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L’aratro sotto il letto. Le cose tra cultura, natura e soprannatura

440857956_1001155331457422_6833453214643210130_ndi Nicola Gasbarro

Come ogni antropologo costretto ad attraversare i “tristi tropici” della diversità culturale, Gian Paolo Gri non conosce il fine e la fine del suo viaggio: «faccio il mestiere del recuperante, lo sento un mestiere utile, anche se non ho sempre chiaro perché»! Mestiere faticoso e difficile: raccoglitore di piccoli resti, filologo di poche parole, alla continua ricerca di cose dall’altro mondo, spesso fatto di strane apparenze, l’antropologo è sempre costretto ad ipotizzare strutture, a ricostruire un discorso, a dare verosimiglianza ad alterità spesso radicali, fino a mettere in moto una fenomenologia del profondo, capace di guidarci verso un ordine di ciò che non ci appartiene e che spesso consideriamo impossibile e impensabile. Se siamo in qualche modo tutti invitati a frugare tra i rifiuti del nostro presente etnocentrico, non abbiamo sempre chiaro perché! Sarà certamente utile all’archivio della nostra mentalità collettiva, o all’immaginario generale del sapere, ma tutto questo serve alla vita? E soprattutto: alla vita di chi?

La lettura del suo ultimo libro Cose dall’altro mondo (Forum, Udine 2024) può aiutare a rispondere a queste domande, o almeno a riformularle meglio in termini storici e antropologici: sappiamo tutti ormai che il nostro mondo è solo uno dei tanti e non necessariamente il migliore, che le diversità antropologiche ci attraversano nelle contingenze quotidiane della vita e nelle pressioni che queste esercitano sul pensiero. Allora è forse il caso di cominciare dallaltro mondo storicamente non molto distante dal nostro, quello contadino friulano, ma che subito pone problemi di differenza-opposizione tra sistemi globali: contadino/industriale e postindustriale; tradizionale/moderno; popolare/piccolo-borghese; oralità/scrittura fino all’esplosione dei social.

Una vera e propria “mutazione antropologica” (Pasolini), che ha trasformato radicalmente il sistema dei valori: dalla visione olistica della vita all’individualismo del consumo e del desiderio, dalla coerenza sistemica alla dispersione dei tratti culturali, dalla costruzione analogica del vivere e del morire al valore performativo dell’attimo e alla digitalizzazione delle coscienze e delle responsabilità. Sono grandi problemi, posti implicitamente dalla comparazione inevitabile con l’altro mondo, sui quali riflettere senza nostalgia e soprattutto senza ricorrere ad un acritico tradizionalismo delle origini. È importante invece cercare di comprenderli antropologicamente con il metodo e gli strumenti di viaggio che Gri ha elaborato con «l’obbligo scientifico ed etico dello sguardo largo», decisamente contro presupposti nazionalistici ed etnocentrici: le pagine 15-29 del primo capitolo sono una guida indispensabile, un metodo rigorosamente comparativo che diventa prospettiva storica e teoria antropologica.

image_fullGli oggetti di cultura materiale del Friuli diventano cose dall’altro mondo perché immediatamente inseriti in un sistema di scambi sociali dove trovano senso nel momento stesso in cui sono regolati nel loro uso quotidiano e nelle trasposizioni simboliche che questo produce; un aratro non è mai solo un aratro: se nel rapporto degli uomini con la natura diventa simbolo di produzione e di fecondità, può continuare ad esserlo nei rapporti degli uomini tra loro, ed essere riusato per aiutare la ri-produzione umana sempre buona da pensare, anche con strumenti materiali che gli artifici del pensiero trasformano in metalinguaggio della vita. Non si tratta di animismo da residuo folklorico e/o di facili identificazioni nomen-omen, ma di un complesso rapporto tra parole-referenti e cose-simboli che mettono in moto il pensiero nel momento stesso in cui segnano l’esperienza del fare quotidiano. Solo così le cose rinviano all’altro mondo sistematicamente coerente tra dire e fare, tra produrre e riprodurre, tra uso e riuso ortopratico, che non cade mai nell’abuso esclusivo dell’ortodossia, tra necessità individuali e urgenze collettive, fino alle trans-significazioni dei rituali che nel mondo contadino rinviano sempre a transustanziazioni sacramentali, anche prima o senza la proiezione salvifica del cristianesimo. E forse anche per questo l’ordine del mondo spazio-temporale della Chiesa cattolica – dal calendario liturgico alla sacralizzazione dello spazio, mediante i campi d’azione dei Santi e delle Madonne – si collega direttamente a quello del mondo contadino, quasi a stabilire il necessario e indistruttibile rapporto tra cultura, natura e soprannatura.

bce9b2a9-6eb0-4ef8-9772-70c7873a591b_7767E tutto questo partendo da semplici oggetti che possono avere la forza simbolica degli idoli senza esserlo mai nella pratica del rituale: essi non appartengono all’utile e scarso dell’economia di mercato, ma a quell’utilizzabile che già De Martino inseriva in un campo meta-materiale, anche quando non operavano nel mondo magico: si tratta di un’antro-poiesi implicita in ogni ortopratica dei rapporti sociali che coniuga insieme le relazioni degli uomini con la natura e le relazioni degli uomini tra loro: fabrilità e segnicità che si costruiscono e si costituiscono con lo scambio dei beni e con lo scambio simbolico. E per tornare all’aratro: messo sotto il letto matrimoniale è simbolo efficace di fertilità, e riconnette la fabrilità e la segnicità alla procreazione.

L’esempio ci ricorda, anche per non ricadere nell’idealismo culturologico tipico dello storicismo italiano, che questo mondo è altro, anche perché pone e impone, almeno come punto di partenza, la priorità della materialità della vita e della sua contingenza di bisogni, anche se poi è capace di costruire una società dell’abbondanza dello scambio collettivo: l’economia del dono supera ogni naturalità del mercato, con una dinamica sur-naturale, ma mai sur-reale, che dà al sistema sociale l’indicazione materiale, la prospettiva visibile e il senso operativo della vita. Da un lato si tratta di una materialità autosignificante, di un oggetto che si fa spirito immanente e produttivo, come le strutture del paganesimo evocate da quel barocco tanto cattolico quanto contadino; dall’altro di una ortodossia trascendente da rendere compatibile con la vita degli uomini tramite operazioni culturali: le Madonne sono da vestire, anche a festa con abiti nuovi e gioielli, grazie ad esperte mani femminili, per renderle operatrici efficaci in determinati campi d’azione, come le donne del proprio gruppo che si sforzano di garantire la continuità della vita.

1888834_dsc_0249Il cristianesimo non ha solo trasformato in sacramenti i grandi “riti di passaggio” che da sempre segnano in termini di valori la vita degli uomini dalla culla alla morte, ma soprattutto ha costruito il suo immaginario trascendente a partire dalle contingenze del mondo contadino: una sorta di “altro mondo a partire dall’altro mondo”. Due esempi studiati in questo libro che trovano molte varianti analogico-comparative: i riti della settimana santa e il grande mistero del pane fanno riflettere molto sulla nostra contemporaneità che sembra sempre più dimenticare la forza del rituale (non solo religioso) e tutta l’eccedenza simbolica del cibo quotidiano. La discesa agli inferi di Gesù, il suo nascondersi nei sepolcri, e tutti i rituali di lutto traducono umanamente il mistero cristiano della morte e resurrezione del Redentore, ma anche la sua umanissima crisi di abbandono e il suo riscatto. La triste settimana, santa perché paradigmatica del “senso” della vita e della morte, ripropone ritualmente la legge che gli uomini vivono insieme e muoiono soli, e che ogni tipo di rinascita è prima un miracolo dell’azione collettiva e poi una struttura salvifica del pensiero religioso: perciò ogni Via crucis è prima un ethos collettivo del trascendimento delle inevitabili crisi della vita e perciò un memoriale della umana passione di Gesù.

Il “mistero” del pane è una diretta e concreta evocazione dell’altra vita attraverso l’alimentazione quotidiana: cibo per eccellenza, implica sobrietà e distribuzione, perciò non ci si può ubriacare di pane, dimenticando i tempi duri della povertà e trascurando i doveri di giusta distribuzione: dopo tutto il pane che chiediamo a Dio è “nostro” e non obbedisce alle leggi spietate del mercato. L’ubriacatura da pane è peggiore di quella del vino perché porta nel quotidiano l’eccesso della festa che non può durare per sempre: «si beve per ingordigia e cattiveria. Si beve pane sottratto agli altri. È una ubriacatura diversa, perché non puoi dire che tanto domani ti passa; no, questa dura nel tempo; non è un fatto personale, è sventura per tutti». Il pane non può essere perciò sprecato ed occorre baciarlo quando cade, perché resta sempre un dono di Dio, anche quando richiede il sudore della fronte che i contadini conoscono bene. Non a caso il cosiddetto pane dei morti è al centro di numerosi rituali di redistribuzione collettiva in occasione di funerali a cui partecipava l’intero paese: da un lato la logica necessità di interrompere il digiuno dovuto al lutto, dall’altro l’esigenza simbolica di farlo collettivamente.

856_0La crisi della morte trova così il trascendimento necessario in un pane distribuito ai poveri, perché dare ai poveri vuol dire dare ai morti, e dare ai poveri significa dare a Gesù Cristo che ha sconfitto la morte. L’esigenza naturale di tornare a vivere si unisce al mistero cristiano della Pasqua grazie al pane, cibo di vita eterna, e perciò naturale alimento di rinascita collettiva. Occorre precisare che questi passaggi continui dal linguaggio denotativo ai metalinguaggi dello spirito con i loro ritorni efficaci a referenti esistenziali e materiali non sono strumenti arbitrari di una semiotica elitaria, ma nascono e si sviluppano dalla e nella ortopratica collettiva della vita, di cui solo il rituale è capace di codificare regole e prospettive. Forse non a caso la religione cristiana ha costruito sul pane e con il pane il memoriale più forte e più efficace del mistero della settimana santa: l’Eucarestia è il rituale di salvezza per eccellenza, un mangiare insieme il pane della vera vita, che proprio perché tale non può che essere collettiva. Ancora una volta l’altro mondo della trascendenza e della fede diventa immanente, visibile e umanamente sperimentabile con le cose del mondo contadino che spesso rifiutiamo senza comprenderne la complessità simbolica ed esistenziale.

Gian Paolo Gri ci invita perciò a rifare il viaggio di andata e soprattutto quello di ritorno dall’altro mondo per vivere più criticamente nel nostro, e forse le vere motivazioni del suo mestiere sono le stesse dell’inchiesta etnografica. È stato proprio Lévi-Strauss, che odiava i viaggi e gli esploratori – del nostro tempo? – a riflettere sul mestiere del recuperante: «Che cosa è propriamente un’inchiesta etnografica? L’esercizio normale di una professione come le altre, con la sola differenza che l’ufficio o il laboratorio sono separati dal domicilio da qualche migliaio di chilometri? O è la conseguenza di una scelta più radicale che implica la messa in causa del sistema nel quale siamo nati e cresciuti?». In definitiva: occorre sempre essere scontenti di sé stessi e della propria società per riattraversare i “tristi tropici” della vita e del pensiero. La società postmoderna, con la sua fluidità e dispersione, ci ha trasformati in bricoleurs costretti a rimettere insieme pezzi di vita e frammenti di senso, e non possiamo farlo senza possedere gli strumenti del recuperante e senza le cose dall’altro mondo. L’autore di questo libro ha fatto da tempo una scelta radicale di ricerca che è un mestiere che dura tutta la vita. E noi? 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024

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Nicola Gasbarro, insegna Storia delle Religioni e Antropologia culturale all’Università degli Studi di Udine. Si occupa soprattutto di metodologia e prospettiva della storia delle religioni, dei rapporti tra comparativismo e compatibilità e di antropologia della complessità. Tra le sue pubblicazioni: La “Città dell’Islam” e la “Città della guerra” (introduzione e scelta di testi, Milano, 1991), “Noi e l’Islam”, in Il sacro e la storia (Stresa, 2003). Ha curato L’uomo che (non) verrà di Mike Singleton (Udine, 2013). Ѐ Presidente del comitato scientifico di Vicino/lontano Vicino/lontano.   
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