il centro in periferia
di Michela Zucca
L’associazione Sherwood è stata fondata nel gennaio 2016. Il nome è evocativo di due idee fondamentali: foresta, nella sua accezione arcaica di fores, fuori, alieno, estraneo, contrapposto rispetto all’urbs ovvero alla città e a tutto ciò che è civile: fuori legge. E poi briganti, popolazioni native del territorio che decidono di autogestirsi e di prodursi da sole ciò che gli necessita, sia materialmente che culturalmente, portatori di una civiltà ‘altra’. L’intento è unire due (o più) sistemi di interpretazione del mondo e di lavorare. Modelli che fino ad ora raramente hanno cooperato, anzi spesso nella cultura mainstreaming sono stati in conflitto.
Si tratta del punto di vista dell’arte, della creazione artistica; e dello sviluppo territoriale delle zone rurali, della montagna e della foresta. In un’ottica di ricerca scientifica, storica, antropologica finalizzata alla creazione di opportunità formative che creino lavoro (non posti di lavoro) e favoriscano la permanenza, se non il ritorno, della popolazione in zone fragili. Il tutto incentrato su un elemento vivo, che da sempre fa parte della civiltà dell’uomo, ritornato di estrema attualità con le nuove richieste di materiali e di fonti di energia rinnovabili: il legno.
L’obiettivo è quello di creare un centro di ricerca-azione sull’economia di sussistenza e l’autosviluppo per cercare di sopravvivere alla crisi climatica. Un luogo in cui raccogliere la documentazione sulle culture alpine, sulla storia delle donne in montagna e sulle economie di autosussistenza per elaborare soluzioni di sopravvivenza gestibili dal basso rispetto alla crisi ambientale e al riscaldamento del pianeta. Uno dei progetti a lunga scadenza è l’organizzazione di una “Scuola di territorio”.
Anche per far vedere che a Sherwood la teoria è molto pratica (Mao affermava: «non esiste niente di più pratico di una buona teoria»), stiamo restaurando una casa in totale autocostruzione, che ha già aperto una piccola foresteria ed aprirà a breve una sala convegni-formazione. Abbiamo fatto tutto da soli: pareti, impianti, intonaci, pavimenti, mobili, consolidamento affreschi del ‘500, lavorando nelle ferie e nei fine settimana, anche senza riscaldamento. Non abbiamo competenze specifiche e abbiamo iniziato che avevamo quasi cinquant’anni. Il nostro stesso lavoro dimostra che l’autoproduzione e l’autocostruzione sono possibili e che chi si lamenta di non poter fare ha tempo da perdere: gli è rimasto il fiato. A noi, neanche quello.
Sherwood già dallo Statuto ha inserito un discrimine positivo di residenza, genere e classe sulle persone che lavoreranno ai progetti: sarà privilegiato chi viene da ceti bassi, da bassa formazione di ambiente di provenienza, chi risiede in paesi di piccole dimensioni in montagna (e sarà chiesto il cambiamento di residenza), le donne.
Chi verrà a Sherwood dovrà fare sia lavoro intellettuale che manuale, mantenere la struttura e fare autoproduzione per tutto quello che sarà possibile, come sta già succedendo adesso. La ricerca di base dovrà essere accompagnata dal lavoro manuale di produzione, riproduzione e mantenimento. In questo senso la casa funziona come oggetto formativo e possiamo insegnare a chi vuole prendere questa strada.
La mission di Sherwood viene perseguita con attività che sviluppano alcuni temi forti che secondo noi sono alla base della civiltà alpina:
- Coscienza di comunità, identità e condivisione;
- Cooperazione alpina ed extra-alpina;
- Autosviluppo, valorizzazione e uso di risorse interne al territorio;
- Rafforzamento del ruolo delle donne.
Come attività di diffusione e comunicazione abbiamo “inventato” l’arkeotrekking. Non si tratta di un’attività turistica ma di divulgazione. Il trekking è un’iniziativa politica. Impostiamo i nostri trekking come veri e propri seminari di riscoperta di sistemi di sopravvivenza e condivisione delle tribù delle Alpi che potrebbero diventare soluzioni di sopravvivenza alla crisi climatica, al patriarcato e al fascismo dilagante. L’arkeotrekking è dichiaratamente femminista.
Attraverso passeggiate alla portata di tutte (in cui la fatica della salita fa parte del percorso formativo), identifichiamo le tracce delle antiche comunità. Studiamo i sistemi di funzionamento delle comunità egualitarie e di quelle civiltà che sono riuscite a “tornare indietro” e a sopravvivere alle crisi ambientali, rispetto a quelle che invece non hanno saputo regolarsi e capire i vincoli che la natura imponeva e sono scomparse. Per questa ragione ci occupiamo di riscoprire l’archeologia di montagna.
Gli arkeotrekking e tutte le nostre attività sono basate sulla condivisione non solo di idee, ma anche di spazi e di mezzi. Per questo motivo chiediamo ai partecipanti di condividere gli spazi di vita, cioè le stanza se pernottano a Sherwood, e le macchine, in modo da causare meno traffico possibile e consumare meno combustibile. Fino ad ora abbiamo avuto poche obiezioni.
Sherwood non ha mai ricevuto finanziamenti pubblici, si basa sul nostro lavoro – mio e del mio compagno – che ci stiamo mettendo una casa e tutta l’attrezzatura che ci starà dentro. Ho scelto di dedicarmi full time all’associazione, e lui ha preso un part time. Compensiamo il mancato ingresso con l’autoproduzione e l’autocostruzione. Abbiamo attività a pagamento che in qualche modo riescono a compensare qualche spesa. Per scelta la tessera associativa ha un prezzo molto basso e così le attività. Non possiamo destinare fondi alla pubblicità.
Gli arkeotrekking vengono fatti in Trentino, dove c’è la sede operativa, ma anche in altri luoghi in cui esistono gruppi che ce lo chiedono e con cui avviamo rapporti di partnership. Si svolgono anche in occasione di eventi particolari (per esempio una mostra, o l’apertura temporanea di un sito artistico o archeologico) che consentano di acquisire uno sguardo diverso sulla storia di genere o sulla microstoria, per permettere di far sentire la propria voce alle donne e a comunità che sono state private della possibilità di esprimersi. Coinvolgiamo operatori e produttori sul posto.
Lo studio delle civiltà antiche e delle culture popolari alpine e montanare viene condotto per cercare soluzioni ed esempi. Patriarcato e capitalismo sono solo l’ultimo respiro di una storia dell’umanità che è molto più antica di quanto normalmente si pensi: e che si è sviluppata secondo regole diverse da quelle che si credono eterne. Il mercato in poche generazioni è riuscito a distruggere civiltà che vivevano in armonia con l’ambiente da migliaia di anni. Che per lo più sapevano darsi dei limiti e non oltrepassare la capacità portante degli ecosistemi.
La rivoluzione urbana segna l’inizio di una migrazione che sembra inarrestabile: lo spostamento di popolazioni dalle zone interne, principalmente montagnose ma anche pianeggianti, alle città e alle coste, contemporaneamente, per quanto riguarda l’Italia, alla migrazione dal Sud al Nord. È un movimento tuttora in atto, che coinvolge primariamente le componenti riproduttive e in parte quelle culturalmente più preparate: le donne e i giovani laureati.
È un movimento che probabilmente dovrà invertirsi causa il riscaldamento globale. I dati metereologici danno entro il 2050 il clima di Milano come quello di Karachi oggi: gran parte delle metropoli non saranno più abitabili. In Italia la popolazione si è concentrata lungo le coste. Vicino al mare si trovano gli insediamenti produttivi, industriali e agricoli. Il cambiamento climatico favorirà la desertificazione di ampie aree del Sud, già dipendenti dall’irrigazione. Nel giro di pochi decenni diversi milioni di persone dovranno essere ricollocate.
Lo spopolamento è un problema di genere: le donne, appena hanno potuto, hanno abbandonato in massa i paesi di montagna, attuando una protesta femminista radicale contro un modello patriarcale di famiglia che non voleva rinnovarsi. Se non se ne sono andate, hanno rifiutato di sposare un contadino e spinto le proprie figlie alla fuga. Così mentre la popolazione italiana aumenta del 20% in cinquant’anni, sono pochissimi i comuni alpini che reggono il passo: gli altri si avviano inesorabilmente verso la marginalità economica, sociale, culturale. Lo spopolamento è aggravato dal brain drain giovanile: e non è un problema soltanto economico. In Italia, è la provincia di Bolzano, la più ricca, che può vantare i tassi più alti di emigrazione giovanile.
Il problema dello spopolamento si ripercuote immediatamente a livello di territorio. I versanti curati per tremila anni, terrazzati, spietrati, sorretti dall’intervento umano, non reggono all’abbandono. Ritorna il bosco con le piante, ad alto fusto, che non sono più tagliate: si ripristina il limite altimetrico naturale degli alberi, abbassato dall’intervento umano per creare spazi di pascolo per le bestie. Il terreno, non più sorretto dalle terrazze che non vengono più riparate e si disfano, frana, trascinando con sé tutto ciò che esiste fino a valle. Gli interventi «tecnologici» di controllo (come la cementificazione dei letti dei torrenti) non fanno che peggiorare la situazione, perché pensano di sostituire il lavoro umano di presidio e riparazione che soltanto la permanenza degli abitanti e una cultura di lavoro e di cura condivisa e costante possono realizzare.
Questo tipo di interventi sono praticamente inutili: costosissimi, mettono a repentaglio la vita di operatori altamente specializzati e ben più utili in altre condizioni, salvano una manciata di vite (quando va bene) ma non servono a salvaguardare il territorio. Sono una vetrina per i politici che possono vantarsi dell’efficienza della Protezione civile, investire in mezzi scenografici e filmare interventi spettacolari, mentre il lavoro di controllo e ripristino del degrado è continuo e non fa notizia (ma permetterebbe di limitare il danno).
Noi siamo convinti che è necessario riportare l’essere umano in montagna nei piccoli paesi per contrastare la crisi climatica, ma soprattutto per sottrarsi al controllo sociale esercitato dai centri dell’Impero e per riacquistare la propria libertà.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Michela Zucca, antropologa, ha svolto il suo lavoro di campo fra gli sciamani amazzonici e andini. Si occupa di culture popolari, civiltà marginali in lotta coi poteri centrali, reinsediamento in montagna, storia delle donne. Ha diretto il gruppo di ricerca di Antropologia Alpina presso il Centro di ecologia alpina di Trento dal 1993 al 2007 quando è stato chiuso. Ha fondato la Rete delle donne della Alpi e coordinato le edizioni del convegno internazionale “Matriarcato e montagna” dal 1994 al 2007. Ha insegnato Storia delle Alpi all’università di Torino, Didattica della storia e Storia del territorio all’Alta scuola pedagogica di Locarno (Ch), Valutazione di qualità dei sistemi extrascolastici all’università di Aosta, Antropologia dello sviluppo all’università di Trieste. Ha coordinato e diretto progetti di sviluppo di comunità e di turismo partecipato. Nel 2016 ha fondato l’associazione di promozione sociale Sherwood e ha aperto la foresteria a Castel Madruzzo (Tn). Si segnalano tra le sue pubblicazioni più recenti: Storia delle donne da Eva a domani (2010) e I tatuaggi della Dea (2015).
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