di Massimo Jevolella
Nel millenovecento e diciannove
“Era de maggio”, diceva la vecchia e dolce canzone napoletana. E sì, era proprio di maggio, e correva l’anno del Signore 1264, quando a Siviglia un oscuro notaio toscano finiva di tradurre in latino e in francese la versione castigliana di un libro arabo di straordinaria importanza; ed era ancora maggio, ma dell’anno successivo, il 1265, quando a Firenze nasceva Dante Alighieri. Vi chiederete quale sia il nesso tra questi due avvenimenti. La risposta è talmente vasta, intricata e affascinante, che potrebbe essere degna di fare da trama a uno di quei thriller esoterici che vanno sempre tanto di moda.
E tuttavia non è di fantasie romanzesche che ora ci dobbiamo qui occupare, ma di fatti assolutamente veri, indagati e provati da oltre un secolo di ricerche storiche e di analisi filologiche condotte da insigni eruditi negli archivi e nelle biblioteche di mezza Europa.
Tutto ebbe inizio a Madrid nel 1919 quando Miguel Asín Palacios, grande e insuperato studioso della letteratura mistica e filosofica arabo-andalusa, pubblicò un ponderoso saggio intitolato La escatología musulmana en la Divina Comedia 1. Dire che il libro fece scalpore è forse troppo poco. Suscitò meraviglia, entusiasmo, scandalo negli ambienti storici e letterari di tutto l’Occidente – soprattutto in Italia, com’è ovvio: mancavano solo due anni alle celebrazioni per il 600° della morte di Dante – e non solo in quelli strettamente specialistici. La tesi era quasi inaudita 2: per costruire il suo capolavoro, Dante non s’era ispirato tanto alle ben note fonti greco-latine, giudaiche e cristiane – da Omero a Virgilio a Cicerone, da Ezechiele e San Paolo al Purgatorio di San Patrizio e al Libro delle tre scritture di Bonvesin della Riva – quanto alla letteratura escatologica dell’Islàm! Da Toledo, da Siviglia, dalla fiorente cultura arabo-andalusa era scaturita la fiamma che aveva illuminato la mente del divino poeta, suggerendogli non solo l’architettura dei regni ultraterreni, ma anche molti dei contenuti e delle formule narrative presenti nel suo poema.
Le oltre quattrocento pagine del saggio di Asín Palacios, fittissime di riferimenti testuali e di sorprendenti analogie, gettarono nel subbuglio e nella costernazione una buona parte del mondo culturale del Vecchio Continente. L’eurocentrismo e l’italianismo superbo dei nostri esimi professori subirono un colpo che lì per lì parve a molti irreparabile. Ma dopo lo stordimento iniziale, la reazione fu massiccia e implacabile. E il colpo di scena successivo dell’ardente diatriba, esattamente trent’anni dopo, non poté dirsi meno clamoroso e importante per la storia degli studi danteschi e della trasmissione della cultura nel mondo medievale. Ma non anticipiamo troppo la trama del film. Torniamo subito al filo della “folle idea” lanciata nel 1919.
Don Miguel era certamente un personaggio strano. Pur essendo un sacerdote cattolico e un uomo di fervente fede tradizionalista, sembrava non preoccuparsi minimamente delle antiche ragioni di avversione e di disprezzo teologico che fino a quel momento avevano elevato una barriera insormontabile tra la Spagna cristiana – la Spagna di Santiago Matamoros, fiera della sua rivincita sui Mori che per secoli avevano dominato le terre iberiche – e la cultura musulmana. Anzi, incredibile a dirsi, Don Miguel sembrava addirittura ammaliato dalle antiche glorie dell’Andalusia islamica. E non per un’infatuazione estetica ed esotica, come quella che aveva ispirato nel 1831 allo scrittore americano Washington Irving i romantici e un po’ manieristici Racconti dell’Alhambra.
Asín Palacios era innanzi tutto uno studioso, e più s’inoltrava nell’indagine di fonti e documenti mai fino ad allora scoperti o ben considerati, più si rendeva conto di un fatto che a quei tempi aveva tutto il sapore di un’intollerabile provocazione: e cioè che la barriera tra Islàm ed Europa cristiana, in realtà, non era mai esistita. Quell’abisso tra civiltà e culture era puramente immaginario, era solo il frutto di una colossale ignoranza, o per meglio dire di una enorme, sistematica, feroce rimozione della verità storica. E questo non solo e non tanto per le evidenti realtà che nessuno avrebbe mai potuto contestare – come l’indubbia fascinazione esercitata dalle “meraviglie” arabo-andaluse sui cristiani riconquistatori, il seducente orientalismo dell’architettura mudéjar o l’importanza del Gran Commento di Averroè e del Canone di medicina di Avicenna nello sviluppo della civiltà europea – quanto per una serie di ragioni meno appariscenti e particolari ma più vaste e più profonde; profonde al punto da manifestarsi in ciò che di spiritualmente più elevato i due mondi avevano prodotto: la mistica e la poesia.
Ardita era la missione che Asín Palacios sapeva di dover compiere. Scoraggiante, forse, l’idea di poter lanciare un segnale di così grande importanza lasciandolo cadere solamente nelle ristrette cerchie del mondo accademico e per la curiosità di pochi stravaganti eruditi. E forse fu anche per questo che egli a un certo punto sentì la necessità di mirare molto in alto nella formulazione delle sue teorie, fino a raggiungere quello che ben si può definire il massimo livello della cultura europea medievale: Dante Alighieri e la sua Divina Commedia.
Il poeta fiorentino, come ben si evince dall’orrenda pena inflitta a Maometto nel ventottesimo canto dell’Inferno, non doveva certo nutrire una particolare attrazione nei confronti del Profeta dell’Islàm e della sua storia. E tuttavia, agli occhi dell’islamista spagnolo che poteva attingere alle fonti originali della mistica ṣūfī 3, della filosofia di Ibn Sīnā (Avicenna) e di Al-Ġazālī (Algazel), e della letteratura araba in generale, dovevano apparire con altrettanta evidenza le forti analogie che legavano la Divina Commedia con tutte quelle opere – mistiche, teosofiche o semplicemente devozionali – che in ambito islamico avevano trattato il tema del “viaggio dell’anima” nei regni dell’Aldilà.
Asín Palacios sapeva bene, innanzi tutto, come uno dei miti fondanti del sufismo fosse stato quello del Viaggio notturno (isrā’) e dell’Ascensione celeste (miʻrāǧ) del Profeta Muḥammad, che le tradizioni islamiche avevano elaborato con gran dovizia di particolari partendo dall’esile base di un solo versetto coranico, che con parole tanto suggestive quanto misteriose recita così:
Sia glorificato Colui che fece viaggiare il suo servitore di notte dalla moschea sacra alla moschea più lontana, intorno alla quale spargemmo la Nostra benedizione, per fargli vedere [alcuni] dei Nostri segni. Egli è Colui che ode, Colui che vede 4.
Di unanimemente accettato, nell’interpretazione del versetto, vi sono solo due elementi: il “servo” (ʻabd) è il Profeta Muḥammad, e la “moschea sacra” (al-masǧid al-ḥarām) è il Tempio della Kaʻba alla Mecca. In quanto alla “moschea più lontana” (al-masǧid al-aqsā), i pareri furono sempre discordi, perché mentre alcuni la identificavano con il sacro recinto dell’antico e distrutto Tempio di Gerusalemme (al-ḥaram aš-šarīf), altri vi leggevano una chiara allusione al Trono (ʻarš) di Allah che, nel simbolismo religioso, s’immagina risplendere nell’alto dei cieli, sorretto dagli angeli, in un regno immateriale situato al di là delle ultime sfere dell’universo visibile. I racconti leggendari dell’isrā’ e del miʻrāǧ furono dunque il frutto di questo singolare sdoppiamento del viaggio miracoloso del Profeta accennato nel Corano. Nel corso del tempo essi si fusero in pratica in un solo racconto scandito in due fasi: il volo “orizzontale” dalla Mecca a Gerusalemme e quello “verticale” dalla Sacra Roccia del Tempio fino al Trono di Allah 5.
Nella prima fase Muḥammad viene risvegliato nel suo letto dall’angelo Gabriele, il quale, dopo averlo sottoposto al rito della “purificazione del cuore”, lo affida a un misterioso animale chiamato Al-Būrāq, cioè Lampo – fantastico incrocio tra un’anatra e un equino dal volto umano e dagli zoccoli di cammello – che in pochi istanti lo trasporta a Gerusalemme. Per inciso, potremmo qui notare che nelle biografie canoniche del Profeta, la “scena rituale” della purificazione del cuore si svolge in realtà durante l’infanzia di Muḥammad: tre uomini vestiti di bianco scendono dal cielo, afferrano il bambino che sta dormendo, gli aprono il petto, gli strappano il cuore e lo tagliano per farne uscire il “sangue nero”, simbolo delle potenze diaboliche presenti in ogni uomo. Poi rimettono il cuore al suo posto e gli richiudono il petto, come in una perfetta moderna operazione di trapianto cardiaco! 6.
Nella seconda fase, Gabriele mostra a Muḥammad una meravigliosa scala 7 lucente di oro e di gemme, che collega la terra con la prima delle sfere celesti (la sfera lunare), e lo invita a salirvi per compiere l’ascensione mistica fino al cospetto di Allah. Sempre guidato da Gabriele, il Profeta attraversa quindi i sette cieli – mai nominati come cieli planetari nelle versioni “popolari” del miʻrāǧ, tranne nel caso del cielo lunare, come ebbe a osservare Ioan Couliano 8 – incontrando almeno un profeta in ciascuno di essi, e sale poi per altre due o tre tappe fino alla meta finale del “Loto del Limite” (sidrat-al-muntahā) 9 che ha le radici nel Trono di Allah, dove riceve da Dio la conferma della sua missione profetica e stabilisce insieme a lui – dopo una lunga contrattazione – il numero delle preghiere quotidiane obbligatorie per i musulmani, ridotte a cinque dalle cinquanta inizialmente proposte da Allah 10 .
Ma il viaggio non si conclude qui, perché dopo l’incontro con Dio Muḥammad ottiene la visione delle gioie paradisiache e delle pene infernali. Dai giardini delle beatitudini egli discende infatti verso il “mare di fuoco” dove si sprofonda di grado in grado attraverso le sette terre della dannazione e del dolore. E dove ogni anima patisce una pena atrocemente adeguata alle sue colpe. Ai seminatori di discordia, per esempio – se vogliamo rammentare la punizione inflitta a Maometto nell’analoga bolgia dantesca – vengono amputate le labbra con forbici di fuoco. Il ritorno del Profeta alla sua casa alla Mecca avviene poi in un istante, e l’intero viaggio ha in realtà la durata di un attimo eterno situato al di fuori del tempo, anche se a lungo tra i musulmani si discusse per stabilire se Muḥammad avesse lasciato il suo letto solo con l’anima o anche con il corpo, in una dimensione spaziale o al di là dello spazio fisico.
La vicenda è questa, nelle sue linee essenziali. Ma nel corso dei secoli la pia leggenda era stata elaborata in mille modi diversi, che andavano dalle forme ingenue del racconto edificante, o della pura narrazione favolistica – se ne trova una corposa traccia perfino nelle Mille e una notte 11 – fino a quelle raffinatissime del simbolismo spirituale più ardito, come nei racconti mistici del ṣūfī persiano Bāyazīd Basṭāmī (IX secolo) e del filosofo Avicenna. E il problema principale di Miguel Asín Palacios, in mancanza di documenti che provassero almeno la possibilità di una conoscenza diretta del miʻrāǧ muhammadiano da parte di Dante, era quello di individuare il testo arabo, o il filone di testi, che in assoluto si potesse considerare il più vicino alla Divina Commedia sotto ogni punto di vista: per il luogo e per l’epoca della sua composizione, per la struttura, per i contenuti e per lo spirito che lo informava. Fu attraverso queste riflessioni che nella mente di Asín Palacios cominciò a prendere corpo un’ipotesi affascinante, e, come subito vedremo, non del tutto priva di agganci concreti con la realtà.
Venticinque anni prima della nascita di Dante era morto a Damasco un ṣūfī chiamato Muḥyī-d-Dīn Ibn ʻArabī, che tra gli adepti delle confraternite mistiche dell’Islàm veniva designato con il solenne appellativo di aš-Šayḫ al-Akbar, che equivale a “Il più grande dei venerabili”. Ibn ʻArabī era nato nel 1115 a Murcia, nell’Andalusia islamica, e quando aveva otto anni s’era trasferito con la sua famiglia a Siviglia, dove era entrato nella Via dei ṣūfī all’età di ventinove anni. Nel 1193 aveva iniziato a compiere una serie di viaggi nel Maġrib (Maghreb), e durante uno di questi viaggi, nel 1195 a Fès, aveva vissuto un’esperienza di elevazione mistica, un vero e proprio miʻrāǧ analogo a quello del Profeta, che egli rievocò in un Libro del viaggio notturno verso la Maestà del Più Generoso (Kitāb al-Isrā’ ilā maqām al-asrā).
Su questo libro cominciò ad appuntarsi l’attenzione di Asín Palacios, e in un modo del tutto fortunoso. Non vi erano edizioni del testo, a quell’epoca. Lo studioso spagnolo sapeva soltanto che ne esistevano due manoscritti, uno presso la Biblioteca reale di Berlino, l’altro in quella di Vienna. Ma ecco che un giorno, come un dono dal cielo, un terzo manoscritto compare a Tunisi, e proprio nelle mani di un amico, un professore di storia, che glielo invia in dono a Madrid. Miguel lo legge, lo decifra senza problemi (nonostante l’ermetismo della scrittura ibnarabiana!), e subito vede un mondo nuovo aprirglisi davanti agli occhi: il Kitāb al-Isrā’ di Ibn ʻArabī non ha nulla a che vedere con le ingenue favole devozionali dei vari miʻrāǧ popolari che egli ben conosceva, e che con molto scrupolo aveva già classificato nelle loro diverse “redazioni” e rielaborazioni, appartenenti a epoche e luoghi diversi.
Lasciamo parlare lo stesso Asín Palacios al riguardo:
«Ibn ʻArabī, nel prologo, dice che l’argomento è un miʻrāǧ dell’anima, redatto in forma mista di prosa e di poesia, e in uno stile misto di allegoria e di verità letterale. Comincia dicendo: Uscii dalla terra di Al-Andalus in direzione di Gerusalemme, tenendo l’Islàm come cavalcatura, l’ascetismo come giaciglio, la rinuncia della volontà come viatico. Incontra un giovane spirituale e quasi divino che lo serve da guida e da mentore, inviato dall’Alto a tal fine; però nell’intraprendere l’ascensione da Gerusalemme viene sostituito da un’altra guida, che lui chiama l’Inviato della grazia divina, e insieme a lui sale attraverso le sfere celesti fino alla presenza di Dio» 12.
Bastano già queste parole, per intuire il senso della profonda trasformazione che il miʻrāǧ coranico subisce nella visione mistica dei ṣūfī. Perché tutto qui diventa simbolico. Ogni immagine, ogni particolare del miracoloso “viaggio” del Profeta rinasce in chiave spirituale, riscoperta con “l’occhio del cuore” (ʻayn al-qalb) che penetra il velo esoterico del testo sacro risalendo nell’esercizio del ta’wīl fino al principio, alla verità essenziale (ḥaqīqa) della Parola rivelata. Nel viaggio mistico, l’anima di Ibn ʻArabī si sostituisce al Profeta, la terra di Al-Andalus alla Mecca, e il fantastico Al-Būrāq diventa la pura fede che consiste nel totale abbandono alla volontà di divina (islām); ma la meta del viaggio notturno è sempre Gerusalemme, la sacra Roccia su cui poggia la scala di Giacobbe che ascende nell’oltrespazio spirituale. È così che i ṣūfī, aggiunge Asín Palacios: «Possono giungere allora alla tappa finale del loro viaggio, alla visione intuitiva dell’essenza divina, che si mostra loro tale come essa è, senza che il velo delle cose create la nasconda ai loro occhi, i quali contemplano da vicino e in tutta chiarezza il segreto custodito nel mistero dei misteri» 13.
Asín Palacios, a questo punto, non ha più dubbi. Ha la certezza di aver trovato ormai la strada vera, la strada giusta. Le somiglianze esteriori tra il viaggio oltremondano di Dante e quello narrato nelle leggende islamiche gli appaiono importanti, ma in fondo non lo appassionano, non lo convincono. La sua intuizione va oltre: va nel senso dell’interiorità, della spiritualità, del mistero. Ed è lì che trova e vede con chiarezza i segni inequivocabili di un legame profondo, di un’autentica affinità elettiva. Scrive: «La Divina Commedia è una complessa allegoria della vita personale di Dante e della redenzione morale dell’umanità». Il viaggio di Dante attraverso i regni oltremondani è un percorso di purificazione, che dall’ascesi morale conduce gradualmente all’elevazione mistica, fino alla contemplazione del Vero: «Dante, dunque, come i ṣūfī musulmani in generale, e più concretamente come il murciano Ibn ʻArabī, descrisse l’esperienza, immaginata reale e storica, dell’ascensione di un uomo attraverso i cieli, per simboleggiare con essa il dramma mistico della rigenerazione morale delle anime grazie alla fede e alle virtù teologali» 14. Eppure, la vera sorpresa doveva ancora venire. La gemma splendente voleva ancora essere trovata.
Ma riprendiamo per un momento il filo della vita di Ibn ʻArabī. Dopo altri ritorni in Andalusia, nel 1200 il mistico murciano aveva preso definitivamente la via dell’Oriente, e passando per Tunisi, per il Cairo e per Gerusalemme era andato a stabilirsi per circa tre anni alla Mecca. Qui aveva conosciuto una fanciulla chiamata Niẓām (“Armonia”) e soprannominata ʻAyn aš-Šams (“Occhio del Sole”), e aveva concepito per lei un amore ardente e purissimo, subito sublimato in una forma di ebbrezza spirituale. Amore angelicato, se vogliamo usare la terminologia dei nostri stilnovisti e “fedeli d’amore”. Da quell’intensa passione era nato un libro di poesie che aveva intitolato Tarǧumān al-ašwāq (“L’interprete dei desideri ardenti”). E nel prologo di quell’opera, dopo avere descritto la bellezza e il fascino di quella meravigliosa fanciulla, aveva scritto: «In tutti questi versi, io alludo continuamente ai significati divini, alle rivelazioni spirituali, alle relazioni con le intelligenze delle sfere, così come è normale nel nostro stile allegorico, perché le cose della vita futura sono per noi preferibili a quelle della vita terrena, e perché, inoltre, ella intuiva molto bene il significato occulto dei miei versi» 15. E come non pensare qui a Beatrice? Come non avvertire una consonanza impressionante tra la visione che Dante ha della sua donna divina e quella che il poeta mistico musulmano manifesta nei confronti della sua Niẓām?
Dopo il soggiorno alla Mecca, per circa vent’anni Ibn ʻArabī riprese poi a peregrinare tra le città dell’Oriente, da Baghdad a Konya, ad Aleppo e in altri luoghi ancora, fino a stabilirsi definitivamente nel 1223 a Damasco, dove morì nel 1240 e dove il suo sepolcro è meta tuttora di venerazione e di pellegrinaggi. E negli anni di Damasco egli portò a compimento la più immensa delle sue opere, una silloge di trattati esoterici riuniti sotto il titolo generale di Al-Futūḥāt al-Makkiya (“Le conquiste – o le rivelazioni – della Mecca”). Ora, all’interno di questa vera e propria summa della gnosi spirituale islamica egli aveva ripreso il tema del miʻrāǧ in un libro dal titolo suggestivo: Kīmīyā’ as-saʻāda (“L’alchimia della felicità”). Ebbene, fu proprio su quel libro che lo sguardo di Asín Palacios infine si concentrò, abbagliato dalle fortissime analogie che lo accomunavano al Paradiso di Dante.
In sintesi, nell’Alchimia Ibn ʻArabī narra la strana avventura di due uomini che, desiderosi di ascendere tutti i gradi della scala celeste per ottenere la beatifica visione di Dio (saʻāda, “felicità” in senso spirituale), si rivolgono a un personaggio dalle qualità di profeta pregandolo di far loro da guida nell’arduo cammino. Ma tra i due candidati al pellegrinaggio verso la felicità si manifesta subito una fondamentale differenza: il primo si affida infatti ciecamente alle direttive del profeta-guida, compiendo nei suoi confronti un vero e proprio atto di sottomissione (islām); il secondo invece si ribella, difende la propria autonomia di giudizio e dichiara, in sostanza, di poter affrontare l’ascensione con il solo strumento della propria ragione.
Questo punto è di fondamentale importanza, perché dalla differenza tra i due pellegrini dipende non solo tutto il senso della teosofia di Ibn ʻArabī, ma anche quello dell’analogia tra il suo miʻrāǧ e l’ascensione paradisiaca di Dante. Occorre ben chiarire che il secondo pellegrino dell’Alchimia, pur riconoscendo l’autorità del profeta – compiendo dunque un atto di adesione formale alla fede – si rifiuta di ammettere che per giungere fino all’intellezione suprema, ossia alla “visione di Dio”, sia necessario abbandonarsi totalmente alla guida. La ragione, egli pensa, è la stessa in me come in lui, e dunque perché mai la mia ragione, da sola, non dovrebbe consentirmi di attingere alle stesse conoscenze, fino alla comprensione finale degli ultimi misteri? Potremmo qualificare l’atteggiamento del secondo pellegrino come “orgoglio della ragione”, lo stesso orgoglio che Virgilio, nel terzo canto del Purgatorio dantesco (vv. 34-36), stigmatizza nei celebri versi: «Matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer la infinita via/ che tiene una sustanza in tre persone». Il primo pellegrino di Ibn ʻArabī, invece, è l’immagine del perfetto musulmano, che rinuncia al proprio orgoglio umano per affidarsi incondizionatamente al volere di Dio e al potere della sua grazia 16.
Dopo questa premessa, il miʻrāǧ ibnarabiano si sviluppa su una duplice via: da una parte si assiste ai rapidi progressi del primo pellegrino, che di cielo in cielo, dialogando con i profeti assegnati da Dio alle varie sfere planetarie 17, sale gioiosamente fino al godimento estatico del concerto delle sfere celesti (maǧālis as-samāʻ), e alla contemplazione finale della “Luce suprema” (nūr aʻẓam) che promana dal Trono divino. Dall’altra parte, si costata il fallimento via via più grave dell’impresa tentata dal secondo pellegrino, il quale viene punito per il suo orgoglio e condannato ad accumulare “tristezza su tristezza”, a ricevere insegnamenti unicamente razionali sui misteri del cosmo, e a doversi infine fermare al settimo cielo planetario, senza proseguire il miʻrāǧ fino alle sfere dell’Oltrespazio e alla visione beatifica della luce divina.
L’inevitabile paragone tra L’Alchimia ibnarabiana e la terza cantica della Divina Commedia condusse Asín Palacios a osservare nei due personaggi una serie di analogie folgoranti. Con pochi decenni di anticipo, il ṣūfī andaluso aveva percorso, si può dire, tutte le tappe dello sviluppo intellettuale del poeta fiorentino. Anch’egli, in primo luogo, s’era innamorato ardentemente di una fanciulla, Niẓām ʻAyn aš-Šams, che come Beatrice per Dante s’era trasfigurata nell’immagine della Sapienza divina. Certo, occorre dire che da un punto di vista puramente allegorico l’immagine della Donna-Sapienza è di antica data: basti pensare all’apparizione della Donna-Filosofia nella Consolazione di Severino Boezio, un libro che Dante ben conosceva e amava, e che svolse un ruolo essenziale di guida etica e spirituale in tutta la sua vita. Ma nel caso di Ibn ʻArabī e di Dante la trasfigurazione assume un significato ben diverso, sia perché Niẓām e Beatrice sono due donne vere e veramente amate, sia per il nuovo valore attribuito all’eros, all’amore umano, considerato come la scintilla che può far divampare l’incendio dell’amore divino. In questo senso Niẓām e Beatrice diventano realmente Sapienza nell’Intelletto d’Amore dei loro amanti, e le loro figure si caricano di una potenza erotico-mistica che era totalmente assente nell’astratta allegoria di Severino. Potenza che ricorda molto da vicino quella della divina Šakti del buddhismo tantrico.
Anche Ibn ʻArabī poi, esule errabondo come Dante, s’era allontanato dalla sua città natale e dall’Andalusia per andare a morire fuori dalla sua patria. Anch’egli aveva concepito l’idea grandiosa di un Dio che è Amore cosmico e soprannaturale, un Dio che crea e tiene in vita il mondo per amore; e aveva interpretato l’amore umano come scintilla e simbolo dell’amore divino, come via maestra per raggiungere la meta della perfezione spirituale e della conoscenza dei misteri soprasensibili, a tal punto che la ragione umana si vedeva scavalcata da una virtù intellettiva ancor più penetrante, che aveva nome Intelligenza attiva o Intelletto d’Amore. Anche Ibn ʻArabī, infine, aveva immaginato come Dante di compiere un “volo mistico” attraverso le sfere planetarie fino al raggiungimento dell’estasi, alla contemplazione dell’ineffabile Luce di quel Dio che è “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”.
Poteva restare un dubbio: perché nell’Alchimia di Ibn ʻArabī i pellegrini erano due, mentre nella Divina Commedia ve n’era uno solo, cioè Dante stesso? Per superare quest’ultimo ostacolo, Asín Palacios osservò che nelle due opere, pur avvenendo una curiosa inversione di ruoli tra i personaggi, si assisteva in realtà alla rappresentazione drammatica dei medesimi concetti: le due guide di Dante, ossia Virgilio e Beatrice, erano figure allegoriche della filosofia (scienza umana) e della teologia (scienza divina), esattamente come i due pellegrini dell’Alchimia: filosofo era il ribelle orgoglioso, teologo il fedele seguace del profeta-guida. A Virgilio infatti era preclusa l’ascensione oltre il limite del paradiso terrestre, proprio come al pellegrino razionalista di Ibn ʻArabī era negata la prosecuzione del miʻrāǧ oltre la settima sfera celeste. E così ragionando, lo studioso concludeva dicendo: «Tuttavia, questa differenza si dissolve quasi del tutto osservando che Dante, già ammaestrato da Virgilio nelle prime due parti del suo viaggio, può, nel cominciare la sua ascensione con la guida di Beatrice, mostrare nella sua sola persona una doppia rappresentazione: quella del filosofo, per l’esperienza del suo viaggio e per le dottrine ricevute da Virgilio, e quella del teologo, per la guida e per gli insegnamenti che riceve da Beatrice» 18.
Suggestivi parallelismi, ma pur sempre ipotesi impossibili da verificare. E tuttavia questi ragionamenti, giusti o sbagliati o imprecisi che fossero 19, non facevano che rafforzare nell’arabista spagnolo la convinzione che il vero modello di Dante fosse stato Ibn ʻArabī, perché solo nell’opera del ṣūfī andaluso il racconto dell’ascensione paradisiaca aveva raggiunto un grado di elaborazione filosofica e di perfezione spirituale paragonabile a quello della Divina Commedia. E questa, in fondo, era la cosa che contava per davvero.
Si trattava solo, a quel punto, di dimostrare in che modo il massimo poeta della Cristianità avesse potuto attingere alla fonte del miʻrāǧ islamico – quello raffinato di Ibn ʻArabī e dei mistici, ma anche quello della tradizione devozionale – dal momento che Dante, fino a prova contraria, non era in grado di leggere l’arabo, e dal momento che le opere di Ibn ʻArabī, di arduo intendimento anche per gli arabisti più esperti, così come le varie redazioni “popolari” del viaggio oltremondano del profeta Muḥammad, non figuravano – nelle cognizioni di Asín Palacios, a parte, come subito vedremo, una “menzione” del Libro della Scala contenuta nella Historia Arabum dell’arcivescovo Don Rodrigo – nel pur nutrito elenco dei libri arabi tradotti in latino in Spagna tra il XII e il XIII secolo. Ma lo studioso non si arrese nemmeno di fronte a questo grave ostacolo. La sua immaginazione ebbe un’impennata prodigiosa, e fu come se egli, brancolando nel buio fitto di una grande stanza stracolma di carte, fogli e libri di ogni genere sparpagliati alla rinfusa, e dovendone indovinare uno solo confuso con gli altri, fosse riuscito a posare la mano con sicurezza su un documento talmente vicino a quello giusto, da confondersi quasi con esso.
Asín Palacios ricordò che nel 1260 Brunetto Latini – il futuro maestro di Dante – si era recato in Spagna in veste di ambasciatore del Comune di Firenze presso la corte del re Alfonso X di Castiglia. E ricordò anche che il dottissimo Alfonso, detto il Re Savio, che era un grande estimatore della cultura islamica e aveva promosso un gran numero di traduzioni di testi arabi in castigliano e in latino, con assoluta certezza doveva conoscere la leggenda del miʻrāǧ, poiché di essa era data ampia menzione proprio in uno dei libri arabi che erano stati tradotti poco prima del 1260. Trattando appunto dell’ambasciata di Brunetto in Spagna, Asín Palacios scrive:
«Chi potrebbe supporre che gli impegni della sua missione diplomatica non gli lasciassero tempo sufficiente per occuparsi dei suoi aneliti letterari e soddisfare le sue curiosità di erudito, avendo davanti agli occhi ogni giorno tra Toledo e Siviglia l’esempio vivo dei traduttori e dei maestri cristiani e musulmani, che nella scuola toledana e nell’Università interconfessionale di Siviglia scrivevano infaticabilmente le loro opere […] e che quattro anni prima avevano finito di tradurre in lingua volgare la Historia Arabum dell’arcivescovo Don Rodrigo, che contiene la leggenda del miʻrāǧ?» 20.
Così, le tessere del mosaico infranto si ricomponevano finalmente in un’immagine chiara: da un lato, nella sua avidità enciclopedica, Brunetto Latini aveva certamente appreso a Siviglia o a Toledo la leggenda islamica del miʻrāǧ, e successivamente l’aveva trasmessa – in una redazione scritta o anche solo oralmente – al suo allievo Dante Alighieri. Da un altro lato, il poeta fiorentino, attraverso le idee del neoplatonismo islamico – che in Ibn ʻArabī s’era manifestato nelle forme estreme di un esoterismo iniziatico – aveva potuto, per così dire, ricolmare di senso mistico e filosofico l’ingenuo racconto del viaggio oltremondano dell’anima, attratta dalla potenza divina nel regno delle luci soprannaturali, in un’esperienza estatica e inesprimibile, riferibile quaggiù tra i mortali solo per allusioni e immagini simboliche 21.
Stupefacente, per non dire sconvolgente, era dunque l’interrogativo finale che scaturiva dai ragionamenti e dalle ipotesi di Asín Palacios: la Divina Commedia, capolavoro poetico e sintesi dottrinale del Cristianesimo medievale, era in realtà un’opera impregnata di Islàm? Messi alle corde da una tal profluvie di argomentazioni, gli studiosi europei – e gli italiani in particolare, gelosissimi del genio di Dante e insofferenti all’idea che quel genio avesse potuto “copiare” dagli arabi – puntarono pressoché tutte le loro carte su un aspetto piuttosto marginale della questione. Marginale, s’intende, non in se stesso, ma solo in relazione ai problemi di fondo sollevati dall’arabista spagnolo.
Il loro ragionamento, in sintesi, era questo: ammettiamo pure che uno o più d’uno dei vari miʻrāǧ islamici avesse potuto influire sulla visione dantesca dei regni oltremondani, ma tutto questo che cos’ha realmente a che vedere con “l’alta fantasia” del divin poeta, con la potenza espressiva dei suoi versi, con la vita pulsante che vi scorre, con la grandiosità impareggiabile del suo poema? Grandi islamologi come Louis Massignon in Francia e Giuseppe Gabrieli in Italia rigettarono con sdegno l’idea della imitación ipotizzata dall’Asín. E riferendosi in particolare a Ibn ʻArabī, dopo avere affermato che Dante poté tutt’al più «avere per avventura sott’occhio e utilizzare» qualche grafico o schizzo che il ṣūfī andaluso aveva tracciato a illustrazione delle sue Rivelazioni della Mecca, Gabrieli concluse la sua serrata critica dichiarando che: «anzi che il prodotto d’una imitazione letteraria reale, si dovrebbe vedere l’effetto e il segno d’una attività mentale analoga, munita degli stessi materiali e diretta verso un medesimo scopo o disegno» 22.
Quest’ultima affermazione di Gabrieli, comunque, se ben meditata lascia anche intendere in qual potente misura lo studio dell’Asín avesse scosso le certezze e i pregiudizi della cultura occidentale (e d’altra parte è quasi superfluo osservare che l’arabista spagnolo non aveva mai minimamente pensato di mettere in dubbio la genialità e la grandezza poetica di Dante).
Come Goethe e Carlyle, circa un secolo prima, avevano troncato di netto l’antica catena del disprezzo occidentale verso Maometto e l’Islàm, capovolgendo l’odio in ammirazione profonda 23, così ora per mano di un sacerdote cattolico spagnolo si assisteva al primo passo di un’autentica rivoluzione copernicana della nostra cultura. Non si trattava più, come nel caso della “ipotesi indiana” sull’origine della novellistica popolare europea formulata da Theodor Benfey nel 1859, di lunghe catene di trasmissione di racconti, che potevano condurre a ritroso nel tempo e lontano nello spazio dalle rive della Senna fino a quelle del Gange, ma di qualcosa di ben più importante, pervasivo ed essenziale: si trattava di ammettere, finalmente, che la civiltà e la cultura dell’Europa cristiana avevano legami organici e profondi non solo con le radici giudaiche e greco-latine, ma anche con il mondo islamico, e, attraverso l’Islàm, con il mondo iranico e con il lontano Oriente. Maometto era solo l’antagonista della nostra civiltà, o non piuttosto si sarebbe dovuto associare il suo nome a quelli di Platone, di Mosè e di Gesù?
Colpi di scena e ironie della sorte
La provocazione era estrema. La questione era aperta, ma i tempi volgevano al peggio: i decenni delle dittature, dei nazionalismi fanatici, dell’eclissi della ragione e dei massacri mondiali. Miguel Asín Palacios continuò a studiare e a scrivere alacremente anche durante gli anni tragici della Guerra civile spagnola. Pubblicò a Madrid nel 1941 Huellas del Islam, il suo ultimo grande saggio sui rapporti tra la cultura islamica e quella cristiana. Morì nel 1944 senza essere mai riuscito a trovare un solo documento, una prova tangibile che potesse provare la correttezza delle sue teorie a proposito di Dante.
Ironia della sorte! Proprio in quell’anno, nella Città del Vaticano, lo studioso italiano Ugo Monneret de Villard pubblicò un saggio che doveva indicare con precisione l’esistenza di quell’agognato “anello mancante”, fornendo finalmente la chiave per la soluzione della vexata quaestio 24. De Villard aveva scandagliato in lungo e in largo tutte le fonti e gli studi a lui accessibili che riguardavano la conoscenza dell’Islàm nell’Europa dei secoli XII e XIII, e s’era imbattuto in una curiosa scoperta che lo storico tedesco Moritz Steinschneider aveva effettuato verso la metà del XIX secolo nella Biblioteca Bodleiana di Oxford: un codice medievale assolutamente ignorato, che conteneva la versione francese di un libro arabo intitolato Halmaereig. Senza difficoltà, Steinschneider aveva inteso subito che quel nome poteva essere la deformazione dell’arabo al-miʻrāǧ, ma per qualche strano motivo che ci sfugge, egli non trovò il tempo – o non ebbe la possibilità – di esaminare il contenuto del codice. Forse, più semplicemente, ne sottovalutò l’importanza, tanto è vero che nel 1877 egli dichiarò di aver pensato che il titolo si riferisse non al sostantivo singolare miʻrāǧ, “scala”, ma al plurale maʻāriǧ, “scale”, e che quindi il codice contenesse una versione della sura LXX del Corano, chiamata appunto “Sura delle scale” 25.
Monneret de Villard dovette certamente trasalire quando lesse le annotazioni dello storico tedesco. Intuì che dietro a quel titolo dovesse celarsi qualcosa di ben diverso dalla sura LXX del Corano (una sura molto corta, composta di soli quarantaquattro brevi versetti). E lo scrisse a chiare lettere: in quel codice – e in un altro analogo, stavolta però in latino, che nel frattempo era emerso alla Biblioteca nazionale di Parigi – si doveva cercare la prova delle tesi sostenute da Asín Palacios. Ma nel 1944 l’Europa bruciava, e di andare a Oxford o a Parigi a caccia di manoscritti medievali non era certo il caso: «Il confronto e lo studio accurato degli scritti mi è, disgraziatamente, impossibile nelle attuali circostanze», scriveva lo studioso in tono sconsolato 26. Si dovette perciò attendere la fine della guerra, e dopo poco tempo l’intuizione di Monneret de Villard ebbe la sua clamorosa conferma.
Quasi simultaneamente, nel 1949, lo studioso spagnolo José Muñoz Sendino a Madrid e l’italiano Enrico Cerulli nella Città del Vaticano pubblicarono e commentarono, sulla base dei codici di Oxford e di Parigi, la versione francese e quella latina di un Libro della Scala che risultava essere stato fatto tradurre dall’arabo nel 1264 a Siviglia dal re Alfonso X il Savio. Dunque, solo quattro anni dopo la data che Asín Palacios aveva ritenuto probabile, riferendosi alla missione diplomatica in Spagna di Brunetto Latini! Il libro era una corposa e completa redazione del viaggio ultraterreno del Profeta Muḥammad – che nelle versioni occidentali figurava addirittura come l’autore del testo 27 – copiata ed elaborata quasi certamente da un amanuense musulmano d’Andalusia. Il sovrano di Castiglia ne aveva affidato dapprima la traduzione in castigliano al sapiente medico ebreo Abraham Alfaquìm, il quale aveva portato a termine il suo eccellente lavoro – oggi perduto – entro la fine di aprile del 1264. E subito dopo, nel maggio dello stesso anno, il manoscritto di Alfaquìm era stato tradotto in francese e in latino da un notaio italiano che viveva alla corte del re Alfonso, e sul cui conto si sa unicamente che si faceva chiamare Bonaventura da Siena. Cerulli annotava: «Null’altro è noto di lui. Verisimilmente egli faceva parte degli esuli toscani in Spagna, nel periodo nel quale, da parte guelfa (Firenze) come da parte ghibellina (Pisa e Siena), si guardava con speranza al re Alfonso, eletto nel 1257 imperatore, attendendo un suo intervento nelle cose d’Italia» 28.
Maggio 1264: un anno prima della nascita di Dante il racconto del miʻrāǧ del Profeta Muḥammad veniva tradotto in latino e in due lingue neolatine, e nel giro di pochi anni – come il Cerulli ebbe a dimostrare anche in seguito con una serie impressionante di prove 29 – varcava i Pirenei e si diffondeva rapidamente in Europa, dove l’opinione comune lo considerava come uno dei libri sacri dell’Islàm. Di solo una trentina d’anni posteriore alla morte di Dante, per esempio, era l’inequivocabile citazione del Libro della Scala fatta dal poeta toscano Fazio degli Uberti, che nel suo Dittamondo, riferendosi a Maometto, scriveva: «Ancor nel libro suo, che Scala ha nome».
E così, di colpo, tutte le congetture di Asín Palacios sembravano non più suggestive idee, ben congegnate ma sospese nel cielo di un’erudita immaginazione, bensì ipotesi che finalmente si mostravano veritiere poggiando su un solido fondamento. Il mondo accademico poteva ora rendere giustizia alle tesi propugnate nel 1919 dallo studioso spagnolo, senza più timore di tradire la correttezza dei metodi di ricerca scientifici. E il grande arabista Francesco Gabrieli – figlio del Giuseppe Gabrieli poc’anzi citato – poteva ormai dichiarare: «Non c’è nazionalismo culturale, o, come io preferisco dire, pigrizia mentale e insieme diffidenza ed esigenza di fatti positivi di prova, che possa più negare come l’ipotesi geniale di trent’anni fa, almeno nella sua intuizione fondamentale, abbia oggi avuto una luminosa conferma» 30.
Eppure è proprio qui, a questo punto apparentemente risolutivo della questione, che le cose in realtà si complicano. E il motivo è facile da intuire: una volta trovato il famoso “anello mancante” della trasmissione testuale, e sbarazzato così il terreno da quel fastidioso dubbio filologico, com’è possibile non riconsiderare il rapporto tra la Divina Commedia e il miʻrāǧ nel suo significato più profondo ed essenziale? Questo aspetto del discorso, che ad Asín Palacios stava tanto a cuore, sembrava in effetti ormai superato; sembrava messo in ombra dalla preponderante – e verrebbe da dire prepotente – dimostrazione di un possibile legame diretto fra la struttura e i temi del Libro della Scala e quelli della Divina Commedia. E così, il sogno mistico del gemellaggio tra la bella Niẓām e Beatrice pareva dissolversi nella luce fredda e vittoriosa della filologia.
Eppure, se noi ci addentriamo con un po’ di attenzione nelle “conclusioni storiche” che Cerulli volle fissare nell’ultimo capitolo del suo saggio del ‘49, non tardiamo a renderci conto che la vexata quaestio è ben lungi dall’essere risolta fino in fondo. Forse gli archivi della storiografia letteraria possono già accoglierla come una nozione scolastica pronta per l’imbalsamazione, ma il suo vero fascino continua a pulsare, più vivo che mai, in un mistero che va inseguito altrove. Cerulli è ben conscio dell’eccezionale importanza degli antichi codici che sta pubblicando, e sa bene che quei testi faranno scalpore, e segneranno una svolta forse definitiva nella discussione suscitata trent’anni prima da Asín Palacios. E tuttavia il suo giudizio oscilla, le sue osservazioni e i suoi ragionamenti non riescono a celare un fondo di incertezza e perfino di imbarazzo. Consideriamo per esempio quello che lui scrive nel sesto paragrafo di questo capitolo così ricco e sorprendente.
Poco dopo avere ricordato il passo del Convivio (III, 14) in cui Dante si riferisce testualmente alla metafisica della luce di Avicenna, e alla distinzione tra “luce”, “raggio” e “splendore”31, Cerulli afferma: «Ma, ancor più, Asín osserva su questo tema che “ en las obras de Ibn ʻArabī, efectivamente, y sobre todo en su Futūḥāt, pudo encontrar el poeta florentino el cuadro general de su poema, la ficción poetica de un viaje misterioso en las regiones de ultratumba y su significación alegórica”. Anche in questa ipotesi, l’insigne studioso spagnolo ha intuito, al di là dei dati specifici, una importantissima verità storica».32 Eccola allora la frasetta magica, gettata lì, ad arte, come un inciso di poca rilevanza: al di là dei dati specifici! Come se, in fondo, la scoperta dei codici europei del Libro della Scala non avesse proiettato che un lume ben pallido, in confronto agli splendori mistici che Asín Palacios vedeva irradiarsi dal miʻrāǧ di Ibn ʻArabī, dalla sua Alchimia della felicità – che fa parte, come s’è detto, dell’immensa summa delle al-Futūḥāt al-Makkiya, Le Rivelazioni della Mecca – autentica fonte ideale dell’ascensione celeste di Dante.
E infatti, ecco subito Cerulli ricordare che un immediato antecedente ideale del viaggio ultraterreno di Dante, scritto in latino verso la fine del secolo XII, esiste, e fu opera probabilmente di uno scrittore siciliano o catalano: dieci stazioni paradisiache e dieci gradi di tormenti infernali narrati nel perfetto stile delle allegorie filosofiche tipiche del neoplatonismo islamico. Forse fu questo – pubblicato poco prima della morte di Asín Palacios dalla storica francese Marie-Thérèse d’Alverny 33 – il vero “anello mancante” del rapporto Divina Commedia-miʻrāǧ? Cerulli non lo dice esplicitamente, ma lo fa capire con chiarezza quando afferma: «Credo abbiano più interesse e maggior valore per la nostra ricerca storica queste coincidenze nella stessa impostazione artistica e morale del poema di Dante, anzi che le minori coincidenze, di cui ho già detto quante volte siano praticamente inafferrabili, quando il dato di partenza giunge a noi filtrato attraverso l’arte dell’Alighieri»34.
Verrebbe da dire, un po’ scherzosamente, che Cerulli stia prendendo a picconate proprio il testo del Libro della Scala che, frutto d’una grande e faticosa ricerca, lui stesso sta pubblicando, ben consapevole dell’importanza del suo lavoro e del clamore che susciterà. Poi, però, il suo discorso sembra quasi mutare tono e direzione, nel momento in cui passa ad analizzare le analogie che appaiono evidenti tra il poema di Dante e il Libro della Scala. Analogie forti e impressionanti, come, innanzi tutto, quella relativa al ruolo che hanno le guide nei viaggi ultraterreni.
«Nelle altre numerose versioni del viaggio di oltretomba – scrive Cerulli – la guida del viaggiatore che visita il Paradiso e l’Inferno ha la funzione, piuttosto scialba, di mostrare la via e le scene. Invece nel Libro della Scala l’angelo Gabriele discute e risolve i numerosi dubbi di Maometto non solo sull’ordinamento dei regni oltremondani, ma anche su singoli punti di teologia e di cosmografia […] L’angelo Gabriele spiega anche a Maometto le scene allegoriche che appaiono durante il viaggio, e più volte Maometto si scusa nel porre alla sua angelica guida le dubbiose questioni […] Questa novità del Libro della Scala in confronto delle opere occidentali sul viaggio al Paradiso corrisponde alla struttura della Divina Commedia. Dante ha usato poeticamente la compagnia delle sue guide (Virgilio, Stazio, Beatrice) per introdurre nel poema le molteplici digressioni su questioni teologiche, cosmografiche ed altre, che figurano sorgere dai dubbi a lui sopravvenuti e dalla guida risolti» 35.
Superato il quadro generale, Cerulli si addentra poi – senza allontanarsi dalla traccia già ben descritta da Asín Palacios – in quello delle analogie particolari, come il raffronto tra il Gallo del Paradiso islamico e l’Aquila del cielo di Giove del Paradiso dantesco; o il tema stesso della Scala, che in entrambi i casi deriva con certezza dall’archetipo della biblica Scala di Giacobbe (Genesi XXVIII: 12) che a Dante appare nel cielo di Saturno; e poi i supplizi dei dannati, che in certi casi vanno oltre l’analogia, e si appalesano come “coincidenze”, ossia come vere identicità, a tal punto da strappare a Cerulli frasi come: «… troppo affini ai passi del Libro della Scala perché se ne escluda la relazione», o: «La coincidenza con gli analoghi elementi della narrazione di Dante è palese»36, e altre dello stesso tono. Fino a dichiarare che: «In linea generale, sembra inverosimile ormai ammettere che proprio Dante abbia ignorato quelle nozioni sulle credenze musulmane circa l’oltre tomba, che ora vediamo, sempre meglio, così diffuse proprio alla sua epoca», e che: «Il Libro della Scala nella traduzione di Bonaventura da Siena, citata da Fazio degli Uberti, può essere incluso nel novero dei precursori medievali di Dante»37.
Fiato sospeso, a questo punto. Come si concluderà la partita? Sta per vincere Asín Palacios, con la sua ipotesi della imitación? Nemmeno per sogno. Anzi, accade il contrario. Cerulli teneva in serbo una sorpresa, per la sua pagina finale. Egli ricorda, all’improvviso, che un abisso separa la concezione teologica di Dante da quella dell’Islàm. Per il musulmano, la grazia (niʻama) è un dono elargito dalla pura volontà divina. Il fedele si affida ciecamente a questa volontà, si fa servo-schiavo di Dio, obbedisce alla sua legge, e questo è tutto ciò ch’egli può fare. Il resto è attesa. Il “motore”, per così dire, del miʻrāǧ, ossia dell’ascensione della sua anima verso il Trono divino, altro non è che quella volontà superiore, che di grado in grado purifica il suo cuore, liberandolo anche dall’invidia verso coloro che “stanno più in alto”, esattamente come l’Angelo Gabriele aveva fatto col Profeta Muḥammad nella scena iniziale dell’isrā’, quando gli aveva estratto il cuore dal petto per liberarlo dal grumo nero delle potenze sataniche, e rendere il suo “servo” degno di volare verso Gerusalemme e poi in alto oltre le sfere celesti. Simbolismo della levità spirituale, che ricorda il mito escatologico egizio della psicostasia, dove il volo dell’anima verso le dimore dei giusti dipendeva dall’esito della sua pesatura, nel confronto col peso di una piuma posta sull’altro piatto di una bilancia.
Ben altra cosa, dice Cerulli, è il volo mistico di Dante verso “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”: «In Dante, invece, per bocca della soave Piccarda, alla sentenza della Somma Giustizia risponde nell’anima individuale la virtù cristianissima, la carità: Frate, la nostra volontà quieta/ virtù di carità, che fa volerne/ sol quel che avemo e d’altro non ci asseta» 38. Quindi, pensa Cerulli, non di svuotamento dell’anima qui si tratta, non di alleggerimento che la fa volare, ma al contrario, di un fuoco, di una forza intrinseca dell’anima stessa, che prega non, come l’anima musulmana, solo: «per un debito rituale imposto da Dio», ma, come dice Piccarda, per virtù di carità, ossia per amore. Di qui la vera antitesi, la vera sostanziale differenza e distanza tra la costruzione poetica del genio cristiano di Dante, e il freddo racconto dell’escursione oltremondana del Profeta Muḥammad.
Messo alle strette, di fronte alla complessità dei problemi sollevati dal confronto Divina Commedia-miʻrāǧ, è dunque così che alla fine Cerulli decide di risolvere la questione. Appellandosi a una considerazione di carattere teologico. Eliminando dal discorso ogni riferimento alla mistica, ad Avicenna e a Ibn ʻArabī. E spingendosi a minimizzare la possibile influenza del Libro della Scala sul poema di Dante, fino al punto di affermare che:
«Perciò a torto anni or sono, nel fervore della polemica, si disse che, ammessa l’ipotesi delle fonti arabe, la Divina Commedia era da paragonare alla Moschea di Cordova consacrata chiesa cristiana. No, non è esatto. La relazione storica tra le fonti arabo-spagnole e la Commedia di Dante, nei limiti qui discussi, farebbe piuttosto pensare a quella colonna arabo-spagnola, che si inserisce ed iscrive il nome del suo artefice musulmano nella mole storicamente ed artisticamente, in tutto e nelle sue parti, cristiana della Cattedrale di Pisa: eletta testimonianza di un’altra gloriosa arte, accolta episodicamente nell’attuazione formale di un ideale artistico e religioso diverso» 39.
Una semplice colonna, dunque. Niente più che un orpello, un frammento smarrito nella grandiosità di un monumento glorioso. A questo pugno di sabbia si riduceva tutta quella gran mole di ipotesi, teorie e scoperte, e quel clamore di polemiche e stupori rimbalzati per trent’anni da Madrid a Roma, da Oxford a Parigi? Much ado about nothing?
Il fascino invincibile di un mistero
Come Penelope, Cerulli aveva fatto e disfatto la sua tela. Come in un gioco di magia, aveva estratto un portentoso coniglio dal cappello, per poi farlo sparire con un’abile mossa. Eppure, tutto quel gran discorso sulle influenze esercitate dalla cultura islamica su quella europea nei primi secoli del secondo millennio, che già s’era sviluppato nell’Ottocento, da Ernest Renan a Pierre Duhem, per fare solo due nomi, e che Asín Palacios aveva clamorosamente rilanciato con la sua Escatología, non poteva certo inaridirsi, né tanto meno obliare, tra i suoi temi, proprio quello della Divina Commedia, che fra tutti spiccava per il suo fascino e per il suo eccezionale valore di simbolo. Nel 1946, l’arabista boemo Alois Richard Nykl aveva cercato di dimostrare il legame della poesia cortese di Provenza con la poesia arabo-andalusa 40. Nel ‘49, lo stesso anno del saggio di Cerulli, Francesco Gabrieli pubblicava la prima traduzione italiana del Collare della colomba di Ibn Ḥazm di Cordova – scritto poco dopo l’anno Mille – una straordinaria ars amatoria islamica che offre notevoli spunti di assonanza con il De amore del francese André le Chapelain – seconda metà del XII secolo – e altre opere della letteratura cortese, da Chrétien de Troyes – sec. XII – fino al Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meun, la grande summa erotica del medioevo europeo, che già ci porta in pieno nell’epoca di Dante.
Quell’immensa materia di studio era dunque come un fiume destinato ad accrescersi con l’apporto di nuovi affluenti di varia provenienza e natura: non solo letteratura, ma anche scienza, filosofia, arti, e tutti i vari aspetti della civilizzazione, che dall’Oriente islamico si erano riversati sull’Europa dopo l’anno Mille, imprimendo una svolta decisiva nella rinascita dell’Occidente dopo lunghi secoli di depressione, e proiettandolo verso le conquiste dell’Umanesimo e della rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII. L’accelerazione delle ricerche avvenne a partire dagli anni ‘70, anche se non sarebbe giusto tacere del formidabile saggio che la studiosa tedesca Sigrid Hunke pubblicò nel 1960, Allahs Sonne über dem Abendland (Il sole di Allah brilla sull’Occidente), che in quattrocento densissime pagine descrive la penetrazione dell’onda islamica – avvenuta appunto tra l’anno Mille e l’epoca di Dante – in ogni campo della vita e del sapere degli europei 41. E qui il nostro discorso potrebbe facilmente deragliare dai binari della quaestio arabico-dantesca, se solo si volesse far cenno, per esempio, agli studi di storici della scienza come Johann Dreyer, Edward Grant, e Seyyed Hossein Nasr. Ma la Divina Commedia ci richiama. A quella dobbiamo tornare.
Fu ancora Cerulli, come già s’è accennato, a tornare nel 1972 sull’argomento con un nuovo saggio in cui raccoglieva il frutto di tutte le sue ricerche sulla conoscenza della cultura islamica in Europa, anche al di là del puro tema dantesco 42. Ma appunto, riguardo alla questione delle fonti islamiche della Divina Commedia, nulla di nuovo volle esprimere lo studioso nel suo giudizio conclusivo. Ribadì il suo netto distacco dalle tesi dell’Asín, sostenendo in sostanza l’idea – “non inverosimile”, come lui precisa – che Dante, avendo conosciuto in qualche modo il Libro della Scala, avesse potuto trarne spunto e ispirazione per contrapporre con il suo poema «alla visione islamica una visione cristiana» dell’aldilà e dell’ascensione dell’anima verso Dio. E Ibn ʻArabī? Nulla da fare, su quel fronte: «Dante non conosceva l’arabo, e quelle opere della grande letteratura araba non erano state tradotte in alcuna lingua europea al tempo di Dante» 43. Il giudizio di Cerulli è netto. Freddo ormai come una pietra tombale.
Ma la partita non poteva chiudersi così. Nel 1991 veniva pubblicata la prima traduzione italiana del Libro della Scala, e questo offriva l’occasione all’islamologo e iranologo Carlo Saccone, in una densa postfazione al libro, di riconsiderare l’importanza di quel misterioso “miʻrāǧ cristiano” della fine del secolo XII che già Cerulli, come sopra s’è visto, aveva esaminato con particolare interesse, mettendone in evidenza le indubbie affinità con il poema di Dante 44. Sulle orme degli studi di Étienne Gilson e di Henry Corbin, Saccone riconosceva in quelle complesse «peregrinazioni dell’anima nell’altro mondo», il segno inequivocabile dell’influsso avicenniano. Che significa questo? Vuol dire che il viaggio ultraterreno dell’anonimo precursore di Dante è intriso di quella dottrina mistica che i filosofi musulmani, come appunto il persiano Avicenna, o l’andaluso Abubacer (Ibn Ṭufayl), avevano definito “sapienza orientale” (ḥikma mašrikiyya). Pensiero che, nel solco della soteriologia neoplatonica e gnostica, indicava all’anima umana – precipitata nella buia prigione di questo mondo e desiderosa di liberarsi dalle sue catene – la via maestra della epistrophé, ossia dell’inversione di marcia, del ritorno alla Fonte soprannaturale della vita. Dopo la discesa nei vari gradi dell’oscurità materiale simboleggiati dai gironi infernali, l’anima fa ritorno alla fonte divina con un’ascesa graduale, simboleggiata appunto dal miʻrāǧ, ossia dal volo spirituale attraverso le sfere celesti. Si compie così il cammino dalle tenebre dell’inferno alle luci del paradiso. Dal buio sepolcrale dell’Occidente alla luce aurorale dell’Oriente: di qui la definizione di “sapienza orientale”.
Saccone poteva perciò chiosare la breve esegesi di quel “miʻrāǧ cristiano” con queste parole: «L’interesse di questo testo consiste in definitiva nella testimonianza, accanto alle traduzioni del Libro della Scala, di una trasmissione indiretta, per vie traverse e con caratteri ormai del tutto autonomi e cristianizzati, di un modello escatologico che si riferisce alla leggenda musulmana dell’aldilà; questo trattato, si può dire […] presenta almeno a grandi linee alcuni dei caratteri essenziali del viaggio dantesco»45. Caratteri essenziali, dunque, e non marginali. Ed è di questo, io credo, che soprattutto si dovrebbe tener conto.
Ma intanto l’interesse intorno al Libro della Scala, insieme a quello per l’antica quaestio suscitata da Asín Palacios, non si affievoliva affatto. E mentre nell’ultimo ventennio del Novecento la grande filologa Maria Corti, dipanando la matassa delle “fonti letterarie” con l’ausilio dei concetti di interdiscorsività e di intertestualità, approdava alla convinzione che il Libro della Scala potesse dirsi propriamente “fonte” solo nei riguardi dell’Inferno dantesco, e che per il Paradiso i rapporti fossero invece di natura intertestuale o analogica 46, ecco che finalmente, nel 1994, un meritevole editore si decideva a pubblicare la prima edizione italiana della Escatología di Asín Palacios 47. Settantacinque anni ci erano voluti per vincere le resistenze culturali del Paese di Dante verso uno dei saggi più importanti e rivoluzionari dedicati all’interpretazione dell’opera del nostro sommo Poeta!
L’ultima sorpresa…
Se poi fosse rimasto un ultimo dubbio, riguardo alla reale possibilità che Dante avesse mai avuto di trovarsi tra le mani una copia del famoso Libro della Scala, ecco arrivare nel 2011 l’annuncio di una nuova scoperta. Stavolta davvero impressionante e clamorosa. Anna Longoni ce la racconta egregiamente nella bella Introduzione all’edizione del Libro della Scala da lei curata, e pubblicata nel 2013. Rubo qui le sue parole, perché non saprei trovarne di migliori:
«Un nuovo, prezioso dato ci viene dagli studi di Luciano Gargan, che, muovendosi sulle tracce delle frequentazioni librarie di Dante tra Bologna e Parigi, si è imbattuto in un frate domenicano di nome Ugolino che il 20 gennaio 1313 dona i suoi libri allo Studium generale del convento di San Domenico di Bologna. Si tratta di 13 volumi, per lo più di letteratura spirituale, ai quali, così si legge nella postilla sottoscritta all’atto di donazione, viene successivamente aggiunto il Liber Scale: Item voluit frater Hugolinus predictus quod huic donationi adderetur liber qui dicitur Scala Mahometti, quem librum eodem modo donavit predicto conventui sicut et alios, de quibus superius dictum est. (E così il predetto frate Ugolino volle che a questa donazione si aggiungesse il libro che vien detto della Scala di Maometto; libro che allo stesso modo egli donò al predetto convento, così come gli altri di cui s’è detto sopra)» 48.
Stupefacente! E così, mentre l’esule messer Dante Alighieri, nel suo peregrinare, saliva e scendeva per le altrui scale dal salato sapore, a Bologna un dotto fraticello domenicano si dilettava nel leggere le avventure di Maometto giù per i gironi dell’inferno e su per le sfere del paradiso. Ah, se don Miguel Asín Palacios lo avesse saputo! Se fosse stato lui il primo a saperlo, di sicuro lui stesso quel giorno sarebbe salito per la gioia almeno fino al settimo cielo; il cielo che sia per Dante sia per Ibn ʻArabī corrisponde alla sfera cosmica di Saturno, proprio là ove a Dante appare finalmente la famosa scala del paradiso, sulla quale ascendono le anime degli spiriti contemplanti, e ove nell’Alchimia della felicità di Ibn ʻArabī avviene la separazione tra l’umile e fedele adepto che prosegue il suo volo gioioso verso il Trono di Dio, e l’orgoglioso razionalista che non riesce a comprendere che, come si legge nel Vangelo di Matteo (5, 8), solo i puri di cuore saranno beati, perché vedranno il Volto del Signore.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Miguel Asín Palacios era nato a Saragozza nel 1871. Morì a San Sebastian nel 1944.
[2] Ho scritto “quasi”, perché in realtà le ricerche di Asín Palacios non nascevano da un assoluto nulla. Come ha ricordato per esempio Carlo Saccone: «La cosiddetta “questione delle fonti arabo-musulmane della Divina Commedia”, o, in senso più lato, dei rapporti tra Dante e l’Islàm, è in effetti al centro di un dibattito ormai plurisecolare. Le intuizioni originarie dell’abate Juan Andrés (XVIII sec.) furono riprese da A. F. Ozanam a metà dell’Ottocento e formulate in modo problematico da E. Blochet all’inizio del nostro secolo; ma è solo nel 1919 che la questione esplose con […] Asín Palacios» (C. Saccone, Il miʻrâj di Maometto: una leggenda tra Oriente e Occidente, in: Il Libro della scala di Maometto, Milano 1991: 157).
[3] Il taṣawwuf (sufismo) è una vasta e variegata corrente mistico-esoterica dell’Islàm, sorta probabilmente in Iraq nell’ottavo secolo d. C. L’etimologia più accettata del termine è quella che lo fa derivare dall’arabo ṣūf, “lana”, che nella quinta forma verbale della sua radice ha il significato di “vestire di lana”, perché tale sarebbe stato l’abbigliamento dei primi asceti musulmani dediti alla recitazione continua del Nome di Allah (ḏikr, che in realtà vuol dire “ricordo”: ossia preghiera intesa come ricordo di Dio), e all’interpretazione spirituale del Corano (ta’wīl, termine che significa: “ricondurre all’origine”, “tornare al principio”, ossia, per i ṣūfī, ritrovare il senso profondo ed essenziale del testo sacro, oltre che di tutti i “segni” che promanano dall’intera realtà manifestata, e che nel ta’wīl si riconoscono come riflessi dell’Uno, origine e principio trascendente di tutto ciò che esiste).
[4] Corano XVII, 1. Versione mia, in: Corano, libro di pace, Milano 2013: 286.
[5] Stando alla tradizione islamica, questo duplice viaggio avvenne non prima del 619 d. C. – il cosiddetto “anno della tristezza”, in cui il Profeta vide morire l’amata moglie Ḫadīǧa e lo zio Abū Ṭālib – e perciò probabilmente nel 621 – ossia prima del fatidico 622, l’anno della Hiǧra (Egira), l’Emigrazione da Mecca a Yaṯrib, la futura Medina: quindi la data d’inizio dell’era islamica – quando Muḥammad poteva avere già compiuto i cinquant’anni.
[6] Muhammad Ibn Giarîr al-Tabarî, Vita di Maometto, a cura di Sergio Noja, Milano 1985: 11-12.
[7] Il termine miʻrāǧ vuol dire appunto in arabo “scala”, e anche “ascensione”.
[8] Ioan Couliano, Esperienze dell’estasi dall’Ellenismo al Medioevo, Bari 1986: 176. E anche: I viaggi dell’anima, Milano 1991: 216-217.
[9] Il termine deriva da Corano LIII, 14 (Sura della Stella).
[10] Martin Lings, Il Profeta Muhammad. La sua vita secondo le fonti più antiche, Trieste 1988: 104-106. Riguardo ai biografi più antichi di Muḥammad, ai quali si riferisce l’importante opera di Lings, si veda supra la nota 17 del primo capitolo.
[11] Anna Longoni, nella Introduzione a Il Libro della scala di Maometto, Milano 2013: VIII, ricorda la presenza di un complesso viaggio ultraterreno nella Storia di Hasib Karìm ad-Dìn, datata al X secolo. (Le mille e una notte, Torino 1993: 1241-1315).
[12] M. Asín Palacios, La escatología musulmana en la Divina Comedia, Madrid 1961: 77 (traduzione mia).
[13] Ibidem: 78.
[14] Ibidem: 79. (Nella Escatología, Asín Palacios prese in considerazione anche un altro autore della grande letteratura araba, il siriano Abū-l-ʻAlā’ al-Maʻarrī, vissuto tra i secoli X e XI, che nella prima parte della sua celebre Epistola del perdono descrisse il viaggio ultraterreno di un suo amico, un letterato di Aleppo di nome Ibn al-Qāriḥ. Nulla ha in comune però questo racconto, dai toni e dai contenuti decisamente parodistici e irreligiosi, con la sacralità dei miʻrāǧ che ragionevolmente si potrebbero accostare allo spirito del poema dantesco. Ciò non impedì ad Asín Palacios di rilevare, in alcuni particolari, delle somiglianze tra la narrazione di al-Maʻarrī e quella di Dante. La sua fantasia – qui è proprio il caso di dirlo – arrivò perfino, per esempio, a vedere nel ritratto di una ḥūrī destinata da Allah al servizio personale di Ibn al-Qāriḥ un prototipo della bellissima e dolce Matelda che Dante incontra nel paradiso terrestre. Ibidem: 89 e segg.).
[15] Traduco questo brano del Tarǧumān al-ašwāq di Ibn ʻArabī dalla versione che ne dà Asín Palacios in un’altra delle sue opere fondamentali, la cui prima parte è interamente dedicata alla biografia del mistico andaluso: El Islam cristianizado, Madrid 1931: 82.
[16] E qui sarebbe molto interessante mettere in chiaro la differenza tra la gnosi mistica pura professata nell’Islàm dai ṣūfī come Ibn ʻArabī e dai filosofi seguaci della “sapienza orientale”, come Avicenna e Abubacer (Ibn Ṭufayl), e la gnosi mistico-razionalista seguita dai filosofi più fedeli all’aristotelismo, come Avempace (Ibn Bāǧǧa) e Averroè. Il discorso ci porterebbe però troppo lontano. Dante, in sostanza, seguì una linea di pensiero oscillante tra le due gnosi, ma quasi certamente – verso la fine della sua vita – più incline a quella della mistica pura, come testimonia la comparsa di Bernardo di Chiaravalle nella parte conclusiva del Paradiso.
[17] Nello schema mistico-cosmologico della Alchimia della felicità le corrispondenze sono queste: il profeta Adamo nel cielo della Luna, Gesù e Giovanni Battista in Mercurio, Giuseppe in Venere, Idrīs nel Sole, Aronne in Marte, Mosè in Giove e Abramo in Saturno. Dopo le sette sfere planetarie l’ascensione prosegue per altre sette stazioni mistiche, segnate dalla presenza del profeta Muḥammad e dalle parole del Corano.
[18] M. Asín Palacios, La escatología musulmana, cit.: 86 (trad. mia).
[19] Per esempio, risulta inaccettabile la riduzione di Beatrice a rappresentazione allegorica della “teologia” – che si dice scienza divina, ma in realtà è pur sempre scienza umana, ragione discorsiva e sillogizzante che cerca di penetrare nei misteri della Rivelazione – a meno di non intenderla nel senso di “teologia mistica”, ossia gnosi sapienziale, scienza intuitiva del soprannaturale. Beatrice assume così il significato pieno e autentico del suo nome: “Colei che rende beato”, essendo immagine del raggio di Sapienza, dell’Intelligenza Attiva che illumina e rende attivo l’intelletto potenziale dell’uomo.
[20] M. Asín Palacios, La escatología musulmana, cit.: 385 (trad. mia).
[21] Nel XII secolo, a Toledo, il canonico Domenico Gundisalvo s’era fatto promotore di un’imponente opera di traduzione di testi filosofici arabi in latino: le opere di Alfarabi, di Avicenna e di Algazel erano penetrate così in Europa, influenzando potentemente il pensiero dei filosofi e dei teologi cristiani.
[22] Giuseppe Gabrieli, Dante e l’Islàm, in Scritti vari pubblicati in occasione del VI centenario della morte di Dante Alighieri, Varallo Sesia 1921: 17.
[23] Del 1773 è il Mahomets Gesang (Canto di Maometto) di Johann Wolfgang Goethe; mentre al 1840 risale la celebre conferenza che Thomas Carlyle dedicò al Profeta dell’Islàm, pubblicata l’anno successivo nel saggio On Heroes, Hero-Worship and the Heroic in History (Gli eroi e il culto degli eroi e l’eroico nella storia).
[24] Nato a Milano nel 1881 e morto a Roma nel 1954, Ugo Monneret de Villard fu architetto, archeologo, viaggiatore, storico delle religioni e orientalista. Il saggio a cui mi sto riferendo s’intitola Lo studio dell’Islàm in Europa nel XII e nel XIII secolo (Città del Vaticano 1944 – vol. 110 della collana “Studi e testi”).
[25] M. Steinschneider, Polemische und apologetische Literatur in arabischer Sprache zwischen Muslimen, Christen und Juden, in Abbhandlungen für die Kunde des Morgenlandes, VI n°3, Lipsia 1877: 421. (Citato in: Enrico Cerulli, Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano 1949, in “Studi e Testi” n° 150: 11).
[26] U. Monneret de Villard, Lo studio dell’Islàm, cit.: 54.
[27] «Et ce livre fist Mahomet», nella versione francese. «Hunc autem librum fecit Machometus», nella versione latina. (E. Cerulli, Il “Libro della Scala”, cit.: 24-25).
[28] E. Cerulli, Il “Libro della scala”, cit.: 22.
[29] Dopo ventitré anni lo studioso italiano pubblicò un nuovo studio, in cui ampliava notevolmente la ricerca che aveva condotto alla pubblicazione del Libro della Scala: E. Cerulli, Nuove ricerche sul Libro della Scala e la conoscenza dell’Islàm in Occidente, Città del Vaticano 1972, collana Studi e Testi n° 271.
[30] F. Gabrieli, Nuova luce su Dante e l’Islàm, 1950, in Dal mondo dell’Islàm, Napoli 1954: 163.
[31] E. Cerulli, Il “Libro della scala”, cit.: 512.
[32] Ibidem: 519. Dice il testo spagnolo di Asín Palacios citato da Cerulli: «Nelle opere di Ibn ʻArabī, effettivamente, e soprattutto nelle sue Futūḥāt, il poeta fiorentino poté trovare il quadro generale del suo poema, la finzione poetica di un viaggio misterioso nelle regioni dell’oltretomba, e il suo significato allegorico».
[33] M. Th. D’Alverny, Les pérégrinations de l’âme dans l’autre monde d’après un anonyme de la fin du XII siècle in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age, XIII, 1940-1942: 239-300.
[34] E. Cerulli, Il “Libro della scala”, cit.: 522.
[35] Ibidem: 524-525.
[36] Ibidem: 534-535. En passant, non possiamo tacere sul fatto che il simbolismo archetipico della Scala di Giacobbe ebbe già un ruolo importante nella letteratura cristiana ben prima di Dante, e ancor prima del sufismo. Basti pensare al trattato mistico noto come Scala della divina ascesa (Klimax theias anodou), o Scala del paradiso, scritto dal monaco Giovanni Climaco, vissuto nel Sinai tra il VI e il VII secolo. La Scala paradisi divenne poi anche un costante tema pittorico della mistica ortodossa, come testimoniano gli affreschi e le icone di varie epoche presenti, per esempio, al Monte Athos e al Monastero di Santa Caterina del Sinai. Vi si vedono schiere di asceti che salgono lungo la scala celeste, aiutati dagli angeli ma al tempo stesso osteggiati dai diavoli che tentano in tutti i modi di farli precipitare nelle fiamme dell’inferno.
[37] Ibidem: 545-546.
[38] Ibidem: 548.
[39] Ibidem: 549. Di ben diverso parere fu invece lo studioso spagnolo José Muñoz Sendino, che nella Introduzione alla sua edizione dei codici del Libro della Scala indicò nella leggenda del miʻrāǧ del Profeta la vera indiscutibile fonte dell’ispirazione poetica di Dante: J. M. Sendino, La escala de Mahoma, Madrid 1949: XII. Facile però osservare che Sendino, nell’entusiastico giudizio che intendeva convalidare in pieno le tesi di Asín Palacios, sia stato guidato soprattutto da un sentimento di orgoglio nazionale: poter dimostrare che la fonte principale a cui s’era abbeverato il genio di Dante era sgorgata dall’Andalusia.
[40] A. R. Nykl, Hispano-Arabic Poetry and its relations with the old provençal Troubadours, Baltimore 1946.
[41] Nel libro della Hunke non manca ovviamente un riferimento a Dante, che secondo lei si abbeverò alla fonte esoterica “del grande Ibn ʻArabī” e alla filosofia di Averroè (Edizione francese: S. Hunke, Le Soleil d’Allah brille sur l’Occident, Paris 1997: 380). Di questo libro a dir poco sorprendente, ma coinvolto nella inevitabile damnatio memoriae della sua autrice – grande studiosa che purtroppo fino agli anni ‘40 era stata effettivamente una “fottuta nazista”, come gentilmente ebbe a definirla Oriana Fallaci nel pamphlet islamofobo La forza della ragione, del 2004 – non esiste a oggi un’edizione italiana.
[42] Si veda, supra, la nota 29.
[43] E. Cerulli, Nuove ricerche, cit.: 317-318.
[44] Il Libro della Scala di Maometto, traduzione di Roberto Rossi Testa, postfazione di Carlo Saccone, Milano 1991. Il “miʻrāǧ cristiano” in questione, di autore anonimo, è quello pubblicato da M. Th. D’Alverny (vedi nota 33).
[45] Carlo Saccone, Il “Mi’râj” di Maometto: una leggenda tra Oriente e Occidente, in Il Libro della Scala di Maometto, Milano 1991: 179-181.
[46] Maria Corti, Dante e la cultura islamica, in Il Libro della Scala di Maometto, a cura di Anna Longoni, Milano 2013: 325-347. (Estratto dagli Atti del Convegno di Verona-Ravenna 25-29 ottobre 1999).
[47] Miguel Asín Palacios, Dante e l’Islàm. L’escatologia islamica nella Divina Commedia, Pratiche, Parma 1994.
[48] Il Libro della Scala di Maometto, a cura di Anna Longoni, Milano 2013: XLIII.
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Massimo Jevolella, si laurea in filosofia nel 1974 con Remo Cantoni con una tesi sull’utopia surrealista. Fin dal 1979 si dedica allo studio del pensiero islamico ed ebraico medievale. Negli anni ‘80 collabora con la rivista “Studi cattolici” e con l’Istituto di Storia della Filosofia dell’Università Statale di Milano. Pubblica articoli sulla rivista “Acme” della Facoltà, traduce testi filosofici dall’arabo (come il Libro dei cerchi di Ibn As-Sid al-Batalyawsi, Arché Editore), ed entra in contatto con i professori Giuseppe Sermoneta e Shlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme (dove nel 1985 partecipa a un convegno internazionale su Maimonide, con uno studio sulle fonti arabe della profetologia nella Guida dei perplessi). Negli anni ‘90 dirige la collana di libri “Spazio interiore” della Red di Como. Nel 1991 pubblica il libro di saggistica-narrativa I sogni della storia (Mondadori Oscar). Seguono i saggi: Non nominare il nome di Allah invano (Boroli 2004, con postfazione di Franco Cardini); Le radici islamiche dell’Europa (Boroli 2005); Saladino eroe dell’Islàm (Boroli 2006); Rawà, il racconto che disseta l’anima (Red 2008); la traduzione dall’arabo e curatela del Collare della colomba di Ibn Hazm (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2010); l’antologia coranica Corano, libro di pace (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2013). La traduzione integrale in prosa e curatela del Romanzo della Rosa di J. De Meun e G. De Lorris (Feltrinelli UE 2016). Torna sul tema dell’utopia con uno studio sulla “città ideale” dei filosofi arabi, pubblicato nel 2012 sui “Quaderni di studi Indo-Mediterranei”. Intensa la sua attività di conferenziere, fin dai primi anni ‘80 e in molte città d’Italia, indirizzatasi sempre più sul versante del dialogo interreligioso e interculturale. Di recente, ha fatto dono degli oltre 700 volumi della sua biblioteca di cultura islamica ed ebraica alla Biblioteca del Seminario Vescovile di Mazara del Vallo (Fondo Jevolella).
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