«Nessuno è chiamato a scegliere fra l’essere in Europa ed essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo». Questa affermazione di un grande statista come Aldo Moro, questa verità, ci mette nelle condizioni di misurarci con il momento più difficile e regressivo che l’Unione sta attraversando, dall’ottica più appropriata. Quella di un ridisegno dell’Europa e dell’Unione alla luce di mutamenti degli assetti geopolitici ed economico-finanziari del mondo.
L’UE, una costruzione nata dalle macerie di due devastanti guerre e dall’orrenda barbarie dei campi di sterminio, ispirata dal Manifesto di Ventotene del 1941, quando il conflitto sembrava ancora destinato ad essere vinto dalle forze dell’Asse, di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschman, attraversa una fase di allontanamento e deviazione da quei principi che ne hanno consentito la nascita ed alimentato il sogno. Quei principi, dai quali nascono le linee guida di quella che oggi è la carta dei diritti fondamentali dell’Unione, sono, con la stessa Carta del 2007, accantonati e piegati alle logiche del mercato, della finanza, del ritorno in forme nuove ed incontrastate del dominio degli “spiriti animali” del capitalismo.
Le politiche di austerità, nella logica delle scelte e degli interessi del capitalismo oggi dominante, fatte proprie dalla Germania della Merkel, della Grosse Koalition e delle similari Koalition che sono diventate il modello e lo strumento dell’austerità a senso unico in tutti o quasi i Paesi del continente, deviano radicalmente dallo spirito di Ventotene e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, approvata nel 2007 con valore di trattato. Anzi vanno in senso contrario, strangolando i Paesi del Sud Europa, schiantando le classi sociali più deboli e quelle medie in tutta l’Unione e minando pericolosamente le fondamenta della stessa.
Non è un caso che ci troviamo a dover subire il ritorno minaccioso di quei nazionalismi, dei loro violenti regimi autoritari negatori di ogni diritto ed artefici, nella prima metà del Novecento, di due guerre devastanti in trent’anni, del tentativo di sterminio di un popolo intero, di tutte le minoranze non piegabili ai loro principi aberranti della purezza della razza e degli uomini e delle donne che, in tutto il continente, in nome della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, della dignità e dei diritti, si opponevano con ogni mezzo alla violenza e all’orrore da essi generati.
Sull’intero Continente, a causa di politiche economiche finanziarie dissennate, che richiamano, in altre forme e contesti, i cupi scenari che abbiamo conosciuto tra le due grandi guerre del secolo scorso, si addensano nubi gravide di tempesta che sono, come allora, generate da un male con un nome preciso: il debito ed i suoi effetti sul sistema. Il debito, come ha in più occasioni sostenuto John Maynard Keynes, oltre una certa dimensione diventa irrimborsabile. Ed allora per non strangolare, nel caso di debiti pubblici, intere popolazioni, provocando conseguenti esplosioni di disperazione e violenza e la generazioni di mostri, come il nazismo, c’è una sola via: l’abbattimento e la rinegoziazione del debito. Senza questa misura, parlare di ripresa, crescita, ripristino di un dignitoso stato sociale, di una politica a tutela dei diritti e della dignità delle persone, è puro vaniloquio.
Sia da parte delle destre xenofobe che invocano improbabili ritorni a nazionalismi e ad autarchie fuori dalla storia, sia da parte dei promotori e custodi delle Grosse Koalition, si pensa di poter tenere in piedi la baracca con piccoli graduali aggiustamenti e con la sputtanata teoria dei due tempi, di cui il secondo – quello della crescita, di una onesta redistribuzione della ricchezza, e del ripristino dei diritti – non si è mai giocato in passato ed è destinato a non giocarsi mai. Intanto, continuano ad essere massacrati da una insostenibile pressione fiscale e spogliati dai diritti sociali intere popolazioni di tutti i Paesi del Sud dell’Unione e le fasce sociali più deboli, il mondo del lavoro,dei giovani precari, costretti anche nella ricca Germania ai minijobs di 400 euro al mese, nonché milioni di migranti e le classi medie.
Tsipras, proprio per questo, pone come elemento centrale del suo programma questo problema e propone l’abbattimento del debito al 60% del rapporto con il PIL in tutti i Paesi, la rinegoziazione e socializzazione della parte eccedente dello stesso, come prerequisito per sottrarre i popoli del Sud e di tutta l’Europa allo strozzinaggio dei poteri economico-finanziari e politici dominanti. E non è né un azzardo irresponsabile, né una novità.
La grande, potente ed austera Germania della cancelliera Merkel ed ora della Grosse Koalition con la SPD, nel 1953 e nel 1990 venne “graziata” con enormi cancellazioni dei propri debiti dal resto d’Europa, per stare solo alla seconda metà del secolo scorso. Il 24 agosto del 1953, con accordo firmato a Londra sui debiti tedeschi, decisamente magnanimo per la Germania, si consentì alla stessa di dimezzare i debiti di guerra passando da 23 miliardi di dollari ad 11,5 miliardi, dilazionati in trent’anni e, più recentemente, nel 1990 le vennero cancellati ulteriori debiti (anche dalla Grecia e dall’Italia, e da nazioni povere) per consentirle di gestire la riunificazione senza rischiare il default.
La maggioranza al potere oggi in Germania ha restituito il favore nel modo che tutti conosciamo. E quel che è più grave e per certi aspetti ridicolo è che chi in Italia ha assecondato queste politiche, oggi si propone di continuarle, facendo finta, dopo aver accettato e votato dal Fiscal Compact in poi tutte le altre misure economico-finanziarie iugulatorie dell’austerità targata Merkel & soci e dopo aver, con una maggioranza bulgara indecorosa, imposto la modifica della Costituzione inserendovi nell’art. 81 l’obbligo del pareggio di bilancio, sotto elezioni, fa finta di criticare queste misure e invoca la crescita. Quale? Con quali mezzi e risorse? Per ora solo con accorati appelli ed invocazioni mentre continua il massacro delle fasce più deboli, del mondo del lavoro, delle classi medie.
Tsipras offre un’opportunità, un progetto, una politica alternativa che va oltre gli schemi destra-sinistra del passato. Anche perché destra ed ex sinistra tradizionale in Germania, come in Italia, in Grecia e nel resto dell’Europa si ritrovano nell’abbraccio delle Grosse koalition a difendere e a imporre l’austerità che paghiamo ogni giorno sulla nostra pelle. Tsipras interpreta l’Alternativa Mediterranea al consunto asse franco-tedesco, schiacciato sempre di più su politiche insostenibili nella stessa Francia e alla lunga, ma non tanto, nella stessa Germania.
Dire Alternativa Mediterranea non allude a una scelta geografica ma culturale e politica. L’allargamento dell’Unione europea al Mediterraneo, nel quadro di una revisione dei trattati e di una ricostruzione dell’assetto istituzionale dell’Unione capace di rompere il centralismo bruxelliano, nell’ottica e nella logica del mesoregionalismo multipolare, è un obiettivo politico di prima grandezza, per rispondere sia ai venti di guerra permanenti che alla nuova divisione internazionale del lavoro, che sposta ogni giorno di più il baricentro dell’economia-mondo decisamente verso l’area asiatica. E l’allargamento ai Paesi del Mediterraneo, non già nelle logiche finora sperimentate di un neocolonialismo mai accantonato, deve superare la visione economicistica ed omologante imposta dalla Ue e dai grandi gruppi finanziari ai Paesi dell’est che sono nell’Unione, che sta portando la stessa alla catastrofe. L’allargamento può e deve diventare un mezzo per ripensare il nostro modello di sviluppo e i valori della nostra civiltà.
Il Mediterraneo, con la sua cultura e la sua storia, oggi è al centro delle più grandi tensioni e contraddizioni del nostro tempo. Ma il Mediterraneo è anche altro: è il luogo dove sono nate grandi civiltà, è il luogo degli scambi multiculturali, del senso del limite e di una gioia di vivere al di là della cultura di matrice protestante del lavoro, dell’accumulazione e della competizione infinita. Da qui la necessità di costruire un campo di forze all’altezza della sfida euro mediterranea, che assuma come suo valore fondante una nuova idea di cittadinanza, fondata su di un patrimonio di diritti che accompagna la persona in ogni luogo del mondo, con tutto quello che ciò comporta in tema di libera circolazione delle persone, di accoglienza dei migranti e di profondo mutamento sociale e produttivo del modello oggi dominante imposto con le dissennate politiche di austerità nel nostro Continente.