazione politica dell’Occidente è frutto di una gestazione storica ben più lunga e travagliata, bisogna allora volgere lo sguardo anche al passato: «sta di fatto che, tra fine ‘800 e nuovo secolo, il pensiero filosofico e l’azione politica hanno vissuto e mosso la stagione della dissoluzione della mediazione» (ivi: 54).
Quale grande lacerazione viviamo? Quale soluzione è possibile pensare/progettare data la pericolosità che incombe a causa di questa tremenda urgenza? Il blocco o la lacerazione tra dimensione politico-sociale e istituzioni raggiunge oggi una notevole recrudescenza anche, e forse soprattutto, in forza del grande ἀγών attuale tra Politico ed Economico [6]. Le esistenze soggettive, come la collettività, risentono di questo enorme e prorompente squarcio, che tuttavia è possibile sanare a partire dalla riflessione sul Negativo che Fai assume nel proprio percorso dialogando con Esposito e De Giovanni. Pertanto,
«è qui in questione l’esigenza e l’urgenza di tenere lo sguardo sempre a quel “Negativo”, ontologicamente inestirpabile, non certo per usarlo come una clava nichilistica – o per addomesticarlo all’infinito nella sua (impossibile) “inquieta passività” –, bensì perché corrisponda all’insorgenza vitale che preme sull’Istituzione per un Novum necessario ed espansivo» (ivi: 55).
La riflessione dell’autore si contraddistingue per la sua appassionata, riccamente argomentata e storicamente fondata spinta propulsiva alla costruzione, rigettando così ogni retorica pessimistica, ogni debole rassegnazione: questa, certamente, la cifra inattuale di un pensiero che si pone all’altezza delle sfide del nostro travagliato presente. Che fare di fronte a quella che possiamo definire, posto il fondamento del coabitare di vita e forme, la crisi delle crisi che attraversa Europa? «nulla è più inefficace, e al contempo pericoloso, del mito neoanarchico di una società semplificata in un’alternativa secca tra istituzioni repressive e assenza di istituzioni» (ivi: 56). Anche qui vicinanze con Cacciari, il quale, ripensando le due celebri conferenze weberiane (Wissenschaft als Beruf del 1917 e Politik als Beruf del 1919), e in merito al Πόλεμος di cui si parla, indica l’orizzonte della progettualità politica, ovvero quello stare tipico dell’uomo che non si rassegna mai alla realtà così come essa è, affermando che «non è affatto scritto che così debba accadere. Certo, lo sviluppo delle forze produttive, intellettuali e politiche procede inequivocabilmente in quella direzione, e tuttavia guai a lasciarsi incantare dal pathos del pessimismo» [7].
Dimorare in questo tragico ἀγών vuol dire, dunque, bandire ogni parola che nel suo fare distruttivo non realizza, parimenti, una realtà altra che si concretizza a partire dal tentativo di trovare soluzioni affinché non prevalga bellum omnium contra omnes, affinché la crisi dell’istituzione non si traduca in fede che vede fallacemente nella sua scomparsa una promessa di compiuta gioia e di piena realizzazione della libertà umana. Si ode il riverbero di una celebre metafora platonica di carattere politico, ovvero quella della navigazione, come leggiamo nel libro VI della Repubblica: i naviganti sono sempre pronti a spodestare il capitano dal comando della nave e a fare a pezzi chi li contraddice. Essi stanno sempre attorno al capitano pregandolo e facendo di tutto perché affidi loro il timone, e se talvolta altri al loro posto riescono a persuaderlo li uccidono o li gettano giù dalla nave, e «dopo aver reso innocuo il buon capitano con la mandragora, con l’ebbrezza o in qualche altro modo, si mettono al comando della nave» [8]. La crisi del potere istituente è crisi del potere, è crisi del Politico. E come fare fronte a questa crisi in assenza di un capitano (Politico) che abbia le competenze per navigare?
Trovarsi oggi al comando della nave – compito gravoso che dovrebbe essere espletato sul fondamento di una profonda conoscenza/competenza – vuol dire fare propria l’esigenza di comprendere la scissione attuale in forza della quale
«il dibattito sulle istituzioni scivola verso due polarità estreme e inconciliabili. Da un lato la progressiva sclerosi istituzionale, dall’altro la libertà dalle istituzioni. Quando invece la via da percorrere passa per un nuovo nesso tra istituzioni e libertà». […] le implicazioni del doppio legame tra “vita-istituzioni” e “libertà-istituzioni”, sul crinale dell’oggi, in un corpo a corpo con l’esperienza ancora calda e vivente segnata dal turbamento che l’ospite unheimlich=perturbante – l’evento del Covid19 – ha determinato nelle nostre società» (ivi: 56, 60).
Riflettere sull’Europa vuol dire indagare il suo esserci storico, che sempre è e si sviluppa (prende forma) a partire dalle tensioni interne ed esterne dalle quali emergono numerose criticità, come quelle che riguardano la determinazione dei suoi confini politici e culturali. Urge uno sguardo a quelle aporie che stanno a fondamento della ricerca filosofica europea e che «appaiono originariamente e indistricabilmente connesse alla historìa, alla testimonianza, sistematicamente condotta, delle vicende che producono l’esserci storico dell’Europa, nelle sue radici culturali e politiche, ma anche come ‘figura’ geografica, come determinazione dei suoi confini» [9]. Conoscere l’Europa vuol dire accostarsi a quella “fondazione comune” e multiforme generata dalla sua radice storica, geografica, politica e filosofica.
A che punto siamo, dunque? In che modo il coabitare di vita e istituzioni può nuovamente essere posto al centro della nostra civiltà, dato anche il «carattere biopolitico della crisi pandemica» (ivi: 60) di cui abbiamo fatto esperienza negli ultimi anni? Fai indica un cammino da percorrere, le cui incognite si ergono come sfida per eccellenza del presente: «una prassi istituente all’altezza delle istituzioni» (ivi: 61). In altri termini, e tenendo in considerazione diversi aspetti della situazione politica attuale, «è possibile riattivare una prassi istituente al cospetto di un mondo segnato dal pieno affermarsi di una Global Age che ha prodotto una evaporazione della sfera politica e l’ineffettualità di ogni prassi istituente?» (ivi: 62-63)
La crisi della potenza istituente pone una domanda che tormenta oggi, più o meno tacitamente, ogni riflessione filosofico-politica e che l’autore formula capovolgendo una celebre frase weberiana: che ne è, oggi, del destino della politica? (ivi: 65). Nel tempo dell’“evaporazione della sfera politica”, dovuta in primo luogo al continuo e crescente logoramento inflittole dal “capitalismo cannibale”, il destino della politica è segnato inevitabilmente dal suo continuo indebolimento, che tuttavia non è mai qui parola ultima e definitiva.
Il percorso filosofico di Vita e forme. Sulla crisi del pensiero istituente tiene conto dei profondi mutamenti geopolitici di Europa dal secondo dopoguerra a oggi; scenari che il giurista Carl Schmitt avena ben delineato in Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung (1942) [10] (prima ancora che in Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, 1950) quando parla dei grandi spazi in tumulto tra loro. Ma, nonostante il grande orrore, come la bomba atomica a cui Schmitt fa riferimento, il saggio si conclude con un bagliore di speranza nei confronti dell’uomo che, dopo “la difficile notte”, si risveglierà al mattino riconoscendosi figlio della terra saldamente fondata. Dunque, riprendendo la domanda di Fai, è possibile tracciare una direzione in cui il destino della politica, proprio perché non è assolutamente detto che le cose debbano andare per forza in quel modo, possa rinnovarsi attraverso una forma-istituzione che accolga quel traboccare della vita che costituisce e definisce oggi la sua stessa crisi. Per tale ragione,
«è un fatto che, nell’attuale mondo globale, acefalo e senza centro, l‘egemonia sia espressa da quei Grossraum=grandi spazi geopolitici – sul baratro riemergente delle guerre –, tra loro in netta competizione, al punto che Esposito può scrivere che la “deregolamentazione e deformalizzazione sono diventate la nuova regola e la nuova forma del mondo contemporaneo”, e mentre segnala l’impasse dell’Europa indica per la vita del vecchio Continente l’urgenza di un’inedita forma perché possa reggere nella Global Age, dal momento che “sono gli stessi Stati ad aver organizzato il proprio ritiro impolitico rispetto alla prassi del capitale”, muovendo la critica ad una “Unione Europea, nata da un atto di volontà politica, ma costruita attraverso trattati giuridici [e come] un’istituzione mista, oggetto di uno scontro aspro tra diversi livelli di sovranità sovrapposti e giustapposti”» (ivi: 67-68).
Simone Weil ha portato un notevole contributo per comprendere la crisi delle istituzioni che avvolge anche il nostro secolo tracciando, allo stesso tempo, una risposta che Fai pone al centro della chiusa: date le istituzioni da noi create e riconosciute come garanti delle libertà democratiche, volte a proteggere le persone e ad attuare il diritto, «occorre inventarne altre destinate a discernere e abolire tutto ciò che nella vita contemporanee schiaccia le anime sotto l’ingiustizia, la menzogna e la bruttezza. Occorre inventarle perché sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili» (ivi: 69).
Tragica è la situazione attuale, e «sul capo di intere popolazioni, strette nella morsa della povertà mondiale, si scarica il crescente, insostenibile debito globale, nella forma punitiva della colpa. Mortale allegoria, se già dall’etimo, in lingua tedesca, la parola schuld, nomina il medesimo: schuld = colpa, debito» (ivi: 70). Al cospetto di quella che possiamo definire la grande sfida del nostro tempo «l’agire politico mostra evidenti tratti di ineffettualità, non è ineluttabile prendere atto – per dirla con Carl Schmitt – che “il politico” sia oggi incapace di contrastare la colossale egemonia del tecnico-economico-finanziari o globale?» (ivi: 71)
Pertanto, «che ne è della potenza di una prassi istituente, se né il pensiero né l’agire politico sono in grado di situare o disvelare “il posto del Re”?» (ibid.). Tortuoso il tentativo di formulare una risposta a tale domanda, ma non ci si può sottrarre da ciò. Si tratta di un quesito che, a sua volta, necessita la formulazione di un’ulteriore Grundfrage:
«può esser sufficiente l’orizzonte filosofico del pensare la politica a fare riattivare una prassi istituente in grado di squarciare le contraddizioni del mondo globale? Non è tardi? O forse, in un tempo epimeteico, è idea titanica sperare che il sinolo Europa-Filosofia possa risvegliare quella che si mostra nella figura di Europa inerme, su cui, nel 1921, Robert Musil svolgeva la sua diagnosi impietosa?» (ivi: 72-73).
Infine, «vi è ancora spazio per una “prassi politica” in grado di attivare la sporgenza vitale che riesca ad aprire al novum “l’Istituzione mondo”? (ivi: 73). Alla filosofia l’arduo compito di tentare delle risposte che possano far fronte alla vocazione tragica della forma.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Cfr. Id., Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità, Mimesis, Milano-Udine, 2013: 240-241: «Ed è per questa ragione, infatti – proprio nel nostro tempo –, che le domande attorno alla democrazia, sul suo senso, sulla sua ‘giustizia’, sul suo “avvenire”, non soltanto manifestano un’urgenza ed una radicalità senza precedenti, bensì convocano anche il destino della libertà a venire. Perché, in un mondo inevitabilmente messo in comune, globalizzato ed inscritto in un comune destino, esposto, come non mai, nella piena visibilità delle sue laceranti dissimmetrie, contraddizioni ed ineguaglianze, l’aspirazione alla libertà – quella “libertà” che è sempre venuta da fuori – sembra vivere la sua condizione aporetica, stante che non c’è un più un fuori cui potersi appellare». Cfr. anche Id., Pastorale arcadica. Per un regno giusto, Mimesis, Milano-Udine 2020: 145: qui l’autore presenta l’Arcadia come un “dirompente paradigma politico”, e nel capitolo finale Domande epitetiche su Europa e Mediterraneo afferma che «stanno qui le ragioni che – nella de-cisione, nella krísis che fa esistere Europa, «autonoma» rispetto all’Asia – fanno irrompere, producono, l’evento dello stesso esserci storico europeo, come scandito simultaneamente da quella “triade” che unirà, in Uno, “democrazia, filosofia e politica”. Musicalità di un contrasto-armonia di quei linguaggi, di quelle forme che Europa parla – è “destinata” a parlare e deve saper parlare –, vera e propria inventio dell’intelletto europeo».
[2] G. Lukács, L’anima e le forme (Die Seele und die Formen, 1910), trad. di S. Bologna, SE, Milano 2002: 232.
[3] Ivi: 259.
[4] Cfr. M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Adelphi, Milano 2020: 94.
[5] Cfr. B. De Giovanni, Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa, Il Mulino, Bologna 2022: 12, 15: «E siccome l’idea di Europa nasce dalla sua filosofia e vive, nel corso delle sue storie, nella lotta tra le filosofie, è da lì che si deve muovere per sbrogliare il groviglio della sua storia. La filosofia, come pensiero del Tutto, è all’origine del suo movimento. Essa si dispiega nei molti paradigmi della sua vita, anche quando è irriconoscibile come “filosofia” nel senso disciplinare di questa parola, in un rapporto tra luce e ombra, tra affermazione e negazione, e tutto nasce dalla tensione tra termini opposti, dalla ricerca di Mediazione o dall’irrigidimento del loro reciproco escludersi. La figura del negativo sta, perciò, dentro la figura di Europa, carica di antitesi; l’invenzione della filosofia, il sapere che nasce in Europa, si carica del suo destino. […] La potenza del negativo si dispiega nell’ansia di realizzazione della soggettività. E così si apre la grandezza tragica dell’uomo europeo. E la figura di Europa si coglie dentro questa tensione che insieme costruisce e aliena».
[6] M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, cit.: 25-26: «la potenza economica non può esprimersi in tutta la sua forza semplicemente credendo che scienza, tecnica, messa all’opera di masse di lavoro dipendente, possano armonizzarsi grazie a invisibili mani. Senza autorità politica le contraddizioni immanenti al rapporto tra queste dimensioni del sistema ne arresteranno la stessa potenza. Il capitalismo contemporaneo, nella competizione tra le diverse aree in cui manifesta il proprio dominio, ha bisogno di Impero. Imperare: comando effettuale, presente, e insieme indicazione-promessa. Il Politico non è il passato del capitalismo, può esserne, anzi, il futuro – ma soltanto nella forma dell’Impero e del polemos tra spazi imperiali. Qui continuità e differenza con le riflessioni weberiane».
[7] Ivi: 81.
[8] Platone, Repubblica, libro VI: 487b-497a.
[9] M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1969: 13.
[10] Cfr. C. Schmitt, Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo (Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung), trad. di A. Bolaffi, Giuffrè Editore, Milano 1986: 81-82: «Viene meno il fondamento dell’appropriazione inglese del mare e, in tal modo, il Nomos della terra fino a oggi valido. Al suo posto cresce inarrestabile e irresistibile il nuovo Nomos del nostro pianeta. Lo evocano le nuove relazioni dell’uomo con gli antichi e nuovi elementi, e lo impongono a forza le mutate dimensioni e i nuovi rapporti dell’esistenza umana».
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Stefano Piazzese, consegue la laurea magistrale in Scienze filosofiche nel 2021 con una tesi dal titolo Eschilo: un’ermeneutica del tragico, presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania (relatore: Prof. A. G. Biuso), con voto 110/110 e lode. Negli anni dei suoi studi filosofici ha approfondito il confronto tra Wittgenstein e Heidegger in relazione alla questione del linguaggio. A partire da questo fondamento teoretico, ha dedicato i suoi studi all’approfondimento della dimensione filosofica della poesia tragica eschilea prendendo le mosse dalle lezioni di filologia che Nietzsche tenne a Basilea dal 1875 al 1878. È attualmente dottorando in Scienze umanistiche (curriculum filosofico) presso l’Università degli Studi di Messina e continua ad occuparsi di ermeneutica e filosofia del tragico.
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