“È una storia che è un po’ la fotografia della Sicilia in cui i buoni diventano cattivi e i cattivi buoni, una Sicilia dove tutto non è mai come sembra, come ci hanno insegnato Sciascia e Pirandello”. Si può condensare in queste righe il significato del romanzo “La notte dell’Antimafia – Una storia italiana di potere, corruzione e giustizia negata” (compagnia editoriale Aliberti) del giornalista Lucio Luca che si è aggiudicato il primo posto per la narrativa al Premio “Nadia Toffa” e il secondo al Premio “Piersanti Mattarella”.
Un romanzo verità, così potrebbe essere classificato il lavoro che il cronista-scrittore ragusano ha intrapreso per raccontare uno scandalo che negli anni passati ha trascinato il Tribunale di Palermo, una sezione delle Misure di Prevenzione, riscrivendo i ruoli delle vittime e dei carnefici. Seguendo una storia privata, Luca ha messo in evidenza la disarmante degenerazione di un sistema corrotto e concusso che, ritenendosi impunibile per ambizione e delirio di onnipotenza, si è trasformato in carnefice.
Tutto è vero ciò che l’autore narra ripercorrendo fatti, sentenze, complotti, orditi da alti “pezzi” dello Stato in danno di un sistema che avrebbe dovuto funzionare proprio nel modo opposto. La narrazione non parte dai “cattivi” ma da una vittima, un imprenditore di Castelbuono, paese in provincia di Palermo, produttore ed esportatore di vini in tutto il mondo, proprietario di un resort di lusso con un ristorante gourmet, sconfitto da una ingiustizia rovinosa perpetrata da chi avrebbe dovuto tutelarlo.
Gianfranco è il figlio dell’imprenditore (Franco Lena) che nel giugno del 2010 viene accusato di essere contiguo con la mafia, mafioso amico dei vertici di Cosa Nostra, di Bernardo Provenzano, Salvatore Lo Piccolo, Antonino Madonia. “Le mani di Cosa Nostra sul vino siciliano” scrivono i giornali quando l’imprenditore viene arrestare e chiuso in carcere per 23 giorni e poi per quasi due anni agli arresti domiciliari, accusato di riciclaggio per conto della mafia.
Dal punto di vista di un figlio, anche lui noto nella città di Palermo, passa tutto il dramma di un uomo, uno dei tanti imprenditori siciliani (non è il solo) finiti nelle maglie di una giustizia corrotta e avida di denaro che li ha stritolati e annientati.
L’autore ha avuto il privilegio di seguire la vicenda da giornalista, avendo a disposizione le carte processuali, migliaia di pagine da spulciare, intercettazioni e materiale documentale, sentenze e ne ha tratto una storia documentata e ispirata, mai noiosa, appropriata, che sin dalla prima pagina segue di un filo conduttore chiaro ed onesto.
Le cronache giornalistiche spesso si fermano agli arresti e ai sequestri o alle confische di beni milionari, di azioni e società, di auto di lusso ed immobili e quasi mai raccontano il dopo, mancando di esercitare il mestiere fino in fondo, di approfondire, complice la disattenzione e la superficialità insita nel “sistema informazione” che tra social e siti on line è tanto veloce e distratto da far passare nell’oblio vicende giudiziarie e umane che stanno dietro gli atti giudiziari, preferendovi titoli gridati che impressionano il lettore senza restituire verità. Chi svolge ancora il lavoro di giornalista a tutto campo, soprattutto in quello giudiziario e racconta processi e procedimenti fino alla loro conclusione, chi si prende la briga di seguirli fino in fondo, di analizzarne i passaggi? Pochi, quasi nessuno ormai.
Allora un libro come La notte dell’Antimafia assume un duplice valore: narrativo per l’incalzare dei fatti che si intrecciano con le vite delle persone e sociale, individuando complicità dentro un sistema giudiziario corrotto come quello di una sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo e condannandole all’opinione pubblica.
L’imprenditore accusato di essere mafioso impiegherà undici anni della sua vita per avere la verità, si sottoporrà a sei processi per rientrare in possesso di tutti i beni che gli erano stati sequestrati, scoprendo però che ciò che lo Stato gli aveva restituito non aveva più valore, «erano rimaste solo macerie» scrive Lucio Luca, aziende senza bilanci, piene di debiti. Un patrimonio morto e sepolto, depauperato e una vita distrutta alimentata dal sospetto che talvolta è peggiore di una condanna.
La “zarina” (Silvana Saguto) protagonista ed artefice di questo sistema – nel cerchio magico c’è anche un prefetto poi condannata – era la presidente della Sezione Misure di Prevenzione di cui i giornali hanno tanto parlato, che nella ricostruzione giudiziaria è stata ritenuta colpevole di aver ordito una rete di avvocati, commercialisti e contabili compiacenti con l’obiettivo di svuotare le aziende sequestrate alla criminalità mafiosa, farle fallire e incassare ricchi stipendi, prebende, favori, abiti firmati, cene in ristoranti di lusso e spese da migliaia di euro non pagate nei supermercati sottratti a presunti prestanome di boss.
L’anti Stato dentro lo Stato, dove dovrebbe battere il cuore dell’antimafia che combatte la mafia con la forza delle leggi. E invece va tutto al contrario. E in questo contesto il romanzo non manca di mettere in evidenza un’anomalia del sistema, il cosiddetto “doppio binario” che in sede penale conduce all’assoluzione degli imputati mentre i loro patrimoni restano sequestrati o confiscati, un terreno produttivo che favorisce abusi e storture.
«… Ma da quando l’avevano messa a guidare le Misure di prevenzione qualcosa in lei era cambiato. Gestire patrimoni sterminati, assegnare i beni a quell’amministratore giudiziario piuttosto che a quell’altro, maneggiare denaro che una persona normale non vedrebbe manco in dieci o cento vite intere, le aveva dato alla testa. A un amico, uno di quelli ai quali assegnava decine di incarichi milionari, perché evidentemente di lui si fidava assai, una volta l’aveva pure confidato: “Tanino, io sono Dio onnipotente. Posso fare e disfare tutto quello che voglio. Chi può dirmi di no?”»..
Non vi è retorica né i luoghi comuni nella descrizione degli affari del sistema corrotto e delle vittime incolpevoli, grazie ad una scrittura asciutta e ritmata che non si perde dietro le supposizioni ma va dritta ai fatti come può fare un reportage giornalistico pronto a trasformarsi in racconto cinematografico.
Voci di vittime e carnefici si alternano nella struttura del romanzo che prosegue con arguzia e chiarezza e immerge il lettore in un sistema che disorienta e spaventa.
«È una storia che Leonardo Sciascia avrebbe scritto e ne avrebbe tratto un capolavoro – scrive Lucio Luca – avrei voluto leggerla con la sua firma, io ho provato a fare del mio meglio ma non sarà mai un libro scritto come lo avrebbe fatto lui».
Già con Quattro centesimi a riga. Morire di Giornalismo (Zolfo, 2022), poi diventato monologo teatrale (Volevo solo fare il giornalista) Lucio Luca aveva superato il confine del giornalismo sul campo e raccontato di Alessandro, un giornalista “sconfitto” che si trova a cedere alle pressioni del suo editore alle intimidazioni subite e al sistema-giornale che lo stritola e lo ingabbia. Ma quella storia finisce tragicamente. In quest’ultima che ha raccontato ci saranno risvolti positivi che lasciano la porta aperta alla speranza suggerendoci che anche i peggiori accidenti possono dare forza e recuperare rapporti umani compromessi.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Mariza D’Anna, giornalista professionista, lavora al giornale “La Sicilia”. Per anni responsabile della redazione di Trapani, coordina le pagine di cronaca e si occupa di cultura e spettacoli. Ha collaborato con la Rai e altre testate nazionali. Ha vissuto a Tripoli fino al 1970, poi a Roma e Genova dove si è laureata in Giurisprudenza e ha esercitato la professione di avvocato e di insegnante. Ha scritto i romanzi Specchi (Nulla Die), Il ricordo che se ne ha (Margana) e La casa di Shara Band Ong. Tripoli (Margana 2021), memorie familiari ambientate in Libia.
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