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L’arte in rivolta. Le Primavere arabe e i graffiti tra immaginazione e sacrificio

4di Giovanni Cordova 

Herbert Marcuse scriveva che la popolarizzazione – o meglio la massificazione – dei valori culturali mediante l’incremento delle possibilità di riproduzione, esposizione e fruizione dei prodotti artistico-culturali conduce all’appiattimento dell’antagonismo tra cultura e realtà sociale (1999). In altre parole, viene meno quella aspirazione alla trascendenza che l’alienazione artistica condensa in linguaggi dalla forza sovversiva e dal contenuto distruttivo. Da qui all’integrazione totale e molecolare dell’essere umano nelle spire della società capitalistica il passo è breve, anzi, già compiuto. Eppure, diverse esperienze occorse negli ultimi decenni, collocabili sulla soglia instabile tra arte e politica, ci invitano a fare nostri toni più cauti.

È questo il caso dell’arte in rivolta che ha trovato espressione nelle esperienze di artisti/e e collettivi in Nord Africa, durante e dopo le Primavere arabe. Dalla musica al teatro, passando per le arti figurative e la scrittura, le potenzialità improvvise e impreviste di cambiamento che più di un decennio fa hanno dischiuso nuovi (caduchi) orizzonti dal Marocco all’Egitto, potenzialità purtroppo tradite secondo quanto possiamo osservare oggi, hanno trovato immediata risonanza nel discorso e nella pratica dell’arte (Gandolfi 2012; 2016; Serlenga 2022). Come se non vi fossero modalità più adatte del gesto, della voce e del tratto “artistico” a incarnare traiettorie rizomatiche di rivolta e a dare forza all’immaginazione di umanità nuove. Pagine di storia, le Primavere, che riflettono il balenio del presente che riscopre il passato in un’escatologia virata a sollecitare e alimentare forme nuove e inattese di socialità e politica.

Nelle piazze d’Egitto come sui muri di Tunisi, l’evaporazione della connotazione auratica dell’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica e della sua fagocitazione estetica da parte di vecchi e nuovi fascismi sembra condensarsi in una nuova materialità condivisa e progressiva, in cui il mito e il sacro non segnano il contraccolpo della fine di ogni progettualità politica (Bodei 1995), bensì l’intessitura di trame ardite e ibride capaci di mescolare generi, repertori e visioni, lungo il crinale in cui etica, estetica e politica ridisegnano i loro confini e la loro profondità. Nelle pieghe delle rivolte che hanno infiammato Nord Africa e Medio Oriente tra il 2010 e il 2011 (ma anche negli anni precedenti e successivi, in complessi e stratificati cicli di conflitto sociale: cfr. Cordova 2022), l’arte sembra affermare la propria pretesa di universalità nel rivendicare istanze di libertà e giustizia, sia pure secondo forme, modalità e ideologie semiotiche radicate in valori sociali culturalmente determinati, anche quando la pratica artistica evoca messaggi la cui ricezione e decodifica ambiscono a travalicare ogni confine.

Un graffito su un muro, un tratto calligrafico sulla facciata di un minareto o sulle pareti di ruderi nel deserto (come nel caso dell’artista tunisino El Seed) [1]) pratiche drammaturgiche congegnate “dal basso” e popolari, generi musicali ai quali si affida l’enunciazione di sentimenti e desideri (Levine 2010; Zegnani 2020): l’attribuzione di statuto di “arte” a manifestazioni e pratiche “effimere” e il cui carattere pubblico impone la “contaminazione” dell’assoluto artistico con l’economia politica (come nel caso della street art o del graffitismo) richiederebbe una ben più ampia trattazione storico-estetica sconfinante con l’antropologia e la sociologia dell’arte, della comunicazione e dei media (Simonicca, Verduci 2021). Ancor di più se tali espressioni sono collocate al di fuori dell’ecumene occidentale, da cui la necessità di sfidare pregiudizi e concezioni etnocentriche radicati nel presupposto per cui l’“espressione non europea” è solo “tradizionale”, “rituale”, “autentica”, mai decontestualizzabile (Tiberini 2013). Lasciando tali questioni, nient’affatto anodine, agitarsi sullo sfondo, volgiamoci ora a quelle donne e a quegli uomini, perlopiù giovani, che armati di bombolette, stencil e creatività hanno conferito tangibilità alle rappresentazioni di senso comune nei mesi delle Primavere, infondendo alla critica politica connessioni identitarie e modalità espressive originali, efficaci, perturbanti.

Vedere e comunicare le Primavere

Il volume illustrato Piazza Tahrir. Graffiti 2011-2017 (Centro Internazionale della Grafica di Venezia, 2024), curato da Giovanni Canova, già docente di Lingua e Letteratura araba e Islamistica alle università Ca’ Foscari di Venezia e Orientale di Napoli, costituisce un tentativo originale e senza dubbio brillante di farsi strada nel tumultuoso panorama della rivolta egiziana posando lo sguardo su quella «narrativa di emancipazione rivoluzionaria, metafora visuale di scontro e sacrificio» (ivi: 11-12) con cui i murali di Piazza Tahrir (e non solo) hanno dato la stura alla domanda di pane e libertà rivendicata dal movimento egiziano che nel febbraio 2011 ha costretto alle dimissioni Hosni Mubarak, cui sarebbe seguito il cataclisma socio-politico degli anni successivi. Una condizione, quella maturata dal 2011 in poi, che attivisti, artisti e osservatori hanno definito come “lo Stato utopico di Tahrir”, un “universo parallelo”, la “libera Repubblica di Tahrir”: uno scenario alter-politico in cui inedite esperienze partecipative e forme inconsuete di rappresentazione ed estetica politica si uniscono al potenziamento della facoltà di immaginazione di alternative sociali.

Mappa delle Primavere arabe

Mappa delle Primavere arabe

Combinando inquadramento storico, approfondimento linguistico-culturale e contestualizzazione socio-politica, l’illustrazione di murali, fotografie e persone presentata nel volume lungo un ampio intervallo di tempo (dal 2011 al 2017) coinvolge lettori e lettrici collocandoli al centro di un complesso prospettico in cui le analisi di tipo geo-politico sembrano recedere di fronte all’ardore degli artisti e dei manifestanti che, rischiando quotidianamente la propria incolumità, hanno inscritto tracce vivide e pregnanti nel paesaggio urbano del Cairo.

Le immagini più iconiche delle Primavere ritraggono i corpi di donne e di uomini assembrati nelle strade e nelle piazze principali di Tunisi, il Cairo, Rabat, Damasco e altre città mediorientali. Bandiere, cartelli recanti messaggi e slogan plurilingui, disegni e graffiti, accampamenti, arrampicamenti su pali, lampioni, tetti, confronti verbali e corporei con le forze militari. Il regime visuale (e sonoro) delle Primavere arabe del 2010-2011 è complesso e articolato e merita alcune considerazioni. Nonostante le traiettorie differenziate – accomunate, tuttavia, dagli esiti oramai infelici di quella stagione – le Primavere condividono le matrici storico-sociali, i repertori culturali della protesta, le ambiguità politiche che vi hanno soggiaciuto. A partire dal grido as-sha‘b yurid isqat al-nizam – “il popolo vuole la caduta del regime”, laddove l’ambiguità incarnata dal termine nizam, di origine ottomana, rinvia alla sua duplice traducibilità con “regime”, appunto, ma anche “sistema” (Kerrou 2018). A Tunisi come al Cairo le masse in rivolta si sono battute per un avvicendamento nelle cariche politiche di governo o per una radicale e rivoluzionaria trasformazione?

La Primavera tunisina

La Primavera tunisina

In effetti, in entrambi i contesti (egiziano e tunisino) riecheggia l’ingiunzione al “capo” di smobilitare, fuggire, sparire [2]. Irhal! – “Vattene”, gli viene gridato in Egitto, invito che risuona nelle canzoni composte per l’occasione dal musicista Rami ‘Isam, come specifica Canova. Il motto Irhal! giunge in Egitto (e in Yemen) da Tunisi, lungo la cui Avenue Bourguiba riecheggia l’imperativo Degage! (“Vai via!”) [3] su cui diversi studiosi si sono interrogati per investigare la relazione al modello egemonico francese, oggetto di riappropriazione creativa e liberato dalla violenza epistemologica coloniale nei giorni della rivolta. Se un tempo erano i coloni (francesi) a ingiungere ai soggetti colonizzati (tunisini) di sloggiare dalla città coloniale, la risemantizzazione “franco-araba” di questo verbo (Dakhlia 2011) fa sì che si possa attribuire al sollevamento tunisino statuto di rivoluzione post-coloniale, priva al tempo stesso di riferimenti al panarabismo o all’islamismo – scenario, questo, piuttosto differente da quello egiziano. Sempre a Tunisi, diversi slogan esposti durante la celebre giornata del 14 gennaio 2011 (giorno della fuga di Ben Ali dal Paese) hanno celebrato connessioni glocali e cosmopolitiche con altri teatri di rivolta, i quali – e ciò vale in particolare per il movimento degli Indignados di Madrid – hanno guardato all’esperienza egiziana (meno a quella tunisina visto il ridotto uso veicolare della lingua inglese nel Paese del gelsomino) come modello di azione collettiva rivoluzionaria ed espressione estetico-politica, assestando una nuova direzione agli scambi tra nord e sud del Mediterraneo.

Del resto, l’apertura al mondo delle Primavere – la loro intellegibilità universalistica (Dakhlia 2011) – è evidente nel ricorso a un plurilinguismo capace di innestarsi comunque su riferimenti nazionali quali la bandiera e l’inno nazionali, come se cacciare il despota equivalesse a conquistare una seconda, vera indipendenza, fecondando la storia della liberazione nazionale con i semi della lotta all’oppressione coloniale (Jerad 2011), lungo quelle disgiunture temporali che l’immaginazione rivoluzionaria stimola nel dischiudere nuove orizzonti in cui fare la storia.

Cairo, Piazza Tahir

Cairo, Piazza Tahir

Anche in Egitto i graffiti (i disegni, le scritte sui muri) recano messaggi in arabo e in inglese, eseguiti ricorrendo a stili calligrafici rigorosamente individuati e descritti da Canova nella sua propedeutica presentazione di questo registro visivo e affettivo collettivo, secondo l’efficace definizione proposta dalla grafica egiziana Hiba Hilmi – e riportata nell’introduzione al volume – per la quale i graffiti assurgono a “voce di chi non ha voce” e i loro autori a “coscienza della rivoluzione”.

E tuttavia, il contesto egiziano appare piuttosto diverso da quello tunisino, riflettendo un campo di forze complesso e internamente articolato in cui è possibile ritrovare diversi orientamenti ideologici: la tradizione rivoluzionaria (spesso associata alla lotta per la liberazione della Palestina, di cui emblema sono i giovani (shabab al-thawra) “armati” di kefiah (kufiyya); posture civili, liberali e laico-secolari; l’islamismo nella sua declinazione politica (la Fratellanza musulmana), salafita o jihadista; la componente cristiana copta, che ha pagato un alto tributo di sangue per la causa rivoluzionaria e che contraddistingue in modo assolutamente peculiare lo scenario egiziano nel contesto regionale; la rievocazione, affidata a immagini e graffiti, del nazionalismo panarabista di matrice nasseriana, le cui rappresentazioni sono state talvolta accostate all’emergente generale al Sisi e al presidente al-Sadat – con la rimozione strategica di Mubarak – nelle campagne di sostegno al futuro presidente egiziano.

Sacrificio e martirio

Il sacrificio e il martirio entrano prepotentemente in gioco nell’analisi della comunicazione della protesta. Mohammed Bouazizi e Khalid Sa‘id sono i due giovani uomini la cui morte viene considerata fondativa dei moti di protesta contro i regimi tunisino ed egiziano. Quella di Bouazizi ha assunto i tragici contorni di un’auto-immolazione, inscenata come protesta contro l’ingiustizia sociale e politica che egli, nelle remote lande di Sidi Bouzid, nel centro-ovest sottosviluppato della Tunisia, subiva frequentemente per mano degli agenti della polizia locale, che gli sequestravano impropriamente, umiliandolo pubblicamente, la merce orto-frutticola con cui cercava di garantirsi la sussistenza. In seguito all’ennesimo sopruso, il 17 dicembre 2010, Bouazizi si dà fuoco con un fiammifero. Diciotto giorni dopo muore mentre è ricoverato all’ospedale di Ben Arous, a pochi chilometri da Tunisi, non prima di aver ricevuto la visita del presidente Ben Ali, che aveva intuito la pregnanza simbolica di quell’auto-immolazione e le rischiose potenzialità di propagazione nel tessuto sociale tunisino. Strade e parchi, oggi, sono intitolati alla sua memoria e, da icona della Rivoluzione, immagini del suo volto sorridente sono scolpite su tanti muri di Tunisi.

Meno nota, forse, è la figura dell’egiziano Khalid Sa’id, la cui uccisione per mano dalla polizia di Alessandria nel giugno 2010 ispira alcuni dei motti e dei motivi ispiratori della protesta contro il regime di Mubarak. In entrambi i casi, due “piccoli” uomini alimentano processi politici di così vasta portata da determinare la fine di regimi pluridecennali. Inoltre, queste due morti, sebbene con modalità differenti, sono inquadrabili nelle retoriche, negli immaginari e nella cultura politica del martirio, che ha ispirato le Primavere arabe e l’azione di attivisti e militanti.

We are all Khalid Said.

We are all Khalid Said

Che sia sorretto da intenzionalità o meno, il sacrificio marca un’arena sociale in maniera tale da determinare una mutazione, temporanea o permanente, degli statuti socio-morali delle persone o dei gruppi sociali coinvolti. Come ricorda Ugo Fabietti (2014), il sacrificio comporta la distruzione (reale o solo evocata) di una vita o di un elemento altrettanto “essenziale” allo scopo di procurare un beneficio – a un gruppo sociale, alla nazione, a una persona la cui esistenza va preservata – grazie all’intervento di un’entità di livello superiore (non necessariamente divina) che viene chiamata in causa nella “configurazione sacrificale”. In questo senso, la violenza è irrimediabilmente connaturata al sacrificio, impregnando di sé le emozioni, gli stati affettivi e la razionalità degli attori sociali. Inoltre, ciò che rende “rituale” il sacrificio è il mutamento di status dei partecipanti a questo scambio. Qui la dimensione morale del sacrificio emerge in tutta la sua rilevanza: come hanno evidenziato Mauss e Hubert nel loro studio sul sacrificio (2002), «il sacrificio si presenta come “un atto religioso che, mediante la consacrazione della vittima, modifica lo stato della persona morale che lo compie e lo stato di certi oggetti di cui la persona si interessa”, ossia un bene per il quale si compie il sacrificio: un raccolto, una casa, un familiare» (Fabietti 2014: 129), ma anche la nazione o il gruppo di appartenenza. Ciò che si sacrifica è sempre consacrato, cioè caricato di un’aura di sacralità che funge da intermediario tra chi beneficia della sua distruzione e una potenza extraumana (una divinità, un’ideale – la libertà, la nazione) con cui si entra in contatto.

In questa configurazione è possibile constatare l’intersezione tra distruzione e dono (o scambio). Ma perché ci sia uno scambio, occorre una relazionalità che è intrinseca al martirio. Una categoria, questa, che negli ultimi mesi riecheggia insistentemente nella commemorazione delle vite perse nel genocidio di Gaza e che, limitandoci all’Islam, contrassegna un registro politico-morale di indubbia valenza comunicativa. Il martire (shahid) è “testimone” (dal greco martys), ovvero portatore di “testimonianza” (shahadah), autore di sacrificio martiriale (istishahad). È facile pensare alla cornice mediatica in cui gli atti di sacrificio – ben al di là di quelli di tipo “terroristico” – avvengono, venendo interpretati dai protagonisti di questi atti nei termini di uno scambio simbolico con l’intera comunità (islamica). Per questo serve un “pubblico” – evenienza rafforzata dalle attuali potenzialità inscritte nella comunicazione digitale – affinché il sacrificio martiriale sia efficace e possa ambire a ricreare un nuovo ordine delle cose (Fabietti 2014; Valeri 1994) in cui le relazioni nel mondo vengono riplasmate (Kapferer 1997).

E ai martiri egiziani Canova dedica un’apposita sezione nel suo volume illustrato, dal momento che essi sono al centro di un’iconografia potente, in grado di sprigionare afflati di critica sociale in cui i registri della politica e del sacro si contaminano a vicenda. I graffiti dalla connotazione martirologica evocano scene della vita quotidiana, ma

«[n]on mancano riferimenti all’antico Egitto, alla lotta tra il bene e il male, ad animali mostruosi, a figure grottesche di capi militare e politici. Ai nomi dei martiri sono spesso associate date e circostanze relative alla loro morte, il tutto costellato di scritte con bombolette spray o tracciate in forma calligrafica, versetti coranici, slogan, motivi in rima o versi poetici veri e propri che incitano i cittadini a unirsi nella rivolta e a vendicare le vittime del regime» (Canova 2024: 14).
Graffiti politici sui muri del Cairo

Graffiti politici sui muri del Cairo

Particolarmente efficaci sono a tal proposito le citazioni di sure e versetti coranici, riproposti in modo che essi si abbattano corrosivamente sui centri e sulle figure del potere, venendo reinterpretati in una forma che fa assumere alla rivolta di Tahrir un’aura messianica e sacrale. Questa vernacolarizzazione del dettato coranico appare tanto più sinistra (e potente) quanto investe soggetti religiosi come la Fratellanza musulmana e Ahmad Mursi, presidente dal 2012 al 2013, prima della presa del potere del generale Al Sisi. Si rimane colpiti dal constatare la rifunzionalizzazione esegetica e la declinazione in chiave contestativa di concetti, personaggi, posture etico-morali centrali nella religione islamica (quali la menzogna, il potere, l’obbedienza, la sottomissione (Fortier 2003)) da parte di attivisti e artisti, capaci di attingere sapientemente alle principali fonti religiose islamiche. È il caso del murale in cui il leader della Fratellanza musulmana Morsi viene ritratto con una maglietta  con la scritta “Se parla mente”, che rinvia a un celebre hadith relativo a un detto del Profeta Muhammad sugli ipocriti, o ancora quello in cui alla figura dello shaykh del centro di Al-Azhar ‘Imad ‘Iffat, ucciso per aver solidarizzato con i manifestanti di Tahrir, vengono aggiunti versi coranici in cui l’obbedienza al capo è interrogata e messa radicalmente in discussione.

Tanti graffiti, tra quelli che Canova sottopone all’attenzione di lettori e lettrici, raffigurano martiri, quasi sempre presentati in forma di angeli: perlopiù giovani uomini, persone comuni oltre che attivisti, rappresentati insieme alle madri che ne piangono la perdita, e che chiedono di non essere dimenticati. Ma tra le masse egiziane che sfidano a mani nude la repressione sanguinosa dei generali qualsiasi volto (indipendentemente dalla confessione religiosa) può diventare il viso di un martire, come ogni giovane che si fa strada nelle trafficate strade del Cairo in bicicletta, scortando una cena di pane sulla testa, e che in un emblematico murale va incontro a un carro armato che lo punta minacciosamente (ivi: 30).

Graffiti politici sui muri del Cairo

Graffiti politici sui muri del Cairo

Instantanee sulla rivoluzione

A guardar bene, i volti dei martiri diventano di fatto la posta in gioco per rivendicazioni sociali e politiche più ampie. Il cordoglio dei familiari dei giovani trucidati esonda in protesta politica quando le fotografie dei loro volti vengono esposti in Piazza Tahrir. Una prassi che mi ricorda quella dei parenti degli ḥarraga maghrebini, ovvero dei ragazzi che hanno provato a emigrare clandestinamente e di cui le famiglie hanno perso le tracce. Sono soprattutto le madri a presentificare figure sommerse in un oblio mediterraneo recando con sé l’immagine dei figli o facendoli ritrarre in grandi murales sulla facciata delle proprie abitazioni, senza smettere di chiedere ai governi (tunisino e italiano) di aiutarli a trovare i corpi, vivi o morti, dei giovani migranti, testimoni di ingiustizie e squilibri sociali responsabili delle tragedie del nostro mare che purtroppo ben conosciamo.

I graffiti proposti alla visione del lettore nel volume curato da Giovanni Canova offrono uno sguardo completo sul magma estetico-politico della Primavera egiziana, e non solo. Essi sono ripartiti in sezioni visuali che riflettono la composizione del movimento sociale e l’intensa e drammatica stagione politica che va dal 2011 al 2017. Oltre ai martiri, troviamo “i dimostranti”, “il regime”, le “evocazioni faraoniche”, lo spazio del sacro con “la svolta islamista”, i “simboli”, “gli artisti”, “i poeti e scrittori”, “le donne”, “la gente”. Inscrizioni sociali che creano cultura e progettualità condivise, i graffiti di Piazza Tahrir offrono uno spaccato vitale, ribollente e resistente in grado di reggere alle pressioni di un regime subito pronto a rimuovere le promesse incarnate dalla Primavera, oscillando tra la repressione spietata affidata ai lacrimogeni e ai proiettili di gomma che colpiscono gli occhi dei dimostranti – scena al centro di diversi murales che ritraggono attivisti con gli occhi bendati o ufficiali militari con sembianze di scheletro con le mani piene degli occhi dei dimostranti (ivi: 85) –  e la rimozione urbanistica dei simboli della rivoluzione, come nel caso del rinnovamento di aree del centro del Cairo i cui muri vengono privati delle testimonianze visuali delle proteste di Piazza Tahrir (ivi: 56).

Graffiti politici sui muri del Cairo

Graffiti politici sui muri del Cairo

La selezione visuale e il lavoro interpretativo offerti da Canova hanno l’ulteriore pregio di presentarci il movimento egiziano nella complessità di uno scenario politico di non facile lettura. Oltre a pretendere diritti sociali e libertà, gli artisti/attivisti affidano ai graffiti la denuncia della ambiguità che percorrono la classe dirigente post-rivoluzionaria e il movimento islamista, le irrisolte contraddizioni della dimensione di genere oltre gli steccati della protesta, l’intima solidarietà della gente “comune” verso i dimostranti, la politicizzazione dell’arte, evidente quando artisti come ‘Ammar Abu Bakr realizzano i murales lungo le principali arterie del Cairo “protetti” da folle che li tutelano da possibili incursioni della polizia.

Ma lo spirito rivoluzionario non deve indurci a trascurare gli aspetti più funesti che hanno investito la popolazione egiziana prima, durante e dopo le Primavere. Aspetti che toccano dolorosamente anche la possibilità stessa di studiare, investigare e “ricercare” in un Paese come l’Egitto. La tortura e la morte di Giulio Regeni, occorsa nel 2016, rappresenta un terribile e indimenticabile esempio del restringimento degli spazi democratici e di comprensione e incontro con l’altro che “il campo” garantisce (Casini, Melfa, Starkey 2020). Nonostante l’ora buia, però, un graffito su un muro ci fa “vedere” e “sentire” che un altro futuro è sempre possibile. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note
(1)   https://elseed-art.com/
(2)   La comparazione tra Tunisia ed Egitto poggia sul fatto che costituiscono i due maggiori esempi di rivolta nel contesto nordafricano delle Primavere, oltre che sulla maggiore conoscenza del caso tunisino da parte dello scrivente.
(3)   La traslitterazione dall’arabo impiegata per termini riferiti al contesto egiziano segue quella proposta nel volume di Giovanni Canova. 
Riferimenti bibliografici
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Casini L., Melfa D., Starkey P. 2020, (a cura di), Minnena. L’Egitto, l’Europa e la ricerca dopo l’assassinio di Giulio Regeni, Messina, Mesogea.
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Giovanni Cordova, ricercatore in antropologia culturale presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia, Antropologia, Religioni (curriculum etno-antropologico) presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma. Ha preso parte a progetti di ricerca inerenti al Nord Africa (Tunisia, Libia) e alle migrazioni internazionali. Negli ultimi anni ha condotto uno studio sulla ritualità religiosa delle comunità di origine asiatica residenti in Sicilia. Ha recentemente pubblicato per le edizioni Rosenberg&Sellier il volume Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la Primavera.

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