di Giacomo Zaganelli
A fine luglio si è inaugurata una mia mostra presso la sala 56 delle Gallerie degli Uffizi. È la prima volta che il museo fiorentino ospita lungo il percorso museale una esposizione di lavori contemporanei, per di più video e per di più lavori non tanto orientati al compiacimento del visitatore quanto piuttosto alla volontà di suscitare in esso una decisa autocritica sul senso del viaggiare e sul modo in cui si osserva al giorno d’oggi.
Grand Tourismo, questo il nome della mostra, un progetto voluto dal Direttore degli Uffizi Eike Schmidt per porre l’attenzione su uno di quegli aspetti che maggiormente caratterizzano la quotidianità delle sale del più visitato museo italiano: l’osservazione delle opere filtrata dagli obiettivi di smartphone e fotocamere.
Ma andiamo per gradi, sono nato a Firenze e vivo tra il capoluogo toscano, Berlino e Taipei dove l’anno scorso sono stato invitato dalla direttrice del Museo di Arte Contemporanea della capitale taiwanese a presentare una mia personale. È così che ho deciso di proporre una mostra che potesse essere un ponte tra la nostra e la loro cultura, con la quale oramai avevo avuto numerose occasioni di confronto.
In tutte le volte che sono andato a Taiwan la cosa che ha attirato maggiormente la mia attenzione è stata la relazione quasi morbosa che i cittadini taiwanesi hanno con il proprio smartphone, non se ne staccano mai neppure a cena. In metropolitana, ad esempio, quasi nessuno comunica verbalmente con qualcun’altro, tutti sono chinati sul proprio schermo, c’è chi gioca, chi è sui social network, chi guarda dove andare a mangiare più tardi o chi sta semplicemente lavorando o passando il tempo.
A Taiwan tutto passa attraverso il cellulare. E in verità non solo a Taiwan. Sembra globalizzata l’ansia di possessione e di consumo dello smartphone. Ed è così che ho deciso di raccontare la città dalla quale provengo attraverso le immagini di un turismo impegnato non tanto ad osservare bensì a fotografare con il proprio telefono. Lo smartphone diviene il punto di contatto tra due realtà geograficamente agli antipodi.
Per Superficially, la mostra al MoCA di Taipei, ho presentato quattro lavori che trattavano della dilagante tendenza della società contemporanea a rimanere sulla superficie delle cose, a non approfondire nulla, a non guardare niente, ma soltanto a immagazzinare immagini all’interno delle proprie memorie digitali. La società nell’era di internet non ha più tempo, vuole tutto e subito. Il web è immediato e intuitivo, ha tempi velocissimi e tutto ciò che va in contrasto con queste dinamiche, come il fatto stesso di approfondire, trova sempre meno spazio.
L’azione è la condivisione, l’obiettivo il consenso e il vero contrasto, nelle città d’arte, emerge tra la caducità del gesto e dei risultati (il post e i likes) con la durabilità di certi dipinti ed edifici secolari.
La mostra di Taipei ha avuto un certo successo sia in Asia che in Europa, e a Firenze, con mia grande sorpresa mi ha contattato il Direttore degli Uffizi che, interessato da ciò che avevo appena presentato a Taipei, mi ha invitato a continuare la ricerca nel museo fiorentino, offrendomi l’occasione unica di poter fare delle riprese nella sala del Botticelli, documentando la relazione tra i visitatori del museo e alcuni dei suoi dipinti più celebri.
Con il decreto Franceschini del 2014, infatti, la relazione nei musei statali tra spettatore ed opera d’arte è cambiata in maniera radicale poiché è stata offerta la possibilità ai visitatori di fotografare le opere presenti nelle collezioni. Così nei musei, specialmente in quelli più importanti, l’attività principale è divenuta quella di scattare foto e immortalare le opere e se stessi in mezzo alle opere d’arte. Ma a quale scopo?
Grand Tourismo è diventata l’occasione per avviare un dibattito critico sulla disattenzione e sulla superficialità con cui ogni giorno affrontiamo il quotidiano ed esercitiamo lo sguardo, e allo stesso tempo sulla mercificazione dei centri storici delle principali città d’arte – ridotti a parchi per turisti – dove l’utilizzo di memory card ha sostituito l’uso del cervello. Non è più il nostro apparato cognitivo a guidarci nell’osservazione delle cose ma è la necessità di condivisione e accumulazione di immagini tutte uguali che ci omologa come individui, dove è il telefono a fare da filtro a ogni cosa che crediamo di aver visto.
Ciò che più incarna questo cambiamento è rappresentato dal ricorso indiscriminato e ossessivo a dispositivi tecnologici che filtrano (e distorcono) la visione dell’opera d’arte attraverso schermi luminosi. La necessità dell’autorappresentazione che viene prima di ogni altra esigenza, aumenta così per l’individuo contemporaneo la drammatica tendenza all’assenza nel mondo tangibile e all’affermazione in quello virtuale.
L’esperienza estetica che voleva l’occhio dialogare con il capolavoro in contemplazione, si trasforma dunque in un frettoloso automatismo di acquisizione della sua immagine superficiale – una sorta di feticcio – destinata a rimanere abbandonata nella memoria di un hard disk o a essere vorticosamente condivisa attraverso i social network. A questi ultimi si deve poi il dilagare del rito del selfie, dove è proprio il “metterci la faccia” a ridare paradossalmente vita all’opera d’arte, svuotata di credibilità da un abuso sconsiderato della sua riproduzione. Se non fosse che il selfie relega l’opera sullo sfondo e costringe a darle le spalle contravvenendo proprio alla regola base che da sempre presiede.
Il turista odierno è fisicamente presente, ma mentalmente assente, fa le corse per fotografare qualcosa, non sa neanche lui la ragione per cui lo sta facendo, ma sa che deve farlo.
Nella società dell’immagine e dell’immediato ciò che conta è la riconoscibilità, non si fotografa un lavoro/opera d’arte perché questo genera delle emozioni/reazioni ma piuttosto perché quello può essere riconosciuto da altri, funzionando così da testimonianza del proprio viaggio e della propria esperienza agli occhi di terzi. Attestando e certificando la propria esistenza là dove si trova il soggetto fotografato.
Al Louvre tutti fotografano la Gioconda, agli Uffizi la Venere, al Reina Sofia (se potessero) Guernica, all’Accademia il David, ma perché all’Alte Pinakothek di Monaco nessuno fotografa il Compianto sul Cristo Morto di Botticelli? Si tratta comunque sempre dello stesso Botticelli degli Uffizi, eppure in maniera molto semplice quel dipinto non ha alcun valore per le masse poiché non rappresenta un’icona.
Un tempo il viaggiare era connesso alla conoscenza. Chi viaggiava aveva fatto esperienza e conosciuto cose. Il viaggiare richiedeva tempo e denaro, era una cosa elitaria che solo pochi acculturati potevano permettersi (Grand Tour). Oggi invece il turismo di massa sembra essere quanto di più lontano da tutto ciò che si collega all’ambito empirico, si rimane immersi in mezzo al gruppo/torpedone di propri connazionali e difficilmente (direi mai) si entra in contatto con i contesti locali, si scambia con la gente del luogo e si costruiscono relazioni dando luce a confronti e contrasti (Grand Tourismo).
Ma se allora l’esperienza di viaggio non è più connessa alla scoperta e alla conoscenza, dove è che risiedono oggi le ragioni del viaggiare? Viene meno l’aura, il valore della realtà, le sensazioni e gli stimoli, mentre si afferma incontrollabilmente l’attitudine a subire, rafforzata dalla possibilità di creare un mondo virtuale su misura. E quindi non avrebbe forse più senso rimanere a casa, risparmiando soldi, e guardandosi le opere o i monumenti su google? D’altronde che si vadano a visitarli o che li si guardino su internet una grande differenza non c’è se poi quando si è lì, si è altrove.
Quando il pubblico degli Uffizi giunge alla sala della mia mostra – dalla quale il passaggio è obbligato – si trova come davanti a un grande specchio dove ha così occasione di ripensare la propria esperienza e di mettere in discussione o almeno in sospensione comportamenti che, a volte, vengono eseguiti in maniera fin troppo automatica.