di Fabiana Dimpflmeier e Dario Nardini
Lares è la più antica fra le riviste italiane di studi demoetnoantropologici oggi esistenti. Fondata nel 1912 da Lamberto Loria, dal 1949 è pubblicata dalla casa editrice Leo S. Olschki di Firenze, ed è oggi distribuita, oltre che in cartaceo, in versione digitale sulla piattaforma Torrossa dell’editore Casalini e tramite la banca dati JSTOR. Totalmente rinnovata da Pietro Clemente (Università di Firenze) a partire dal 2003, dal 2018 è diretta da Fabio Dei (Università di Pisa), coadiuvato da un ampio gruppo redazionale e da un comitato scientifico internazionale (https://lares.cfs.unipi.it/). Lares ha uscita quadrimestrale ed è classificata tra le riviste di Classe A del settore M-DEA/01 dell’ANVUR.
Un po’ di storia
Parlare della storia di Lares è un po’ come parlare della storia degli studi italiani sul folklore e sulle tradizioni popolari – che sono d’altronde i principali ambiti di interesse della rivista. Dalla sua fondazione a opera di Lamberto Loria, per passare alla guida di Paolo Toschi (1930-1932 e 1949-1974), arrivare a Giovanni Battista Bronzini (1974-2001) e Vera Di Natale (2002), e infine a Pietro Clemente (2003-2016) e Fabio Dei, nel succedersi delle sue diverse direzioni Lares ha incarnato i principali orientamenti teorici che hanno caratterizzato lo studio della cultura popolare in Italia negli ultimi cento anni: dal periodo positivista a quello fascista, per procedere lungo le fasi “folklorica” (1948-1973), “demologica” (1974-2003) e “antropologico-patrimoniale” (2003-2017) (Dei 2020: 3).
Lamberto Loria crea Lares nel 1912 a coronamento del suo progetto di rifondazione etnografica dello studio degli usi e costumi delle genti italiane. Dopo aver passato diversi anni in Nuova Guinea britannica (1889-1890; 1891-1896), al suo ritorno – folgorato sulla via di Circello nel Sannio – decide di dedicarsi a quelli che allora erano considerati i nostri “selvaggi interni”, applicandovi tuttavia il rigore e l’approccio metodologico sviluppato sul campo tra i popoli esotici. Sin dai primi anni del Novecento Loria si era fatto propugnatore di un orientamento etnografico allo studio delle culture contadine che voleva andare oltre l’impostazione folkloristica classica – incentrata per lo più sulla produzione orale – allargando l’interesse anche alla cultura materiale, ma soprattutto cercando di restituire a tutto tondo usi, costumi e credenze della penisola inserendoli in un quadro teorico e comparativo più ampio: «bisogna – sostiene Loria – che i folkloristi si convertano in etnografi» (Loria 1912: 19).
Inizialmente impegnato nella creazione del Museo di Etnografia Italiana di Firenze, a partire dal 1908 Loria viene cooptato nell’organizzazione della prima Mostra di Etnografia Italiana tenutasi nel 1911 in occasione delle celebrazioni del primo cinquantenario dell’Unità d’Italia. Lo sforzo è funzionale alla raccolta di documenti e oggetti che possano illustrare la vita delle itale genti nella ricchezza delle loro diversità e alla creazione di un Museo Nazionale di Etnografia Italiana che le accolga in tutta la loro rappresentatività. Nel portare avanti questo progetto, poi rimasto incompiuto, Loria è conscio della necessità di creare nuovi spazi di incontro, confronto e aggregazione atti a favorire «tutto un movimento di nuove indagini» e il costituirsi di una comunità scientifica che possa discutere e «fissare i metodi da seguirsi nei nostri studi» (ivi: 21). Proprio a questo scopo, crea nel 1910 la Società di Etnografia Italiana, organizza il primo Congresso di Etnografia Italiana nel 1911 e fonda appunto Lares, a cui sarebbe dovuta seguire tutta una serie di pubblicazioni etnografiche utile a costituire «con l’andare degli anni un ricco materiale di studio per chi volesse conoscere la vita e l’anima del nostro popolo» (ivi: 22).
L’improvvisa morte di Loria (1913) e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale interrompono la pubblicazione del periodico, mettendo fine alla prima fase di esistenza della rivista. Lo sforzo di definizione e rifondazione etnografica dello studio delle tradizioni popolari italiane viene ripreso da Raffaele Pettazzoni solo alla fine degli anni Venti, rilanciato nei primi due Congressi Nazionali di Tradizioni Popolari di Firenze (1929) e Udine (1931), organizzati dal Comitato Nazionale delle Tradizioni Popolari (CNTP). Pettazzoni, pur abbandonando l’etichetta di Etnografia italiana per quella anglosassone di Folklore, concepisce lo studio della cultura popolare quale “etnografia dei popoli civili”, andando a recuperare l’impianto della lezione loriana. Lares rinasce proprio sotto questi auspici, come organo del CNTP, con Paolo Toschi alla direzione, per avere però brevissima attività indipendente: al volgere del decennio il processo di cooptazione del folklore nel regime fascista si fa più intenso, e nel 1932 il CNTP, così come Lares, sono assorbiti dal Comitato Nazionale per le Arti Popolari, controllato direttamente dall’Opera Nazionale Dopolavoro. La direzione della rivista passa a Emilio Bodrero, esponente di spicco della politica fascista, che la mantiene fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Lares, per oltre dieci anni, corrispondenti alla sua seconda serie, è segnata «dalla costante tensione fra una postura ‘scientifica’, quella della neutrale raccolta di dati e documenti della vita popolare, e l’adesione al programma ideologico del fascismo» (Dei 2020: 11), che spinge verso una esaltazione nazionalista dell’italianità e dei valori più conservatori del mondo contadino tradizionale. Con Toschi, vice-direttore (o, se vogliamo, direttore scientifico) fino al 1943, il folklore perde la sua connotazione etnografica e viene circoscritto a «repertorio di forme di estetica popolare: documenti o ‘reliquie’ viventi di antiche fasi della letteratura e dell’arte» (ivi: 10) che vanno raccolti filologicamente.
A guerra terminata, nel 1949, Toschi vince a Roma la prima cattedra di Letteratura (da lui ribattezzata Storia) delle tradizioni popolari, affermandosi come folklorista di spicco del periodo post-bellico. Nello stesso anno ricostituisce la Società di Etnografia Italiana e dà vita alla terza serie di Lares, che dirige fino al 1974 per i tipi della casa editrice Leo S. Olschki di Firenze. In questa fase “folklorica”, la rivista si mostra quasi completamente impermeabile sia agli indirizzi internazionali che in quegli anni procedono a un definitivo abbandono degli approcci positivisti ed evoluzionisti, sia ai nuovi fermenti e dibattiti che fioriscono nel primo dopoguerra in Italia a partire dalle riflessioni sul mondo magico di Ernesto de Martino e da quelle etico-politiche dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. In particolare, di fronte al dischiudersi di un modo alternativo di concepire il popolo come classe e il folklore quale espressione dinamica e propulsiva della cultura delle classi subalterne, Toschi si chiude in una tradizione filologico-folklorica di impianto ottocentesco che, continuando a rifarsi a Comparetti, D’Ancona, Novati, Barbi e Pitrè, guarda ancora al popolo quale perenne, inconsapevole e immoto custode di tesori culturali del passato.
Alla morte di Toschi la direzione della rivista passa a Giovanni Battista Bronzini, suo allievo, che la mantiene fino al 2002, spostandone la redazione a Bari, dove insegna Storia delle tradizioni popolari. In una fase cruciale dello sviluppo delle discipline demoetnoantropologiche italiane, Bronzini tenta un accostamento tra la nostrana tradizione folklorica di impianto filologico-letterario e i nuovi orientamenti internazionali, prestando particolare attenzione alle diverse forme di ricerca sul campo, così come agli studi sulla cultura popolare legati a De Martino e Gramsci. Lo studioso segue da vicino la nuova rifondazione demologica degli studi folklorici promossa da Alberto M. Cirese, arrivando a adottare un nuovo concetto antropologico di cultura. Negli anni che vedono la cultura popolare godere di una certa fortuna anche al di fuori del mondo accademico e l’università rafforzarsi ed espandersi numericamente, abbandonato l’impianto ottocentesco, Lares si ritrova finalmente proiettata nel dibattito antropologico contemporaneo, quale potenziale punto di riferimento per la nuova comunità scientifica di demologi e antropologi culturali. Tuttavia la rivista rimane piuttosto isolata, arroccata «nella sua appartenenza accademico-territoriale, quella dell’Istituto di Storia delle tradizioni popolari dell’Università di Bari» (Dei 2020: 28).
Alla morte di Bronzini, Lares rimane per un anno nelle mani del gruppo barese, sotto la direzione di Vera di Natale, per poi tornare a Firenze per decisione dell’editore Olschki, che ne affida nel 2003 la direzione a Pietro Clemente. È l’inizio della fase più attuale di Lares, quella antropologico-patrimoniale, per molti aspetti considerabile come diametralmente opposta a quella bronziniana, sia per impostazione teorica che per impianto organizzativo. Formatosi nell’ambito del progetto demologico ciresiano e degli approcci marxisti degli anni Sessanta e Settanta, Clemente si interessa principalmente alle storie di vita e ai problemi di museografia etnografica da una prospettiva che dalla fine degli anni Ottanta vira verso il post-modernismo e l’antropologia interpretativa, abbracciando forme sperimentali di ricerca e scrittura etnografica, e che presta particolare attenzione ai nuovi processi di ibridazione culturale e patrimonializzazione. La rapida scomparsa delle tradizioni contadine che segue la modernizzazione della penisola segna d’altronde il tramonto dell’impianto demologico, svelandone le contraddizioni interne, così come la possibilità stessa di pensare la cultura popolare come indipendente e/o contrapposta a quella egemonica. Oltretutto, la riforma dell’università del 1990 porta all’accorpamento di Storia delle tradizioni popolari, Etnologia e Antropologia culturale in un unico settore scientifico disciplinare, marcando la fine dell’autonomia disciplinare della demologia.
Al volgere del nuovo millennio, sotto la guida di Clemente, Lares si focalizza dunque sull’antropologia del patrimonio, su riflessioni inerenti pratiche e politiche di valorizzazione promosse dall’Unesco e in particolare sul dibattito sull’Intangible Cultural Heritage (ICH). Allo stesso tempo, cerca di superare la dimensione esclusivamente folklorica degli anni precedenti, riproponendo in chiave attuale temi classici degli studi sulle culture popolari e affrontando tematiche di antropologia contemporanea che recuperano l’iniziale vocazione etnografica della rivista. Lares si apre ora a tutto l’insieme degli studi di settore, come chiaramente indicato dal nuovo sottotitolo: “Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici”. Come ricorda Clemente, gli «premeva ritrovare la connessione comune tra le tre discipline DEA intorno e dentro la rivista […], accentuando e innovando […] lo spazio che Alberto M. Cirese aveva chiamato ‘demologico’» (Clemente, Dei 2018: 3). Nel contempo, va delineandosi anche una particolare attenzione alla storia degli studi e al ripensamento di figure, correnti e aspetti della riflessione disciplinare.
L’assetto redazionale viene completamente rivoluzionato, a favore di una gestione e programmazione scientifica corale della rivista: attorno a Clemente si viene a creare un’ampia redazione e un comitato scientifico internazionale che si rinnova nel corso degli anni e che annovera studiosi appartenenti a scuole e correnti differenti. Da quattro, i fascicoli editi annualmente divengono tre, uno dei quali assume carattere monografico. Compaiono le rubriche Archivio, dedicata alle fonti e ai documenti della storia della disciplina, e Istituzioni e ricerche, riservata a musei ed enti di ricerca che operano sul/nel campo del patrimonio etnografico. A veglia, originariamente creata da Toschi, viene rinnovata per accogliere per lo più fonti orali soggettive (storie di vita, commemorazioni, trascrizioni, ecc.). Frequenti sono le forme di scrittura e di dibattito sperimentali.
A partire dal 2018 Lares passa nelle mani di Fabio Dei (Università di Pisa) che, in continuità con Clemente, ne riprende l’apertura a tutte le dimensioni della disciplina antropologica, tentando al contempo di stabilirne un programma scientifico che, in linea con la tradizione di studi italiani sulla cultura popolare che da sempre la caratterizza, le possa dare una fisionomia propria e riconoscibile nel panorama delle ormai numerose riviste italiane di settore e alla luce di un necessario ripensamento della disciplina.
Questa direzione di ricerca è esplicitata nel Manifesto per una post-demologia, pubblicato in apertura al numero monografico 2-3/2015 di Lares dedicato a La demologia come “scienza normale”? Ripensare ‘Cultura egemonica e culture subalterne’ (a cura di F. Dei e A. Fanelli). Il documento programmatico condensa i frutti delle riflessioni maturate nell’ambito del convegno tenutosi a Matera dal 19 al 21 giugno 2014, “La demologia come scienza normale: quarant’anni di Cultura egemonica e culture subalterne”, dove un numeroso gruppo di studiosi si è confrontato sulle ragioni dell’esaurimento del paradigma demologico proposto da Cirese, interrogandosi sulla sua attuale frammentazione ed eterogeneità di indirizzi e soprattutto sul possibile futuro degli studi italiani sulle culture subalterne. In particolare, ci si è chiesti se fosse «possibile trovare ancora momenti di collegamento con la stagione Gramsci-De Martino-Cirese, che così a fondo e in modo originale ha caratterizzato la tradizione degli studi antropologici italiani» e se abbia senso «lavorare ancora sulle categorie di egemonia e subalternità, e sulle relazioni tra differenze culturali e differenze sociali» (Dei et alii 2015: 203).
Il Manifesto per una post-demologia afferma la necessità di:
a) assumere una «prospettiva riflessiva sulla storia e sull’oggetto della disciplina: vale a dire la consapevolezza di lavorare all’interno di un campo costituito storicamente e politicamente» e di conseguenza di «praticare una storia degli studi non solo ‘interna’ (intesa cioè come successione di opere, autori, teorie e ricerche), ma anche ‘esterna’, volta cioè a ricostruire il modo in cui gruppi intellettuali si posizionano socialmente, si rapportano alle istituzioni e al potere, gestiscono strategie di distinzione etica ed estetica»;
b) ripensare l’“oggetto” degli studi post-demologici, abbandonare i “repertori ‘naturali’ di folklore o di patrimonio intangibile” e aprirsi ai «processi di folklorizzazione e patrimonializzazione per il cui tramite quegli stessi repertori si sono costituiti e continuano a costituirsi»;
c) ampliare il campo degli studi agli «aspetti non patrimonializzati della cultura: le routines quotidiane che non sono oggetto di esplicita valorizzazione etica o estetica, i ‘mucchi di rifiuti’ (secondo la più classica vocazione antropologica), le estetiche del cattivo gusto, del consumo materiale e immateriale di massa, etc. E, ancora, le culture che non sono costitutivamente patrimonializzabili, perché non enunciabili, sotterranee, informali o segrete»;
d) esplorare le possibilità euristiche delle categorie di egemonia e subalternità nell’analisi di «nuove dinamiche di disuguaglianza sociale, ad esempio quelle di gruppi marginalizzati, nonché [d]i momenti di emergenza esplicita della conflittualità, come nel caso dei nuovi movimenti sociali e delle dinamiche di potere legate, oltre che alle classi, anche al genere, alla generazione, all’etnicità»;
e) recuperare un confronto «esplicito e sistematico con altre tradizioni di studio internazionali che hanno attraversato una analoga ‘crisi del folklore’»;
f) rinnovare le metodologie di ricerca e gli approcci etnografici (ivi: 203-204).
In Lares questo programma scientifico si intreccia e fortifica nell’apertura alle diverse anime e correnti dell’antropologia contemporanea già voluta da Clemente: l’idea fondante è anzi quella che la svolta post-demologica non possa realizzarsi senza un assiduo confronto critico con i livelli più avanzati della ricerca e del dibattito in antropologia e in discipline affini (quali la sociologia, la storia, gli studi culturali). Per questa ragione, la rivista accoglie sia riflessioni in linea con questo impianto post-demologico, che saggi e numeri monografici che propongono tematiche di grande attualità antropologica basate su ricerche di campo sia in ambito europeo che extraeuropeo. Per questa stessa ragione, dal 2018 è stata fortemente voluta una sezione Forum, espressamente dedicata a momenti di più ampia discussione su opere o correnti teoriche recenti.
Così, sulle pagine di Lares degli ultimi cinque anni, in linea con una prospettiva riflessiva sulla storia degli studi, ampio spazio è dedicato a indagini storiografiche di impianto critico volte a una rilettura di personaggi e momenti significativi della storia dei nostri studi. Ne sono un esempio il monografico dedicato al carteggio inedito tra Cirese e de Martino, curato da Antonio Fanelli (2018) e arricchito dai commenti di Gino Satta, Marcello Massenzio, Enzo V. Alliegro e Pietro Angelini, da cui emerge la tensione, la ricchezza e l’impegno del dibattito intellettuale in campo antropologico del periodo postbellico, o la sezione Archivio curata da Fabiana Dimpflmeier (2019), che restituisce e commenta nuove fonti relative al soggiorno di Lamberto Loria in Australia.
E ancora, e soprattutto, il numero doppio dedicato ad Antropologia italiana e fascismo. Ripensare la storia degli studi demoetnoantropologici (Dimpflmeier 2021), con cui si è cercato di colmare, almeno in parte, lo scandaloso “vuoto conoscitivo” che ha caratterizzato la storia degli studi antropologici italiani tra le due guerre e che ha segnato «le (pochissime) ricostruzioni storiografiche della nostra disciplina, a partire da Cultura egemonica e culture subalterne di Alberto M. Cirese, […] rendendo il fascismo invisibile» (ivi: 177). Nel monografico si ripercorrono le dinamiche e i processi che hanno portato alla rimozione del folklore di regime nella storia degli studi (Fabio Mugnaini), soffermandosi su alcuni dei protagonisti di quella temperie politico-intellettuale – Paolo Toschi (Stefano Cavazza), Raffaele Pettazzoni (Dimpflmeier), Giuseppe Cocchiara (Antonino Blando e Rosario Perricone; Alessandro D’amato), Gaetano Pieraccini (Claudio Pogliano), Vinigi Lorenzo Grottanelli (Antonino Colajanni) – e su alcune realizzazioni significative del periodo, quale la Missione al lago Tana del 1936 (Gianni Dore) e la stesura – nelle sue varie versioni – del Manifesto della razza (Leonardo Piasere). Il proposito è quello di fare luce sull’antropologia italiana tra le due guerre, prestando attenzione alle diverse modalità di costruzione e partecipazione alla cultura fascista. Sempre in quest’ottica di riesame storiografico, benché nati come parte di un progetto autonomo che vedrà un suo compimento postumo, non possiamo non ricordare anche i due saggi di Alberto Sobrero (2018, 2019) incentrati su una rilettura originale e complessiva de L’invention du quotidien di Michel De Certeau.
In linea con il ripensamento di temi e concetti classici della demologia è invece la sezione monografica incentrata sulla medicina popolare del numero 3/2019, dedicato a Tullio Seppilli, che contiene alcuni interventi presentati al secondo convegno della SIAM (Società Italiana di Antropologia Medica) e che ragiona sulla possibile applicazione della categoria di medicina popolare, radicata nella contrapposizione tra cultura egemonica e culture subalterne, nell’attuale panorama di pluralismo medico. Si torna poi su uno dei temi su cui la “post-demologia” si è soffermata di più in tempi recenti – quello delle campagne, delle “economie informali” legate al cibo e all’agricoltura, del mondo contadino e mezzadrile nell’Italia centrale e della sua memoria e delle sue trasformazioni in termini “patrimoniali” – con il primo numero del 2023 (in uscita mentre scriviamo questo resoconto), curato da Fabio Dei e basato su una parte dei risultati del Prin 2017, “Rethinking urban-rural relations for a sustainable future: case studies of informal food value chains in Central Italy”, coordinato dall’Università di Macerata con la partecipazione delle unità locali di Pisa e Perugia.
Anche in questo caso, il focus su un tema “classico” si sviluppa in aperto e continuo dialogo con il dibattito antropologico contemporaneo sulla definizione degli aspetti “informali” dell’economia legata al cibo, sulla “nostalgia”, sui processi di deruralizzazione e industrializzazione delle campagne, sulla patrimonializzazione di alcune produzioni “tipiche” e sulle sue conseguenze, e su esperienze alternative di ripensamento radicale del rapporto con la produzione e il consumo di prodotti alimentari. In questa direzione, lungo assi indipendenti e originali, vanno ricordati anche i saggi apparsi nella sezione miscellanea di Valentina Porcellana e Cristian Campagnaro sulle possibilità interpretative e applicative di design e antropologia nei percorsi dell’etnografia dell’abitare incentrati sugli oggetti domestici (2018), l’approccio micro-etnografico sugli oggetti della vita quotidiana di Valentina Vinai (2018), nonché l’analisi, su un piano del tutto diverso, della produzione di “località” tra immaginazione, desiderio e patrimonio di Emanuela Rossi (2019). Particolare importanza ricoprono anche tentativi italiani ed europei di affrontare la “crisi” degli studi sul folklore: ricordiamo in questa sede il ripensamento del lavoro di Christian Bromberger, figura centrale dell’antropologia francese degli ultimi decenni, proposto da Lia Giancristofaro (2019), il rilevante contributo di Hizky Shoham sulle prospettive antropologiche sulla tradizione (2022) e la ricostruzione di Reinhard Johler (2022) della vita e del percorso scientifico di Hermann Bausinger, studioso di riferimento nell’ambito degli studi europei degli ultimi cinquant’anni sulla cultura popolare nella società tecnologica e globalizzata.
L’apertura a tematiche antropologiche ampie e di attualità sul piano internazionale, anche grazie al recente coinvolgimento di forze “giovani” nella redazione, è evidente nei saggi di Luigigiovanni Quarta su Didier Fassin e l’attitude critique in antropologia (2019), di Lorenzo Urbano su quella che è stata definita l’Ethical turn (2020), di Dario Nardini sul tema dello sport, delle pratiche fisiche e del “corpo-in-movimento” (2020), e di Francesco Aliberti sul lavoro del Centre for Digital Anthropology (2021). Ma emerge con chiarezza anche nell’etnografia dell’emergenza Coronavirus di Fulvio Cozza (2019) e nel saggio di Martino Rossi Monti (2020) che analizza il rapporto tra intellettuali e pandemia, così come in quelli sull’antropologia del cibo di Martina Giuffrè (2019), sulla lettura della mafia come sistema basato sul dono di Marco Santoro (2020) e sul rapporto tra guerra, immagini e social media di Pietro Meloni (2022). Ancora, è alla base dei due importanti monografici ospitati dalla rivista nel 2020 e nel 2022. In Economie umane, economie intime. Né per Dio né per denaro, a cura di Matteo Aria (2020), si evidenzia la necessità di superare alcuni dei confini disciplinari che hanno spesso limitato il dialogo tra l’antropologia economica e gli studi sul dono e quelli sulla stregoneria, sulla magia e sulla religione. I saggi raccolti, che mettono in relazione alcune delle voci più autorevoli dell’antropologia internazionale con le ricerche di giovani studiosi italiani, mostrano a partire da esempi etnografici concreti o da riflessioni più marcatamente teoriche la necessità di leggere le pratiche spirituali e quelle economiche sullo sfondo «di un medesimo insieme di norme culturali che governa l’intero sistema di vita tanto nei paesi interni della Sardegna quanto negli insediamenti sparsi intorno alle pendici meridionali del Monte Camerun» (Aria et alii 2020: 185).
Il monografico curato da Marco Gardini e Aurora Massa propone invece resoconti etnografici, spunti e riflessioni per una Antropologia dei futuri passati (2022). I saggi raccolti spaziano tra le possibilità di un’antropologia del “Noi” (con Luca Rimoldi, che scrive degli ex-lavoratori della Pirelli-Bicocca, e Maria João Bracons Fernandes, impegnata invece nella restituzione della percezione del futuro nel sistema educativo portoghese) e quelle offerte invece dallo studio di aree geografiche più frequentate dall’antropologia “classica” (varie regioni dell’Africa nei saggi di Gardini, Zingari e Napoli, Massa, e Maddaluno, e l’Oceania in quello di Marta Gentilucci). Con un saggio conclusivo di Luca Jourdan, che riflette sulla nozione di tempo nel campo dell’antropologia, il volume nel suo complesso mostra l’importanza di lavorare sulle memorie di “futuri passati” come ambiti da cui osservare i processi di cambiamento sociale e la perpetuazione di diseguaglianze e conflitti, considerando il «ruolo attivo dei soggetti nel ridisegnare, accettare o rimettere in discussione le condizioni strutturali che li vincolano» (Gardini, Massa 2022, 196).
Con la stessa finalità di rilanciare momenti di discussione su opere recenti o correnti teoriche emergenti, la sezione Forum si è aperta nell’1/2018 con una riflessione sulla nuova edizione francese de La fin du monde di Ernesto de Martino, tradotto e curato da Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio. Nel numero successivo ci si è soffermati sul volume curato da Goffredo Plastino, La musica folk. Storie, protagonisti e documenti del revival in Italia (Milano, Il Saggiatore, 2016) agevolando una discussione sul fenomeno del “folk revival” e sull’influenza quasi paradigmatica che ha esercitato per vent’anni sia nello specifico settore disciplinare della post-demologia che, più in generale, nel dibattito intellettuale nazionale ed europeo, fondendo una nostalgica “estetica del ‘popolare’ con il linguaggio dell’impegno politico ‘rivoluzionario’” e di sinistra (Dei 2018, 363).
Nel 2019 il Forum si è soffermato sul caso del molto discusso e provocatorio libro di Berardino Palumbo, Lo strabismo della DEA. Antropologia, accademia e società in Italia, uscito nel 2018 per le Edizioni del Museo Pasqualino di Palermo, che descrive alcune delle questioni, divisioni e prassi che hanno caratterizzato (e caratterizzano) il mondo accademico dell’antropologia ma che difficilmente vengono esplicitate nel discorso pubblico. Nel numero 1/2021, Lorenzo Bartalesi e Alessandro Lupo discutono e ripensano in maniera approfondita, con un’impostazione più teorica il primo e più marcatamente etnografica il secondo, il testo L’oggetto persona. Rito memoria immagine di Carlo Severi, originariamente scritto in francese e tradotto in italiano nel 2018 da Einaudi. Nel fascicolo 1/2022 ci si sofferma sulla traduzione italiana de L’impero del trauma. Nascita della condizione di vittima, di Didier Fassin e Richard Rechtman, curata da Luigigiovanni Quarta (Meltemi, 2020). Qui, alle voci di alcuni antropologi italiani, che chiariscono le ragioni della centralità di una riflessione tradotta con ritardo nella nostra lingua, rispondono quelle degli autori dell’opera, con la volontà di rinnovare un dibattito fondamentale «sui rapporti tra ricordo e sofferenza, tra politica e psichiatria, tra policies e ragione umanitaria» (Quarta 2022, 115).
Cosa prevede la programmazione dei prossimi numeri? Un monografico su insularità, mutamenti sociali e processi identitari a Capo Verde (a cura di Martina Giuffré e Giacomo Pozzi), uno sul tema della “responsabilità” in chiave di antropologia della morale (a cura di Lorenzo Urbano), un forum incentrato sulle “politiche del riconoscimento”, la pubblicazione del carteggio tra Giuseppe Cocchiara ed Ernesto de Martino (a cura di Antonio Fanelli e Rosario Perricone), nonché saggi sulla religione degli immigrati pakistani a Palermo, sulle apparizioni dei fantasmi in Sardegna, sul rapporto fra ricerca sul campo e engagement etico-politico, sul teatro popolare… e molto altro. Insomma, Lares continuerà a riflettere attorno a questioni e problematiche che, per attinenza tematica diretta o per affinità teoriche, metodologiche o epistemologiche, appaiono cruciali per l’affermazione in Italia di un paradigma post-demologico che dialoghi apertamente con le più attuali riflessioni in campo antropologico e oltre.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Riferimenti bibliografici
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Fabiana Dimpflmeier insegna Antropologia culturale presso l’Università ’Gabriele D’Annunzio’ di Chieti-Pescara. Formatasi presso La Sapienza Università di Roma e la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, si occupa di storia dell’antropologia italiana e anglosassone, di letteratura di viaggio e d’evasione e studia i processi di costruzione identitaria nazionale e regionale con particolare riferimento alle formazioni discorsive italiane del periodo coloniale e fascista. Coordinatrice redazionale di Lares (Olschki) e Rivista di antropologia contemporanea (Il Mulino), dal 2020 è co-convenor dello History of Anthropology Network (HOAN) della European Association of Social Anthropologists (EASA) e dal 2022 è parte del direttivo della Società Italiana di Antropologia Culturale (SIAC) e fellow del Royal Anthropological Institute. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo le curatele Folklore, razza, fascismo (Olschki, 2023) e “Il coro disvela una legge segreta”. James G. Frazer fra antropologia, letteratura e studi classici (Carocci, 2022, a cura di) e le monografie Il giro lungo di Lamberto Loria. Le origini papuane dell’etnografia italiana (Cisu, 2020) e Nelle mille patrie insulari. Etnografia di Lamberto Loria nella Nuova Guinea britannica (Cisu, 2018, con S. Puccini).
Dario Nardini, dottore di ricerca in Antropologia Culturale e Sociale, è assegnista all’Università di Siena, e insegna all’Università di Milano-Bicocca. Ha condotto ricerche etnografiche sulla lotta bretone, sul surf in Australia, sul Calcio Storico Fiorentino e sulle economie informali legate al cibo in Toscana. In questi studi, ha approfondito questioni al cuore delle discipline demoetnoantropologiche, con particolare attenzione per temi quali il corpo, l’identità culturale, il patrimonio, l’immaginario e le metodologie della ricerca. È coordinatore editoriale di Lares, e direttore della collana “Sport, corpo, cultura” di Ledizioni. Tra le sue pubblicazioni, “Being Bretons through wrestling. Traditional gouren as a distinctive Breton activity”, Ethnography (2021, con Aurélie Epron); la curatela “Vivere il dolore” per ERQ (2022, con Federica Manfredi); le monografie Surfers Paradise. Un’etnografia del surf sulla Gold Coast australiana (Ledizioni, 2022) e Il Calcio Storico Fiorentino: La rievocazione tra patrimonio e “identità” (Olschki, 2023); il capitolo “Demotic Sports in Europe”, nel volume Cambridge History of Sport (a cura di Fiona Skillen e Malcolm MacLean, Cambridge University Press, 2024).
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