di Chiara Dallavalle
Ho trascorso diverso tempo in Sicilia, e tendo a considerarmi siciliana di adozione, dopo aver imparato lentamente ad amare questa terra nelle sue mille sfaccettature. Ho per certi versi anche fatto mio il sentimento di “isola”, la sensazione di sentirsi separati dalla terra ferma non solo geograficamente ma anche emotivamente, con tutto quello che a livello simbolico questo rappresenta. Tuttavia mi sento ancora impreparata ad accostarmi all’altra grande isola italiana, la Sardegna, che invece conosco appena, e solo per sentito dire, non essendomici mai recata. Un’isola che, a differenza della Sicilia, mi appare lontana, distante, chiusa nei suoi impenetrabili misteri, nonostante il turismo la invada ogni estate in modo sempre più sfacciato. Racconti lontani di amici che se ne sono innamorati, e che ci tornano ogni anno in quei periodi in cui l’isola riposa dall’assedio dei vacanzieri; echi di romanzi che mi fanno sognare di questa terra aspra e misteriosa, e mi lasciano con un misto di curiosità e riverenza.
La Sardegna si muove al centro di una profonda ambivalenza. Da un lato, a causa della sua posizione geografica, non ha potuto evitare di intersecare le rotte che da millenni attraversano il Mediterraneo, e quindi entrare in contatto con i popoli che le percorrevano, dagli Etruschi ai Fenici. Tuttavia, quasi inspiegabilmente, ha mantenuto una sua inaccessibilità (Levi 1943), conservando una forte separazione tra gli abitanti delle coste, più aperti ai contatti, e quelli delle montagne, geograficamente costretti ad un maggiore isolamento.
Tra gli aspetti maggiormente intriganti che hanno solleticato il mio interesse “dall’esterno” vi è quello per i luoghi connessi con il culto dell’acqua, legato alla presenza sia di fonti e sorgenti naturali e artificiali, sia di veri e propri pozzi sacri. L’idea dell’acqua come oggetto di pratiche religiose, simbolo del divino e ambivalente portatrice di vita e morte, non è certo nuova (Satta 2006), e può essere considerata un elemento trasversale praticamente di tutte le forme religiose del mondo antico e moderno. Ad esempio, la simbologia cristiana pone l’acqua al centro di uno dei suoi riti più importanti, il battesimo, associandola alla rinascita e alla purificazione, e quindi connotandola in termini essenzialmente positivi.
In realtà, l’immagine dell’acqua come generatrice di vita non è presente solo nel Cristianesimo ma praticamente in tutti i miti e le cosmogonie del mondo antico. Tuttavia l’acqua può diventare anche un elemento oscuro legato al mondo degli inferi, come ad esempio nella mitologia greca, dove il regno dei morti era percorso da ben cinque fiumi. Di questi l’Acheronte era quello attraverso cui le anime dei defunti venivano traghettate dal nocchiere Caronte per discendere definitivamente nell’Ade. In questo suo muoversi ambiguo tra vita e morte, l’acqua è quindi da sempre associata a tutte le manifestazioni del divino, in taluni casi è la sede stessa della divinità, e quindi ricca di mistero e simbolismo.
Proprio questa molteplice valenza dell’acqua ci permette di rintracciare numerosi culti e riti ad essa rivolti (Satta 2006), solitamente associati a sorgenti, fiumi ed altri luoghi naturali, e presenti trasversalmente in qualunque espressione religiosa. Tali luoghi diventano quindi occasioni per esprimere la propria devozione alla divinità, e sono pertanto sede di pratiche rituali, pellegrinaggi e credenze.
«I luoghi selvatici e incolti, le fontane, i fiumi, i laghi, il mare, che da sempre costituiscono ambienti e ambiti misteriosi nell’elaborazione fantastica, rappresentano un elemento di disordine che, in qualche modo, si contrappone all’ordine insito nel mondo urbano della civis. Nell’immaginario popolare, questi spazi durante la notte si popolano di strani esseri che incutono timore e rappresentano un pericolo per tutti coloro che li incontrano. Pertanto, le acque fluviali, le fontane, le sorgenti, i pozzi hanno costituito, per secoli, la base per l’invenzione di leggende e credenze» (Satta 2006: 8-9).
L’immagine dell’acqua come elemento fecondatore ha rivestito un ruolo fondamentale in tutte le società agricolo-pastorali, dove la terra poteva portare frutto soltanto grazie all’azione vivificante della pioggia, e dove quindi i periodi di siccità venivano guardati con particolare terrore. Al tempo stesso le piogge eccessive, con le conseguenti inondazioni, rischiavano di diventare portatrici di distruzione, se tali acque non venivano controllate attraverso il favore degli dèi. Pertanto la ritualità collegata all’acqua aveva lo scopo di propiziarsi la divinità sovrana di questo elemento, al fine di scampare dagli eventi funesti da essa provocata, e favorire invece le sue manifestazioni benefiche.
Percorrendo la storia dei culti dell’acqua nelle varie espressioni religiose dell’uomo avvicendatesi nel corso dei millenni, paiono emergere due interessanti elementi su cui fermare la nostra attenzione. Il primo riguarda il fatto che, pur essendo le pratiche devozionali relative all’acqua diffuse universalmente, tuttavia le declinazioni locali di tali pratiche si differenziano significativamente da un luogo all’altro. Esse acquistano infatti significati precisi a seconda del contesto socio-economico e culturale in cui si sviluppano, il quale è a sua volta profondamente influenzato dall’ambiente geofisico circostante. L’universalità del binomio acqua-divino si declina culturalmente all’interno delle diverse pratiche ed interpretazioni sviluppate a livello locale. Il secondo aspetto interessante riguarda invece la continuità nel tempo dei culti legati all’acqua, che li vede permanere lungo i secoli nonostante gli svariati mutamenti politici, culturali e religiosi che territori e popolazioni hanno attraversato. Un esempio classico in questo senso è rappresentato dall’innesto del Cristianesimo su precedenti culti pagani. Per quanto la nuova religione abbia apparentemente soppiantato le religioni precristiane, nella sostanza esse sono state inglobate al suo interno, sostituendo di fatto i nomi delle vecchie divinità con quelli di santi e martiri, ma mantenendo complessivamente le stesse forme di religiosità popolare ad esso precedenti.
Entrambi questi aspetti sono presenti nel caso dei culti dell’acqua in Sardegna. Pur essendo la Sardegna un’isola, e quindi con forti connessioni con il mare, in realtà il culto dell’acqua è collegato prevalentemente con l’attività nomade pastorizia tipica delle zone montagnose dell’entroterra. Nell’isola, terra arida soprattutto durante l’estate e soggetta a piogge sporadiche ed intermittenti, l’acqua delle sorgenti e dei pozzi ha da sempre costituito un’importante elemento per la sopravvivenza di uomini ed animali, a cui pastori ed agricoltori potevano attingere nei periodi di siccità. Quindi qui più che altrove il culto delle sorgenti è da sempre al centro di credenze e leggende, e alle acque delle fonti, oltre ad essere considerate portatrici di vita e di fecondità, venivano spesso attribuiti anche poteri curativi e purificatori.
Il culto delle acque presso fonti e sorgenti è un fenomeno che acquista particolare rilevanza durante la civiltà nuragica, che può a buon titolo essere considerata la principale espressione della Sardegna protostorica. Essa si estende all’incirca dalla Media Età del Bronzo (all’incirca dal 1600-1500 a.C.) fino alla fine della Prima Età del Ferro (intorno al 700 a.C.). Durante la prima fase di questo lungo periodo storico, si è vista la realizzazione dei primi insediamenti umani, i quali sono però divenuti centri di aggregazione significativi soltanto nella seconda parte di questo importante ciclo storico. Sotto la spinta di una sorta di rivoluzione sociale e culturale, lentamente la costruzione dei nuraghi e delle classiche “tombe dei giganti”, tipici della prima fase, cessa e lascia invece il posto ad un grande impulso nell’espansione degli insediamenti e alla creazione di veri e propri templi e santuari dedicati anche al culto dell’acqua.
In realtà, alcune testimonianze archeologiche sembrano suggerire che anche in periodo prenuragico fossero presenti rituali connessi con il culto dell’acqua presso fonti e sorgenti (Melis 2008), ma solo con l’avvio del periodo nuragico sono stati costruiti veri e propri edifici atti al culto delle acque, quali ad esempio i templi a pozzo. Questi ultimi sono edifici circolari sovrastati da una cupola in forma ipogeica che ha lo scopo di captare la vena d’acqua. Per accedere al deposito d’acqua venivano inoltre costruite ripide rampe di scale di forma rettilinea o trapezoidale. Nella sommità della scala era presente un atrio dove venivano lasciate le offerte votive. Il tempio era circondato da un recinto che delimitava lo spazio sacro destinato ai fedeli. Il materiale usato era lapideo reperito in loco oppure roccia vulcanica, materie che non subivano alterazioni a contatto con l’acqua ed erano quindi particolarmente indicate per questo tipo di costruzioni.
Purtroppo, i manufatti ritrovati nei siti archeologici sardi non forniscono informazioni esaustive sui comportamenti individuali e collettivi che si svolgevano nei luoghi sacri nuragici, in particolare negli edifici adibiti al culto dell’acqua. Pare evidente che in tali luoghi, che possono essere considerati veri e propri santuari, venissero lasciate offerte votive e vi fossero realizzate cerimonie religiose, ma purtroppo gli elementi di dettaglio di tali rituali restano conosciuti. Negli atri di pozzi e fonti e nei vani di alcuni templi si trovano banchine e sedili, e all’esterno sono presenti grandi recinti probabilmente con lo scopo di accogliere gli svariati pellegrini, ma rimane difficile ricostruire esattamente le attività svolte al loro interno. Né è chiaro se e in che modo l’acqua venisse utilizzata all’interno dei rituali, nonostante essa rimanga l’elemento centrale di tali costruzioni.
Nonostante lo spegnersi della civiltà nuragica, il culto dell’acqua ha però continuato a perpetuarsi fino all’avvento del Cristianesimo, mescolando riti ufficiali con forme di religiosità popolare che richiamano antiche reminiscenze pagane. La Sardegna non rappresenta certo un’eccezione in questo processo, se si pensa che in un’altra isola a me particolarmente cara, l’Irlanda, ancora oggi antichi pozzi sono sede di pellegrinaggi e pratiche rituali ereditate dagli arcaici culti dell’acqua precristiani. In questa accezione lo studio di culti antichi e moderni ci mostra come tali pratiche rituali non vadano intese come singoli eventi calati esclusivamente nel contesto culturale di riferimento, ma al contrario come un processo fluido di costruzione di significati, che rende la cultura un campo in continuo mutamento e ri-costruzione. Da un lato, l’acqua diventa qui un archetipo junghiano, un simbolo ricorrente in tutte le culture, che rimanda alla dimensione trascendente della Natura. Dall’altro, questo elemento viene localizzato e contestualizzato, ritrovando ogni volta nuovi significati e nuove attualizzazioni nelle pratiche quotidiane di chi lo fa proprio. Similitudini e differenze sembrano caratterizzare qualunque pagina della storia dell’umanità, laddove costumi antichi e pratiche più recenti sono al tempo stesso intrecciati attorno allo stesso filo comune, ma costantemente reinterpretati e risignificati dall’azione creativa degli individui. I culti dell’acqua ne sono solo uno splendido esempio tra tanti.
Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
Riferimenti bibliografici
Jung, C. G. 1980, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Torino: Boringhieri.
Levi, D. 1943, “Sardinia: Isle of antitheses”, in Geographical Review, vol.3, n.4 (Oct. 1943): 630-654.
Manca Nicoletti, F. 2012, Il culto delle acque in Sardegna. Miti, riti, simboli, Ghilarza: Iskra Edizioni.
Melis, M.G. 2008, “Osservazioni sul ruolo dell’acqua nei rituali della Sardegna preistorica, in Rivista di Scienze Preistoriche, LVIII (2008): 111-124.
Satta, M.M. 2006, “Il simbolismo ambivalente dell’acqua, fonte di vita e strumento di morte”, in Sacer, XIII, n.13 (2006): 9-20.
Taylor, L.J. 1995, Occasions of Faith. An anthropology od Irish Catholicism, Dublin: The Lilliput Press.
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Chiara Dallavalle, già Assistant lecturer presso National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, è coordinatrice di servizi di accoglienza per rifugiati nella Provincia di Varese. Si interessa degli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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