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L’America e la ricerca di un’identità. Trump come maschera dell’inganno

donald-trump-as-a-trickster-manque-a-failed-tricksterdi Giuseppe Sorce 

La serata ancora non è iniziata ma io ho già scelto. Sempre lo stesso bar, quello in mezzo agli altri due. Quello gestito da una famiglia di origini italiane – che, guarda un po’, gestisce da generazioni tutti i pub del quartiere. Se di quartiere si può parlare. Della strada. Sì, meglio dire della strada. Il bar (così si chiamano qui quelli che noi chiameremmo pub) che ho scelto, e che scelgo sempre ormai da qualche mese, si chiama *** ed è il solito bar pieno di foto firmate di giocatori di tutti gli sport delle squadre del college che si trova proprio dall’altro lato del marciapiede e da cui il bar trae il suo principale senso: offrire alla popolazione del college un’alternativa semplice, all’antica direbbe qualcuno, diretta, senza fronzoli, poco costosa ma con tanto spirito.

Un luogo autentico rispetto ai bar adiacenti, uno un po’ più chic, dalle alte pretese ma con tanta spocchia al posto della qualità, l’altro che schiaccia l’occhiolino a un pubblico di avventori più adulto e smaliziato ma di quelli che vuole sentirsi più giovane dei giovani veri, quindi senza stile, che finge il sabato sera una playlist recentissima da delle casse scassate che stona con l’architettura ampia e visi stanchi e annoiati.

Per questo scelgo il bar di mezzo, essenziale, che non si vergogna di ciò che era, che continua ad avere un menù infinito di prodotti precotti, una minima scelta di birre e un pesce gigante appeso alla parete. Okay adesso ne avete un’idea Al bar di mezzo non importa a che ora si arriva che si trova sempre lo stesso signore, piuttosto anziano, con una camicia a quadri da campagnolo – sì, sempre la stessa – cappellino da baseball, barba lunga e bianca, occhiali da sole a mezzaluna scarlatti. E poi non importa quale evento ospiterà la serata, o quale offerta sulle birre. Non importa se è pieno di gente o ci sono sempre i soliti. Non importa cioè cosa accade. Quel bar è un luogo, non semplicemente un posto. È i luoghi accadono di per sé, non hanno bisogno di correlati o riempitivi.

Virginia, 2024 (ph. Giuseppe Sorce)

Virginia, 2024 (ph. Giuseppe Sorce)

Stati Uniti, Virginia. Siamo a *** cittadina piccolissima e privilegiatissima. Per questo ho ricercato per mesi un luogo che potesse restituirmi una sorta di autenticità, fuori dalla bolla dell’accademia. Cercare perciò, da antropologo nell’indole, l’opposto di quello da cui la mia bolla rifugge. C’è una sempre più netta spaccatura infatti nel senso comune americano. La mia prima volta negli Stati Uniti fu dieci anni fa e le cose, che sembrano oggi distantissime, all’epoca non stavano proprio così. C’era sì qualche malcontento, qualche mugugno, qualche teoria del complotto che millantava segreti e manipolazione di massa, insomma c’era già un sentimento, poco esteso ma radicato, contrario a Obama, a ciò che rappresentava la sua narrazione, a ciò che aveva portato avanti la sua politica. Quello che si avverte oggi, e chiunque se ne accorgerebbe, è una spaccatura netta, una dicotomia inconciliabile: da un lato il pensiero “dem”, dall’altro Trump che ha fagocitato l’ambiente repubblicano pur non rappresentandone, all’inizio della sua traiettoria politica, quasi nulla.

qanon-futuriSappiamo tutti chi è Trump, da dove viene, di cosa è stato artefice, le sue apparizioni in tv negli anni ’90, i suoi discorsi, i suoi fallimenti imprenditoriali. Trump e i repubblicani non c’entravano niente fino a dieci anni fa. Eppure qualcosa è successo. È successo che Trump è stato capace di intercettare proprio quel sentimento radicato e lo ha cavalcato, esacerbandolo e portandolo all’estremo. Un sentimento che nasceva – così si dice – nell’America profonda, quella remota, che non si conosce nell’Occidente europeo, lontanissimo dalle grandi città delle serie tv. Quel sentimento, molto vicino a un delirio di massa, fermentato in social network e altre piattaforme (ricordiamo tutti il fenomeno QAnon) oggi, a distanza di quasi dieci anni, si è tradotto in una vera e propria corrente politica che ha soltanto un simbolo, un volto e una voce: Trump. C’è tutto dentro la filosofia trumpiana, quindi anche il suo contrario. È una sorta di contenitore dove non è importante ciò che Trump dica, cosa faccia, cosa possa fare e cosa no. L’idea di leggere le figura di Trump come moderno trickster è pertanto utilissima perché ci consente di bypassare l’arrovellarci sulle sue traiettorie politico-ideologiche, quello che lui dice o fa che ogni giorno cambia, per concentrarci sulle ragioni culturali che ne hanno consentito l’ascesa.

I risultati delle recenti elezioni hanno infatti dimostrato che Trump ha preso moltissimi voti dai giovani e anche da coloro i quali erano oggetto del suo schernimento, battaglie, retorica e politica. Latinos, afroamericani, poveri, la working class, immigrati. C’è chi dice che, come in Europa, l’ascesa delle destre xenofobe e sovraniste sia dovuto a una forma di spaesamento. “La gente agisce di pancia quando ha paura”. Stacca il cervello. È istintivo. Il che non è giusto quando si tratta di elezioni. Ma nel caso degli Stati Uniti, non può essere solo questa la risposta. Ricordiamo, Trump è già stato presidente e il mondo non è crollato. Ha cambiato pochissime cose, si è reso protagonista di sparate al limite del clownesco durante le prime fasi della pandemia, non ha inciso lì dove i suoi elettori dell’epoca gli richiedevano di incidere. Ma qualcosa è cambiato d’allora e nonostante i fattacci del Capitol Attack il 6 gennaio del 2021, nonostante processi e condanne, nonostante durante l’ultima campagna elettorale siano state dette e promesse cose letteralmente surreali. Cosa è cambiato allora? Cosa ha permesso al trickster di vincere le elezioni?

Come detto, non ci si vuole qui soffermare sulle cause politologiche, sugli errori di Biden, di Kamala e della loro comunicazione. Osserviamo piuttosto a volo d’uccello i tratti più peculiari della spaccatura insita nella società americana partendo da un presupposto per me chiave: la civiltà statunitense. Spostarci da “società” a “civiltà” è un passo necessario per sondare le principali otturazioni arteriose del cuore pulsante di ogni nazione: le persone che la compongono. Nello scorso numero di Dialoghi ho provato a gettare le basi di un discorso in tal senso [1]. La civiltà americana è infatti un perfetto terreno etnografico. Il suo essere “recente” e giovane ci consente infatti di poterne osservare le tappe, studiarle direttamente e indirettamente nella sua diacronia attraverso infinite fonti scritte e documentarie in generale. Non v’è alcun rischio se non quello di immergersi in un contesto che pare simile al nostro – sotto il fluidissimo concetto di “Occidente” – ma che in realtà non lo è.

Virginia, 2024 (ph. Giuseppe Sorce)

Virginia, 2024 (ph. Giuseppe Sorce)

Quali sono i miti fondativi della civiltà statunitense, quali i suoi incubi, le sue conquiste, i suoi orizzonti e i suoi limiti? La cosa che oggi appare palese a chiunque abbia voglia di imbattersi in questo viaggio di riscoperta è che stiamo assistendo a una fase storica in cui una civiltà giovane è anche quella egemonica. Una civiltà giovane – che alcuni definiscono adolescenziale – che ha trascinato con sé numerosi Paesi fino quasi al globo tutto (la cosiddetta globalizzazione) esportando un sistema culturale che fa leva su un capitalismo fondativo dal quale sembra quasi impossibile autodiscernersi. Mettiamoci il mito della frontiera, il sogno americano, la democrazia moderna, la pulsione egemonica, il controllo militare, l’avanguardia tecnologica, la libertà e la multietnicità e il gioco è fatto. Cosa è in crisi oggi? A mio avviso gli statunitensi vivono adesso un momento di fragilità identitaria.

La civiltà americana ha scoperto che non è più il Paese in cui si vive meglio, il sogno americano si è sgretolato, la middleclass viene erosa progressivamente, da esportatori sono diventati importatori, l’assimilazione culturale può creare appiattimento, il controllo militare non è sinonimo di supremazia ideologica, il processo democratico è qualcosa che va difeso e mai dato per scontato, l’avanguardia tecnologica non è più un monopolio di Stato (federale). Ciò ha condotto la civiltà di fronte a più di un bivio geo-antropologico: le città delle coste vs il Paese profondo, immigrati nuovi vs. immigrati vecchi, apertura e protagonismo su scala globale vs. chiusura e uscita da patti e convenzioni, tecnologia come strumento per il benessere della comunità vs oligarchia tech, atlantismo vs. isolazionismo. Spesso, i fronti su cui posizionarsi sono polarizzati. A vedere le due campagne elettorali scorse il Paese sembrerebbe diviso in due, ed è così da un certo punto di vista, ma in realtà la frattura è comune e non si risolve, né si risolverà, sul prevalere di una fazione su un’altra e questo proprio perché ciò che sta accadendo coinvolge le fondamenta dei miti della civiltà statunitense.

trump6Da qui il risultato delle elezioni che ci ha mostrato un Paese talmente in crisi identitaria che ha preferito fare ricorso al trickster. Il rovesciamento qui non è stato il frutto di un processo politico o ideologico ma un atto di pancia come abbiamo detto. E Trump è il trickster che incarna il rovesciamento. Questo rovesciamento non è rivoluzionario, riformista o progressista. È un rovesciamento punto. È un tentativo di sopravvivenza come chi annaspa mentre rischia l’annegamento sprecando così più energie e più ossigeno. Non c’è un’idea, un progetto politico, una visione di futuro. “L’età dell’oro” così bellamente paventata è proprio questo. Il ricorso ad uno slogan che andava bene per il vecchio west non può essere un progetto politico per il 2025 a rigor di logica. Cosa è allora? Un richiamo alle origini della civiltà nel momento della sua messa in discussione massima.  Tornare a essere “il predatore dominante” (parole queste usate al Congresso). Ma rimane quindi un semplice richiamo, un “potremmo essere” che inevitabilmente strizza l’occhio al passato – “potremmo (tornare a) essere” – ma non per ideologia. Le recenti sparate del trickster includono in tal senso riferimenti all’idea di annettere Panama, Canada, e la Groenlandia: tornare a essere dominanti in tutto il continente. È un’immagine, una scena, una maschera, un trucco appunto. Abbandonare il mondo in favore di un continente. Come se il continente non fosse un pezzo di mondo già controllato da loro stessi. Mentre il Paese viene svenduto alle tecnoligarchie, e Musk viene scelto come testimonial (un non americano, che ha ammesso di fare uso di droghe, che fa il gesto nazista alla Casa Bianca), un reale ritorno al passato avrebbe dovuto includere un processo direttamente opposto: non è Musk che entra alla Casa bianca ma la Casa bianca che entra negli affari di Musk. E invece… Allora che si fa? Il richiamo al destino manifesto dei grandi Stati Uniti ripiega verso la Groenlandia come nuova frontiera postmoderna [2].

Spesso gli studi sulla figura del trickster lo presentano in rapporto a quello dell’eroe culturale. A volte le due figure sono antitetiche, alle volte si confondono (esempio dibattuto in questo senso è il Prometeo della mitologia greca). In questo caso Trump si colloca perfettamente a metà, guardate bene le riprese, andate virali, mentre il primo giorno di governo firma ordini esecutivi uno dietro l’altro a ritmo di “that’s a big one!” [3]. Visualizzatelo: una figura, letteralmente una maschera colorata (dipinta per meglio dire) arancione e gialla (quasi una reskin di Goku Super Sayan), che con una penna in mano scarabocchia un foglio alla volta esprimendosi in un gergo basso da bar. Sembra la scena di un arlecchino qualsiasi che fa incavolare le altre maschere, sembra un gioco, una scenetta, sembra uno sfregio, una presa in giro. Soprattutto perché tutti sanno che probabilmente la maggior parte di quegli ordini esecutivi verrà bloccato dalla Corte Suprema. Cosa non è se non un trucco, una macchinazione del trickster che insieme disinnesca, stravolge e irride lo schema sociale, l’ossatura del potere, senza progettualità se non l’inganno, lo scherno, li dissacrazione e la distruzione. Queste sono le regole, sembra dire, e io ne faccio ciò che voglio, le racconto come voglio, perché io posso.

downloadCome l’eroe culturale infrange le regole proprio per imporne delle nuove e fondare così una nuova civiltà, Trump firma degli ordini esecutivi contrari alla Costituzione americana (quello contro lo ius soli per esempio) in live streaming – “that’s a big one” significa più o meno “questa è grossa” – per ricordare a tutti che lui in questo momento sta fondando una nuova America. Ma, essendo comunque un trickster, e non avendo, per nulla, lo spessore putativo dell’eroe, è tutta una farsa, uno show, che serve a rifondare cosa? Nulla. È l’atto ciò che convince, incanta ed esalta i suoi elettori. Le cose non vanno, ci prendono in giro in tutto il mondo, allora bisogna rivoltare tutto, allora dobbiamo essere noi a prendere in giro. Solo che il trucco è contro se stessi, perché non si può fondare una civiltà se non si è portatori di un reale nuovo sogno, di una reale nuova storia, di un reale nuovo orizzonte, di una reale nuova visione.

Virginia, 2024 (ph. Giuseppe Sorce)

Virginia, 2024 (ph. Giuseppe Sorce)

A compensare questa mancanza intervengono le big tech, “con loro dalla nostra parte ce la faremo” Sembra dire Trump. Forse. Ecco allora un’altra forma di fidelismo, un racconto, un mito sconvolto dal trickster che lo svuota di significato e lo strumentalizza a suo fine (nessuna tecnologia, al momento, ci salverà del cambiamento climatico). Nessuno di questi miliardari ha davvero a cuore la civiltà americana della quale sono inevitabilmente un prodotto. E in quanto tale non possono che seguirne le criticità, gli autolesionismi e i vicoli ciechi poiché il potere può rendere ciechi ma questo la civiltà americana non l’ha ancora sperimentato. Il cul-de-sac della guerra del Vietnam, di quella in Iraq, dell’Afghanistan, sono stai momenti di sbornia egemonica, e forse sono stati i primi segni, per loro, dei rischi a cui va incontro l’egemone di turno. Oggi la scia di quelle vicende si è condensata, “perché siamo andati fin lì, cosa abbiamo fatto, quale ne era il senso” sono oggi altri quesiti – “siamo davvero i salvatori del mondo, siamo davvero il Paese migliore del mondo, riprendiamoci tutta l’America, il continente deve essere nostro e il resto del mondo se la veda da sé” – che non hanno generato una risposta costruttiva bensì un crollo di fondamenta acerbe che hanno sostenuto forse un peso troppo grande. “E allora usciamo da tutto, allora tutti devono iniziare a pagarci” ma purtroppo non funziona così. Non si può tornare indietro. Le pepite d’oro non risalgono il fiume del tempo come i salmoni. E allora che si fa? In assenza di risposte, in assenza di una nuova visione del mondo e di se stessi, si ribalta il tavolo da gioco e si va alla ricerca di nuovi eroi. Solo che al momento ci sono solo antagonisti, irriverenti, abili, violenti e ultra ricchi. È il momento di un altro trucco, un altro inganno, un altro scherzo. Ma abbastanza presto finirà il tempo delle scommesse e verrà il momento di andare a vedere. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Note
[1] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-sogno-americano-e-finito/
[2] Gunfighter Nation: Myth of the Frontier in Twentieth-Century America, R. Slotkin 1998.
[3] Basta cercare sul web per vedere le immagini del primo giorno, il secondo giorno di firme e così via.

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Giuseppe Sorce, si laurea in Lettere moderne a Palermo con una tesi in antropologia culturale sul rapporto uomo-computer, linea di ricerca che seguirà con la tesi magistrale all’Università di Bologna sul cyberspazio e l’epistemologia della geografia sotto la guida del professor Farinelli. Si occupa di tecnologia, narratologia, Antropocene e immaginario geografico. Docente di lettere nelle scuole superiori, è attualmente lecturer di lingua italiana negli Stati Uniti.
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