di Stefano Montes
Sto per arrivare. È quasi fatta. Ci sono quasi. Pochi metri ancora. A momenti, pochi momenti ancora, e avrò raggiunto il mio obiettivo. Oggi è comunque domenica, peccato. So già che ci sarà una bella coda da fare, che noia. Ma sono pronto a questa evenienza, non demordo, anzi potrei – mi dico, tra me e me – trarne vantaggio per trasformare la mia eventuale, lunga attesa in una breve etnografia sulle asimmetrie del minuto vivere quotidiano. Com’è noto, Latour rimprovera a Augé, nel suo ‘rimpatrio antropologico’, il fatto di mettere in atto una prospettiva troppo ristretta che non tiene bene conto di tutti gli aspetti relativi ai fatti sociali totali della cultura (Latour 1995). Latour, in quel saggio, non parla degli aspetti relativi alla dimensione temporale e non accenna in particolare al ruolo centrale occupato dall’attesa in una cultura: due aspetti che mi interessano invece in modo speciale e sui quali potrei dirigere qui la mia attenzione. Semmai, in quel saggio, Latour apre molto utilmente la strada alla problematica relativa alla tecnologia e alle relazioni intrattenute tra questa e il genere umano, tra l’animato e l’inanimato, il corpo e lo spirito.
Soprattutto, la questione che si potrebbe porre nel mio caso, a partire dalla mia esperienza d’oggi e in contraltare a quella di Latour, riguarderebbe la dimensione temporale: più particolarmente l’attesa e le asimmetrie che, a partire da essa, si generano nel quotidiano, così come l’assenza/presenza di una sua presa di coscienza diretta, intenzionale. Per prendere in conto questa questione debitamente, so già che dovrei tenere bene a mente il bilancio fatto da Marcus su Writing Culture, sugli effetti prodotti, negli anni, da questo orientamento teorico in antropologia e in arte: «I termini teorici che definiscono la scrittura delle attuali etnografie sono cambiati notevolmente, mentre a livello pratico, sia di lavoro sul campo che delle regole di scrittura, i cambiamenti sono stati minimi» (Marcus 1997: 13). In altri termini, potrei tentare oggi, a livello pratico, di lasciare interagire lavoro sul campo e regole di scrittura, in parte trasgredendole, in parte ridefinendo a mio modo il lavoro sul campo a partire dalla mia esperienza quotidiana, dunque non straordinaria, né esotizzante (se non altro, di primo acchito, per me, in quanto nativo del luogo).
Prendere in conto l’attesa può sembrare un po’ strano per un antropologo esotizzante, volto a pensare la cultura in termini di distanza spaziale. Me ne rendo bene conto. Qualcuno potrebbe infatti chiedersi: cosa mai ci potrebbe essere di ‘antropologico’, in un’attesa, in un qualsiasi botteghino d’un museo di Palermo? Cosa ci potrebbe essere di interessante in un resoconto etnografico vertente sull’attesa, spesso noiosa e statica, per lo più non agentiva e unidimensionale? Lo vedremo. Nel frattempo, tra un pensiero e l’altro, tra un proposito e un interrogativo, arrivo sul luogo prefisso. Come prevedevo, c’è da aspettare: che fila d’attesa interminabile! Che fila d’attesa serpentina, inesauribile, impaziente di respingere chiunque osi, accenni a volersi mettere in coda, ancora uno, un altro ancora, un altro accenno, si ricomincia, si vive, si attende ancora, la vita nel frattempo va, non ce ne rendiamo conto, si vive di pazienza, ce ne vuole tanta, la vita vola, facciamocene una ragione, non sopporto però l’indifferenza dello scorrere del tempo, dei passi indolenti dispersi nel corso della vita spesa nell’indifferenza dell’accadere. La fila è lunga, così tanto che pare infinita! Così sembra oggi, da lontano, da dove sono, dall’alto delle mie speranze deluse, d’improvviso infrante sugli avanzi del nulla alle mie spalle, sugli avanzi della scia d’ombre d’individui a me innanzi, cullate, piano frante dai raggi del caldo sole assillante, tuttavia appagante.
Che fila! Così sembra, spero di sbagliarmi, non ci scommetterei adesso che sono deciso, più che mai deciso a entrare, ad andare al Palazzo dei Normanni, a Palermo, per visitare la mostra di Edward Hopper. No, non lo farò, proprio ora non desisterò. No, non lo farò. Non cederò, non cederò affatto. Nonostante tutto – la fila, il caldo e il resto – non desisterò. Non lascerò che il caldo prosciughi la mia determinazione iniziale, ossessiva, tesa a realizzare il mio obiettivo. Non parlerò, non penserò più a niente, non avrò nient’altro in mente se non Hopper e i suoi quadri, le sue geometrie urbane e rurali, i personaggi ripresi in un’atmosfera di rarefatta, fatata sospensione. Sarà così? Sarà soltanto arte e niente più? Intanto, speriamo bene, speriamo di non attendere troppo! Tanto si è capito ormai: amo la sua pittura, non mi lascerò dunque sfuggire l’occasione di entrare nel mondo dell’attesa resa per immagini sovvertitrici d’azioni; non mi lascerò sfuggire l’occasione di sfuggire al quotidiano fin troppo sovente catturato dall’affaccendamento dell’andirivieni di compiti da portare a termine, riproposti all’infinito, come sempre, come capita, nell’andazzo disordinato o nel piano prestabilito.
Io sono a Palazzo dei Normanni, a Palermo. Io sono in attesa, lo sono e, mentre attendo, do libero corso all’immaginazione, mi interrogo sul valore dell’attendere nella vita quotidiana, nell’arte, ovunque sia, ovunque capiti. I quadri di Hopper, da parte loro, sottilmente tappezzano le mie emozioni soppesate, in punta di piedi mi appassionano, rallentano dolcemente il turbinìo di gesti e pensieri: mi appassionano perché – diversamente da Van Gogh che pure amo tanto – mi respingono senza ferirmi, senza mezzi termini mi attraggono perché mi tengono a lungo in sospeso, a tempo indebito immerso nell’osservazione dell’apparenza di solitudine densa che emana dai colori, dalle forme, dalle persone in attesa di un minimo accadimento, di un nonnulla che rompa la regolarità delle linee, degli sguardi persi nel vuoto dei personaggi. Tanti colori, così tanta solitudine, davvero tanta! È mai possibile? Lo so già, comunque, se per caso cado nella trappola, se mi metto a guardare a lungo e con piacere, scatta allora la subdola molla interiore dell’attesa disattesa: mi aspetto che succeda qualcosa e niente accade; i personaggi attendono e non si muove foglia. È una molla subdola e piacevole allo stesso tempo; è una molla inattesa e disattesa comunque.
E intanto, tra un’attesa e l’altra, la vita si sottrae alla pienezza del tempo, al suo stesso scorrere sui nonnulla di sempre, consumati attimi, privi di rilievo, senso e dissenso. Come ricorda Apollinaire: «Le foglie/Che pesti/Un treno/Che corre/La vita/Scorre» (Apollinare, Autunno malato). In poesia, in pittura? Ovunque sia. Persino là dove ci sono tante persone raffigurate nei quadri di Hopper, la lieve solitudine severa detta legge: niente sembra succedere, tutto appare, niente cade sotto l’impeto di un qualche accenno d’azione, mai presagita, in nessun caso presente. Anzi, molto meglio, diversamente enunciato: tutto sembra sul punto di succedere, sul punto di accadere e dare una svolta alle cose dello spirito, pur nelle certezza che nulla interverrà di fatto a rompere la calma ridondante, a rompere l’immobile riflesso dell’essere umano in attesa.
I quadri di Hopper mi interrogano senza posa. Mi interrogano i suoi quadri: sono per me uno stato d’animo smussato – uno stato d’animo pacato magicamente tramutato in «pensiero che si tiene lontano da qualsiasi soggettività per farne sorgere come dall’esterno i limiti» (Foucault 1971b: 114) – malgrado la consistenza martellante di forme e colori. Niente sembra accadere, è vero, eppure mi piacciono i suoi quadri, mi piacciono all’esasperazione perché, nell’esasperazione dell’attimo, si lasciano intravedere i limiti stessi di un soggetto che guarda: perché i suoi quadri parlano col mutismo amplificato delle immagini a un soggetto che sembra osservare dall’esterno la sua stessa osservazione, senza il bisogno delle parole o d’altro.
D’altronde, Hopper dipingeva proprio perché non trovava – necessarie – le parole per esprimere ciò che vedeva: l’insufficienza del dire diventava strumento del suo fare pittorico. E così succede a me, da spettatore, incapace di dipingere purtroppo, ma attento lettore di chiazze di colori, d’insiemi di tracce e tratti regolari e sregolati. Sono incapace di dipingere, ma posso guardare e immaginare, guardare da spettatore comune e immaginare forme di vita persino in chiave antropologica: perché, fondamentalmente, «immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita» (Wittgenstein 1967: 17). Vale pure per il linguaggio pittorico, vale più in generale per la vita. E, con Hopper, per di più, l’immaginazione diviene sfrenata e l’effetto è incantevole, incantato: la vita stessa si sgroviglia come un serpente risucchiato dal divenire assente delle forme pittoriche in attesa di uno sguardo. Come, più esattamente?
Io guardo e le immagini cominciano ad attraversarmi i pensieri senza necessariamente trasformarsi in parole, annullando il predominare usuale dei discorsi, attivando uno sdoppiamento dell’esperire col solo corpo e del pensare con la sola testa. Che sia in presenza o in assenza, dunque, le immagini di Hopper respingono la mia incontrollata adesione fisica, attraversano al contempo i miei pensieri. È un alternarsi pacifico – un dono – di sdoppiamenti e rimestamenti che lentamente prendono spazio e sopravvento: attraverso la negazione di un’identificazione irriflessa con gli accadimenti dei quadri e il simmetrico incrociarsi dei pensieri; l’attesa di un evento e la disillusione della sua possibile realizzazione; la tranquilla regolarità delle geometrie e la vivacità incondizionata dei colori. Per anni, in passato, queste immagini hanno accompagnato i miei risvegli sonnolenti in alcune mie case, in Italia o all’estero, nei miei diversi spostamenti in Francia o in Estonia: nelle striminzite stanzette parigine (tutte rivolte verso l’interno, tappezzate di miei manifesti e locandine) come nei bei appartamenti estoni (da grandi finestre proiettati sul mondo sempre ingombro del verde della campagna). Quale migliore esempio, tra i tanti bei quadri, se non Nighthawks (I sonnambuli) in cui l’unico accenno di rottura di notturno equilibrio dell’attesa è il gesto del barman che, nel suo alzare il capo verso un avventore, sembra rispondere a una qualche sollecitazione di vita da lui ricevuta sommessamente: minima, impercettibile, resa in dettaglio, tenue, appena corrisposta. Il barman è leggermente piegato in basso e in avanti, il capo levato, in orizzontale, quasi non volesse essere disturbato nei lenti movimenti delle braccia, quasi volesse dire che anche le parole sono inutili, rompono il silenzio, l’equilibrio dell’attendere, l’attesa in pericoloso equilibrio.
Le scene raffigurate da Hopper sono d’un realismo esacerbato, bello in sé, eppure consentono di evadere e intravedere altri mondi, accordano uno spazio illimitato a ciò che può accadere da lì a poco, quel poco che è nell’imminenza dell’accadere dentro e fuori il confine della cornice. In questo senso, l’apparente realismo di Hopper viene soggiogato dall’attesa di qualcosa che tarda ad arrivare e apre così, per questa stessa ragione, lo spazio alla immaginazione, così come le vie della immaginazione. Di fatto, per dirla tutta, Hopper viene considerato da molti critici un pittore realista. A me pare molto più di questo: perché il realismo è per lui un pretesto per produrre altri effetti. A proposito di effetto di reale, Barthes scrive: «la carenza del significato a vantaggio del solo referente diventa il significante stesso del realismo» (Barthes 1988: 158). Direi che, nel caso di Hopper, l’esitare del significato a vantaggio del referente diventa il significante stesso dell’immaginazione che supera di molto l’effetto di realismo iniziale, apparente. In questo meccanismo, la rappresentazione dei personaggi in attesa del sopraggiungere di un evento gioca un ruolo determinante: lo svolge perché, tra le altre cose, l’attesa è il potenziale trampolino di lancio della speranza. Forse, a ben vedere, una delle ragioni per cui Hopper mi attira nella rete dell’osservazione spaesata è proprio perché mi interessano, da antropologo, i diversi modi di «costruire, intenzionalmente o meno, orizzonti che determinano ciò che esperiamo» (Crapanzano 2007: 11).
L’attesa è in effetti un orizzonte che può aprire la strada alla frustrazione e alla collera oppure, al contrario, alla speranza e alla sua realizzazione (Greimas 1984). Io, qui, in attesa di arrivare alla biglietteria, sono frustrato o pervaso di speranzoso ottimismo? E me lo chiedo intanto che – sull’onda dei miei pensieri a soqquadro per l’ansia dell’attesa e delle immagini quiete che bussano alla finestra del mio mondo interiore – ci mettiamo (io, la mia famiglia, i miei amici) in coda, rassegnati, come tutti gli altri: bambini e adulti, gruppi e singoli individui, italiani e stranieri, spaiati e in riga, qualcuno più alto, qualche altro più basso, in una fila in linea o scompaginata, ricomposta col contributo del sentiero in curva che sale verso il botteghino e talvolta confonde le idee a tanti, non soltanto a me. Che coda! Quanti stranieri! Ce ne sono tanti, di stranieri, oggi! Ci sono tanti stranieri, vestiti da turisti, con lunghe camicie, strane ciabatte da città, calzoncini corti. Faccio attenzione alla loro parlata, mi piacciono le lingue, mi dispongo in uno stato di ricezione, lo faccio con fatica, lo faccio infine per dovere, come fossi al lavoro e non qui per piacere. Un turista, in particolare, arresta il mio sguardo indagatore, perplesso, oggettivato. I colori dei suoi abiti sono vivaci, la collana che porta al collo sembra un amuleto, i pantaloncini sono corti, molto corti, asimmetrici, risucchiati verso l’alto, ma da un sol lato. Si passa la mano sulla fronte, lui, il mio turista, l’oggetto della mia osservazione: lo fa col dorso aperto. Sarà noia non meglio tollerata? Sarà sudore di cui sbarazzarsi?
Fa caldo effettivamente, fa già caldo e io non vedo l’ora – non è questo un inciso ma l’espressione di un sentire – di andare a mare, di andarmi a tuffare in acqua, a nuotare e sguazzare senza carico di pensieri alcuno. Ci penso su qualche secondo, ci penso con particolare letizia e dovizia di dettagli, mentre, ormai sempre più rassegnato all’attesa, tiro fuori il libro di Paul Stoller dalla tasca posteriore e sbircio qualcosa per tenermi occupato, per ingannare l’attesa e la mente. E guarda, per uno strano caso, dove va a cadere l’occhio itinerante:
«It is incontestable that well-being gives shape to the human condition. Despite the centrality of well-being to the comprehension of things human, it is surprising that anthropologists rarely write directly about it. For more than thirty years, we have focused our scholarly attention on social organization, symbolic meaning, research methods, the philosophical contours of representation, and the political ramifications of structures of violence, human rights discourses, and the ethnographic engagement. Such preoccupation has left us precious little time to scratch our existential itches. From an institutional perspective, discussions of human well-being are usually too introspective, too emotional, and too philosophical» (Stoller 2014: 140-141).
È vero, come scrive Stoller, che lo studio dello ‘star bene’ in antropologia ha sempre ceduto il passo ad altro, a qualcos’altro considerato sempre più importante: per esempio, l’organizzazione sociale e le possibilità della rappresentazione, l’impegno etnografico o i voli pindarici verso la decifrazione delle strutture. Le emozioni, soprattutto, sono sembrate meno rilevanti della ragione, eccessivamente introspettive per essere adeguatamente indagate in relazione alla vita di un individuo in cerca della sua ragione di vita, del benessere, così come della felicità. Il quotidiano, poi, è sembrato poco esotico, poco interessante per l’antropologia. Prendiamo il mio esempio in questo momento. Che faccio io? Aspetto, in coda, al fine di entrare in un museo. Sembra banale, inutile, persino irrilevante. A che pro situarsi meglio nell’attendere per descriverlo? Per di più, io mi annoio e osservo oppure immagino e mi lascio prendere dall’entusiasmo. Per l’appunto, sono catturato dalla sintassi delle emozioni in corso di sviluppo e potrei allora studiarle da questa prospettiva soggettiva, se non pure comparativa.
Ma è anche vero che sono a Palermo, a casa mia, lontano da un qualsiasi mio esotico fieldwork. E pur tuttavia potrei trasformare questa mia esperienza, vissuta nell’arco di poche ore, in una vera e propria ricerca sul campo, in un’osservazione-partecipante su un evento minimo dell’accadere, sull’apparente grado zero dell’azione: l’attendere e la sua sintassi emotiva sovrapposta alle microazioni minime in corso di svolgimento. Se, infatti, «vivere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo» (Van Gennep 1981: 166), l’attesa – tessuto temporale che smorza l’azione o l’alimenta – può allora essere un utile contrappunto o integrazione a queste trasformazioni disgreganti e reintegranti. Per studiare l’esistenza in tutti i suoi aspetti, è dunque necessario inserire la dimensione dell’attesa come elemento da studiare. Solitamente, invece, la dimensione dell’attesa e dell’azione sono contrapposte: l’azione, nella sua totalità, pare addirittura più ricca mentre l’attesa sembra essere noiosa, fine a se stessa, una mera pausa nel susseguirsi degli eventi. E se così non fosse? Se fosse tutto il contrario? Se l’attesa fosse invece una delle molle centrali del vivere in costante bilico tra la proiezione nel futuro e l’affondo nel passato? Tra la speranza e la nostalgia? Tra una possibile monotonia dovuta all’iteratività delle attese e un’eccitazione reiterata dovuta alla turbolenza dell’anticipazione dell’atto? Come scrive Greimas:
«Per evitare che l’iterazione delle attese degeneri in monotonia, è concepibile, ma rischioso, uno spostamento di accentuazione: una sincope tensiva, che realizza il tempo forte anticipandolo, e un’attenzione nei confronti dell’attesa dell’altro; oppure un sostenuto che prolunga l’attesa, accompagnato da inquietudine, ma che rinvigorisce il tempo forte ancora sperato. La turbolenza così creata rivalorizza il ritmo affannato» (Greimas 1988: 70).
Come dire, seguendo Greimas, che la musicalità di attese e distensioni proairetiche e patemiche, ritmate o intenzionalmente sgrammaticate, fuori tempo o sincopate, modella le nostre forme di vita. È davvero così? Lo è certamente per me. E mentre ripenso a Greimas come contrappunto teorico rispetto a un’ipotetica, antiquata equazione della ricerca – ‘agire’ è ciò che conta e va studiato, ‘attendere’ è ciò che deve essere tralasciato e non va preso in conto teoricamente – la coda per il museo avanza nuovamente e si scompiglia a tratti, il lento cammino ripiglia, riprende pure la turbolenza della mia immaginazione in anticipazione di ciò che vedrò all’interno del museo. Che mi attendo, di fatto, dai quadri di Hopper adesso, dopo anni, dall’ultima volta che ne ho visto uno dal vivo a Parigi? Il passato conta e le esperienze insegnano: a volte, i quadri di Hopper mi respingono e mi tengono sulla soglia; a volte, sdoppiano le sensazioni dai miei pensieri e mi spaiano piacevolmente. Invece – per fare un esempio contrario e capirci meglio – al cospetto dei quadri di Van Gogh mi sento immediatamente risucchiato, nella mia interezza, dai vortici ondeggianti che arrivano perfino a inebriarmi, provocando uno strano cortocircuito di pensieri e sensazioni.
E intanto, tutto compreso tra Hopper e Van Gogh, tra la turbolenza dell’immaginazione e la noia dell’attesa, sto per arrivare, poco a poco, alla biglietteria. Più mi avvicino alla biglietteria, però, più cerco di prevedere cosa accadrà quando sarò al museo, al cospetto dei quadri di Hopper. Più mi avvicino, più lascio andare i miei pensieri e mi abbandono alle aspettative, alla mia fertile immaginazione. In pratica, attendo e immagino il futuro imminente; attendo e rivado inoltre – sorprendentemente, controvoglia – con la mente al passato recente, al posteggiatore abusivo che mi ha chiesto, pochi minuti fa appena, qualche moneta, con fare autoritario, con piglio insolente. Prima di arrivare al Palazzo dei Normanni e mettermi in coda, sono infatti stato un bel po’ a girare a vuoto, in cerca di un parcheggio per l’auto. Infine, dopo tanto cercare, sono riuscito nel mio intento e ho trovato un posto in piazza, proprio davanti un bar dove si era piazzato un posteggiatore abusivo che mi ha chiesto qualche moneta in modo prepotente. Io, per reazione, ho fatto finta di niente. Lui ha reiterato la sua richiesta e io non ho risposto. Io ho preso con calma lo zainetto dal bagaglio dell’auto, ho fatto cenno a mia moglie di andare avanti, ho chiuso l’auto. Lui ha gridato a voce alta a un amico: ooh, veni cà, viri subitu ki succieri (oh, vieni qui, vieni a vedere subito cosa succede)! Imperterrito, io ho continuato a camminare e fingere indifferenza. Lui ha continuato a guardarmi di traverso. Io ho pensato che sarebbe stato meglio dargli una monetina per evitare eventuali spiacevoli sorprese al mio ritorno.
Così, su questa base, il cammino che dal bar al Palazzo dei Normanni è stato improntato a un senso d’attesa insofferente – accompagnato da uno stato d’incertezza diffuso – scattato in seguito a questo incidente di percorso, usuale a Palermo quando si parcheggia. Perché attesa, perché incertezza? Quel grido poteva essere interpretato come una minaccia incombente in quel momento, ma anche come un avvertimento: «al tuo ritorno troverai una sorpresa alla tua auto». Non è che ci tenga molto alla mia auto, devo ammettere francamente. L’auto la guido raramente e me ne servo soltanto come mezzo di trasporto: non ha dunque una funzione simbolica, è una piccola vettura, per di più vecchia. Mi dà invece molto fastidio non potere vivere la mia vita tranquillamente e ricevere minacce più o meno velate. Quel che conta qui, però, in chiave teorica, è che lo stato d’animo d’attesa positivo volto verso l’imminenza della piacevole ricezione delle opere di Hopper si è articolato in contrasto con l’attesa immanente, prolungata nel tempo e nel perdurare delle sensazioni, di dover trovare una sorpresa – un danno – alla mia auto, al mio ritorno.
Insomma, per tirare le somme, l’attesa è centrale e pervasiva in questo mio frammento di vita narrato, ma gli stati d’animo sono diversi. Sono stato posto in uno stato di ‘attesa incerta’ dopo aver parcheggiato; ero già in uno stato di ‘attesa gioiosa’ dovuto al fatto che andavo a vedere una mostra di Hopper. Una forma di attesa si sovrappone, così, all’altra senza cancellarsi. Ciò che inoltre conta è che, benché siano in ogni caso diversi i modi e la sintassi emotiva che l’accompagnano, l’attesa gioca un ruolo importante in questo mio minuto frammento di vita: noi, non soltanto io nella mia insignificante vita, non facciamo altro che attendere e ancora attendere, quale che sia il compito da portare a termine nello specifico. Io, più in generale, nel caso dei posteggiatori, sono sempre indeciso sul da farsi: se non do una monetina, mi sento in colpa perché penso che, tutto sommato, sono dei poveracci che non hanno altre risorse economiche; se do una monetina, invece, mi sento ugualmente in colpa perché penso di alimentare un sistema illegale, spesso malavitoso, che si impone con prepotenza sugli inermi automobilisti. Da antropologo, credo che sia doveroso mettersi nei panni degli altri; sono pure insofferente, però, a qualsiasi forma di azione che avverto come una imposizione o prepotenza.
Il dialogo resta per me, comunque sia, a prescindere dall’esempio problematico, la chiave di volta del progetto antropologico, persino nella spicciola quotidianità: penso che il dialogo sia quel modo di capire l’altro operante fondamentalmente attraverso una “inversione di posto tra ‘proprio’ e ‘altrui’, in cui il ‘proprio’ viene percepito come ‘altrui’ e viceversa” (Lotman 1994: 33). Se questo meccanismo riguardante l’attesa (e il dialogo) vale per il quotidiano, a Palermo, non si deve pensare che faccia eccezione altrove, in luoghi più esotici. L’attesa gioca infatti un ruolo ugualmente importante in contesti sia ordinari sia straordinari. Ci sono davvero tanti esempi che lo mostrano. Quali? Se si rilegge, anche superficialmente, l’introduzione ai Nuer di Evans-Pritchard, ci si rende subito conto che vengono continuamente sottolineati dall’autore due ruoli ossimorici d’antropologo: quello di uomo d’azione instancabile e quello di uomo in costante attesa dell’Altro, dell’altrui visita. L’azione e l’attesa sono coniugate in modo mirabile da Evans-Pritchard che si raffigura, marcatamente, come l’antropologo che conduce la propria ricerca nella propria tenda, esposto alla pubblica vista dei Nuer, tuttavia sempre nell’azione di fare qualcosa, di richiedere e ottenere informazioni in modo strategico:
«i Nuer “venivano a visitarmi dal mattino presto alla sera tardi […] Gli uomini venivano all’ora della mungitura e alcuni si trattenevano fino a mezzogiorno. Poi arrivavano le ragazze, finita la lavorazione del latte […] Le donne sposate venivano di meno, ma i ragazzi stavano spesso al riparo della mia tenda […] i Nuer sono visitatori ostinati e instancabili» (Evans-Pritchard 1975: 47-48).
L’attesa gioca un ruolo importante in tante altre etnografie, nonostante questa dimensione sia stata trascurata nelle analisi e letture dei testi. Si pensi al celebre testo di Clastres sui Guayaki. L’antropologo viene raffigurato, fin dall’inizio dell’etnografia, come colui il quale è in attesa di un evento: il parto. Sta, infatti, per nascere un bambino e Clastres viene risvegliato, nel cuore della notte, per rendersi finalmente conto che i Guayaki hanno disatteso le sue consegne (e la sua ansiosa attesa), essendo stato chiamato troppo tardi, quando il bambino è già nato e il fatto è già avvenuto, senza che lui potesse prendere appunti direttamente, in presenza della partoriente:
«Beeru! Ejo! Kromi waave! Bisbiglia una voce dapprima lontana e confusa, poi dolorosamente vicina, parole strane che tuttavia capisco. Una vera sofferenza strapparsi in piena notte al piacere del sonno e al tepore del fuoco […] Uomo bianco! Vieni! Il figlio di Pichugi è nato! Sei tu che hai chiesto di vederlo! Improvvisamente tutto diventa chiaro, so di che si tratta! Furore e scoraggiamento. A che è valso raccomandare loro con molti giorni di anticipo di chiamarmi non appena fossero apparsi i primi segni, se poi mi lasciano dormire mentre si produce l’evento!» (Clastres 1980: 11).
C’è una sottile differenza tra Evans-Pritchard e Clastres: per il primo si tratta di ‘un’attesa appagata’, fin troppo esposta alle visite dei Nuer che non gli concedono così una vera vita privata; per il secondo si tratta di ‘un’attesa ansiosa’, purtroppo solo parzialmente soddisfatta dai Guayaki che non lo coinvolgono abbastanza nella loro vita, se non altro nel caso del parto. Resta il principio secondo cui l’attesa svolge un ruolo essenziale nel meccanismo di organizzazione non soltanto del lavoro dell’antropologo, ma, anche, del dipanarsi delle sue emozioni e aspettative sul campo. Talvolta, più che di aspettative generalizzate si tratta di veri e propri dispositivi culturali sorprendenti, non del tutto compresi nemmeno dall’antropologo coinvolto nel lavoro di interpretazione e analisi. Questo è il caso di De Angulo che aveva vissuto a lungo con gli indiani Pit River della California. Di cosa si tratta più particolarmente? Un giorno, in seguito a un guasto a una delle loro auto, i Pit River con cui viveva De Angulo si accampano e non sembrano più decidersi a voler ripartire. Nessuno dice niente apertamente, ma sembra che i Pit River non abbiano voglia di riprendere il cammino e, soprattutto, di prendere la decisione deliberata di continuare il viaggio. I giorni passano, uno dopo l’altro, lentamente, molto lentamente, del tutto pacificamente, e non succede niente che possa rompere la routine instauratasi e spronare alla partenza; De Angulo si aspettava invece che, riparata l’auto, i Pit River ripartissero subito dopo. Capita l’antifona, da buon antropologo, De Angulo tira fuori il suo taccuino e si mette a fare il suo usuale lavoro di campo sulla parlata locale prendendo appunti sui modi di dire. Finché, un giorno, la lunga attesa viene interrotta e la decisione viene improvvisamente presa senza che questa sia riconoscibile in quanto tale da De Angulo:
«Alla fine successe. Era più o meno mezzogiorno. Sentii un uomo dire da lontano: ‘S.hu-ptsiidzima’. Se avesse detto lhuptiidza toolol, ‘Andiamocene tutti’, sarebbe stato differente. Ma no, aveva usato l’indicativo, non l’imperativo […] Non disse: Andiamocene tutti! no, fece una semplice affermazione: Noi tutti ce ne andiamo. Fu come un turbine. Mi guardai intorno. Le donne buttavano i panieri dentro le macchine. Poi, senza ulteriori preavvisi o consultazioni, uno di quei macinini partì in una nuvola di polvere. Il secondo lo seguì a ruota, e un terzo, ma questo era appena partito che qualcuno gridò. ‘Ehi! Avete dimenticato il bambino!’. L’auto fece marcia indietro, una giovane donna saltò giù e corse a un albero di ginepro dove il bambino dormiva in una culla che dondolava sotto un ramo, si gettò la culla sulle spalle ridendo e ridendo tornò di corsa all’auto» (De Angulo 1978: 69-70).
La scena è particolarmente significativa perché – nella descrizione che ne fa De Angulo – si passa da una attesa generalizzata e impalpabile alla decisione convulsa, quasi frenetica di partire in fretta e furia e abbandonare il campo senza ragione precisa. Il fatto che aveva molto stupito De Angulo in questo evento, soltanto in apparenza irrilevante, comunque divertente, è che nessuno dei Pit River aveva di fatto preso la decisione nei modi in cui si è soliti farlo altrove: De Angulo non capiva nemmeno bene come potesse essere che si era deciso di rompere l’attesa tranquilla e partire senza usare un segno linguistico appropriato come avrebbe potuto essere l’imperativo. Fatto sta che i Pit River sono partiti, il senso di attesa diffusa è stato interrotto, l’antropologo non ha capito bene, ha tuttavia registrato l’evento a futura memoria per probabili interpretazioni d’ordine comparativo.
La connotazione che passa comunque, con forza, già nel racconto sottile di De Angulo, è che tra i Pit River la suddivisione tra attesa e azione (così come tra indecisione e decisione) non è così forte come tra noi occidentali. Se, in molti casi, in Occidente il processo decisionale può essere lungo e complesso, preceduto da una fase articolata di discussione e confronto specifico tra gli individui coinvolti nella risoluzione, tra i Pit River il processo decisionale è più casuale, meno calcolato, meno sganciato dall’azione diffusa e quotidiana, comunque non collegato a una programmazione preliminare. Se accettata, questa ipotesi fa pure riflettere, sebbene in altri ambiti e per differenze, sul senso generale da dare all’esistenza, sui modi di concepire la mobilità e l’attesa: l’attesa, in molti casi, diventa infatti costrizione e non libera scelta come nel caso dei Pit River. Una vita degna di essere vissuta comporta la libertà di mobilità, fisica e immaginaria; se questa mobilità potenziale viene invece bloccata, allora si prospetta una condizione di crisi della socialità e dei flussi di circolazione che, oggigiorno, potrebbe avere conseguenze enormi a livello mondiale. Per i Pit River, più specificamente, ciò che conta è che accamparsi da qualche parte e decidere di rimanere – in quella che De Angulo considera una sorta di sospensione, in qualche modo comparabile all’attesa – non è una costrizione che viene dall’esterno o dall’alto.
Al giorno d’oggi, invece, viviamo in un mondo di sempre maggiori migrazioni la cui mobilità viene sovente frenata proprio dall’esterno e dall’alto. I migranti sono per lo più in una situazione di attesa indefinita, controllata e circoscritta, che diventa una sorta di sospensione paralizzante della loro vita, uno stallo del vivere. Hage, da parte sua, definisce il nostro mondo contemporaneo come caratterizzato da stuckedness, cioè da un’immobilità esistenziale imposta, ormai giunta a una soglia critica: «Although one can find evidence of people experiencing various forms of stuckedness at all times and in all places, I will argue […] that the social and historical conditions of permanent crisis we live in have led to a proliferation and intensification of this sense of stuckedness» (Hage 2009: 97). E mentre ripenso a tutto questo, a migrazioni e stalli, a flussi e attese, arrivo al botteghino quasi senza rendermene conto. Non mi sembra vero. Chiedo i prezzi dei biglietti. L’impiegato mi dice che avrei diritto a un biglietto omaggio visto che sono un docente. Mostro la carta d’identità in cui risulta che sono docente. Mi dice che non va bene perché è soltanto una carta d’identità e io avrei dovuto invece avere un documento rilasciato dall’università. Gli dico che la scorsa volta ho mostrato al suo collega proprio la carta d’identità e mi ha lasciato ‘passare la frontiera’ del botteghino senza problemi. Mi risponde con una ondulazione ritmica della testa e un ‘mi spiace’, confermandomi quello che aveva affermato precedentemente. Quello che valeva quella volta, non vale oggi, insomma. Pazienza! Pago ed entro. Entro e mi godo la mostra. Guardo tutti i quadri uno a uno; faccio una foto dopo l’altra. Espongo il mio punto di vista a Licia; lei fa lo stesso con me. A volte, siamo d’accordo; a volte, no. Guardiamo, commentiamo, fotografiamo. Fatto sta che, in questo fatato limbo dell’immaginazione, il tempo corre rapidamente e ci ritroviamo – come in un batter d’occhi – di nuovo fuori, al bar, a bere qualcosa. Al tavolo, all’aperto, io e i miei amici, prendiamo cose diverse. Io prendo un caffè per svegliarmi un po’, per addomesticare la sonnolenza. Poi, Emanuele mi dice che ha una sete da morire. Io non vedo il cameriere, mi precipito quindi dentro a prendere una bottiglietta d’acqua. Fatto lo scontrino, mi dirigo verso il banco, mi allineo dietro un individuo. Aspetto il mio turno, aspetto pazientemente. Chiedo a voce bassa, aspetto. Il ragazzo dietro il banco mi guarda un attimo e rivolge lo sguardo altrove: da tutt’altra parte. Sto per chiedere ancora una volta ciò che voglio, ma non ne ho il tempo, non arrivo nemmeno ad aprir bocca. Vorrei dirgli, per essere accomodante e riscuotere simpatia: una bottiglia d’acqua naturale, quando ha tempo, con calma, a suo agio, senza fretta! Ma lui, distratto, sta già parlando con un altro avventore. Non mi resta che aspettare, disatteso, in parte pure deluso: nell’attesa, mi era venuta sete anche a me, ne avevo tanta, resisto, come me resiste anche Emanuele. Aspetto.
Aspetto e ripenso al fatto che l’aspettare produce strane forme di subordinazione, persino al livello dello Stato che dovrebbe invece, almeno ipoteticamente, sottrarre spazio a qualsiasi forma di precarietà e condizione d’inferiorità. L’ipotesi di Auyero è che, in Argentina, attendendo, i poveracci sono costretti a imparare a esseri i ‘pazienti’ dello Stato, più che veri e propri cittadini con dei diritti: subdolamente, attraverso l’attendere, viene quindi loro trasmessa l’idea che debbono rassegnarsi a essere subordinati, a essere controllati (Auyero 2012). E intanto aspetto anch’io. Aspetto e prendo coscienza di non essere il primo, non lo sono: c’era già qualcuno in attesa, mi precedeva forse da tempo e non me ne ero nemmeno accorto. Così, aspetto in buon ordine, mentre metto la sete in resta e mi asciugo la gocciolina di sudore che imperlava – infastidendola – la fronte. Lui, sempre il ragazzo del bar, tira fuori due piattini rotondi da non so bene dove e li ripone sul banco davanti l’avventore che mi precedeva. Con un movimento veloce delle mani, aggiunge due bianche bustine di zucchero, adagiandole, una per parte, sui piattini inerti, grigiastri. La magia dei gesti, l’effetto dei colori! Io osservo la scena con cura e attendo, rassegnato e stupito al contempo, il mio turno. Mentre prepara i caffè, lui grida qualcosa a un altro ragazzo, anche lui in camice da bar. Grida, con autorità, dicendogli di portare al tavolo un cappuccino, di portarlo fuori, all’esterno: il cappuccino è pronto, presto, prima che si raffreddi, bisogna portarlo ai clienti che attendono! Lui – sempre quello dietro il banco – ha una faccia simpatica, ma non mi degna di attenzione. Ha un orecchino, i capelli corti, biondi. Io lo guardo meglio e mi rendo conto che non è poi così giovane come vorrebbe sembrare. Ha l’aria di avere tutto sotto controllo. Tutto? Si muove proprio come se avesse tutto sottocchio, come se non gli sfuggisse niente. Proprio niente? Velocemente si muove, sì, si muove come fosse un giocoliere esperto. Si muove in fretta, troppo in fretta, perché lo sia veramente: padrone di sé. Si muove tanto in fretta che una tazzina gli scivola via dalle mani, va a finire all’interno del lavello, ma non si rompe. Meno male! La tazzina è scivolata via come se fosse al rallentatore, senza fracassarsi, generando soltanto un tintinnio tutto sommato gradevole alle mie orecchie, invece in tesa attesa di un rumore sordo.
Io osservo il tutto con attenzione; attendo il mio turno con pazienza. Troppa? L’osservazione – ripeto a me stesso mentalmente – è una delle virtù di fondo di un antropologo, persino quando l’antropologo si trova a casa, anche laddove si trova in veste di persona comune, non professionale, in una situazione in cui non viene richiesta alcuna competenza linguistica o antropologica specifica. Tra l’altro, io sono un nativo, parlo siciliano, voglio inoltre capire. Cosa chiedo di meglio? Che mi costa pensare da antropologo in questo frangente di vita in apparenza banale? Osservo quindi nell’intento – ormai deciso, tra me e me, penso – di trasformare il fatterello in un breve racconto sul valore dell’attesa: soprattutto, penso al senso da attribuirgli, sul momento, nell’apparente insignificante quotidiano che scorre piano senza evidenti scosse. Che vuol dire attendere, antropologicamente parlando, nella vita di tutti noi? Può un’attesa disattesa costituire una forma di discontinuità nello scorrere quieto del vivere comune? Io attendo, ci rifletto, mi rimetto agli sviluppi in corso. Lui, il garzone del bar, ha l’aria di essere padrone della situazione, ma è tutto solo, dietro il bancone: non ce la fa a stare dietro al fervore degli ordini. Non è colpa sua, tutto sommato, se non ha capito in che senso va il turno, se ha lasciato passare un cliente prima di me, se fa quello che gli pare. E poi è questione di pochi minuti, solo pochi minuti, tanto vale aspettare senza agitarsi.
E intanto osservo placidamente tutt’intorno e penso che sia il caso di scattare una foto per lasciare traccia, per documentare la situazione: rapidamente, scelgo l’inquadratura in modo da riflettere una parte del bar davanti a me, oltre quella parte che sta alle mie spalle e vedo riflessa dietro. Illusione di totalità? Desiderio di lasciare più tracce possibili per poterci meglio riflettere dopo? Può, la foto, essere una traccia mnestica? Una traccia che non tiene conto del senso estetico? Una traccia che cancella in toto la presenza del fotografo e ritaglia un contesto in modo, purtroppo, sempre parziale? Importanti domande, in attesa di risposta come sempre, nel bel mezzo dell’azione. Fatto sta che la mia immagine, una volta inquadrata la scena, prende buona parte del fotogramma: si tratta di un riflesso deformato, ma sono pur sempre io, una parte di me. Scatto e ritrovo infatti me stesso nel riflesso: tracce d’ego malgrado me, la mia inerzia. Scatto e sono sorpreso. Scatto e penso che sia finalmente arrivato il mio turno. Scatto, ma non è così: un altro cliente si avvicina rapidamente e chiede qualcosa al ragazzo del bar. Questa volta sono sicuro di avere la precedenza io: venivo prima io, io ho aspettato dunque invano, il ragazzo non mi ha ascoltato, non mi ha ascoltato neanche questa volta. Venivo prima io – è vero, senza dubbio alcuno – ma l’altro cliente si è avvicinato con tanta rapidità e autorità che le mie speranze si sono sgretolate miseramente. E io non ho nemmeno avuto il ghiribizzo di protestare. Lui, il garzone del bar, gliela dà senza battere ciglio, prontamente, risolutamente. Cosa? L’acqua, ovviamente, proprio quella che pensavo fosse invece destinata a me. Mentre lui passava agevolmente l’acqua al cliente, con un elegante gesto a mezz’aria, io ho avuto l’impressione che mi abbia fatto segno: un segno di stizza rivolto a me, un segno di dominio della situazione da parte sua. Insomma, è come se volesse dire che lui fa quello che gli pare. Mi è sembrato così, ma non saprei bene cosa pensare.
Le cose stanno veramente così, questa è la giusta interpretazione dei fatti? Me lo chiedo e non ne sono così sicuro dopo tutto; non so effettivamente come interpretare quel rapido segno, quella specie di ammiccamento – di geertziana memoria – durato un’infinitesimale frazione di secondo. Stavo antipatico al ragazzo del bar? Poteva, l’antipatia, essere una ragione per disattendere la mia attesa? Sono perplesso e non so che pesci prendere. Poteva pure essere – quello suo, al contrario – un segno di complicità nei miei confronti: quasi a volersi scusare con me di essersi sbagliato per aver servito l’altro cliente. Non sono più sicuro di niente a questo punto: preso tra una interpretazione e l’altra, oscillo da un sentimento all’altro. Qualcosa è comunque scattato autonomamente in me, al di là delle mie inferenze d’ordine cognitivo: a pelle, il garzone non mi è più così simpatico, per niente simpatico; forse, non mi è mai stato simpatico. E mi chiedo: che relazioni si sono intrecciate nella mia testa in questi pochi minuti mentre mi trovavo al banco del bar per una bottiglietta d’acqua? Cosa è scattato che mi ha portato a questo stadio, cosa mi ha portato all’incertezza dell’attendere senza reclamare punto? Una ipotesi comincia a farsi strada: lentamente, con comodo, dal profondo.
Il ragazzo del bar mi ricordava i tempi andati in cui lavoravo in una pizzeria di New York, tempi in cui dovevo pensare rapidamente, dovevo accordare le mie azioni con i miei pensieri senza stare a riflettere più di tanto sul da farsi, soprattutto durante le ore di punta, quando le frotte di clienti si precipitavano dentro il locale, lo riempivano e volevano tutti grande attenzione da parte mia, volevano tutti quanti essere presi in debita considerazione: in quei frangenti, io dovevo intuire prima ancora di sentire cosa dicevano i clienti, dovevo capire ed essere gentile, dovevo tagliare quelle enormi pizze rotonde in un sol colpo, dovevo prendere poi una fetta, poggiarla sul bancone e correre in fretta alla cassa per dare il resto al cliente. Si badi bene: non sono quelle casse moderne di oggi, elettroniche o giù di lì, che fanno tutto loro! All’epoca, io dovevo fare i conti a mente, in inglese, senza sbagliarmi e tirare fuori le banconote sollevando una sorta di molletta che le teneva ammucchiate giù, insieme, tutte quante nella cassa automatica. Non era per niente facile: risultava un’operazione manuale e cognitiva davvero complessa. E, così, con questo andazzo frenetico, si può immaginare quanto ne siano successe di cose bizzarre a New York, in quella pizzeria. Per esempio, una delle prime volte che lavoravo lì, a Manhattan, un cliente mi chiese del formaggio grattato con quel tipico accento new-yorchese che fa scivolare la punta della lingua sul palato senza tuttavia toccarlo, trasformando il suono della /t/ in una sorta di erre liquida, non facilmente percepibile per un italiano come me, abituato all’accento britannico. «Can I have some grated cheese?», mi disse il cliente quella volta, quando ancora il mio inglese non seguiva a ruota i miei desideri linguistici. Io lo guardai in faccia senza sapere cosa fare, finché presi la boccetta del sale e gliela porsi, giusto per fare qualcosa, per togliermi d’impiccio e sperare, comunque, che il cliente volesse proprio quello. L’altro garzone della pizzeria, nativo del luogo, capita l’antifona, aveva subito passato al cliente del formaggio grattugiato, strizzandogli l’occhio, facendo pure una battutina simpatica per sdrammatizzare. E io improvvisamente capii, collegando il formaggio al suono, capii cosa voleva il cliente. Per un secondo, ci siamo guardati tutt’e tre in faccia – il cliente e noi due garzoni di bottega – e siamo poi scoppiati a ridere senza più finire. Dopo, nel tempo, siamo diventati amici, io e l’altro garzone; quando uscivamo con le ragazze, la sera, dicevamo quella che era diventata una battuta per noi – ‘formaggio grattugiato, per favore’ – e scoppiavamo a ridere, apparentemente senza ragione, con grande imbarazzo per chi era con noi e non capiva a cosa alludessimo. Era diventata una specie di barzelletta, un gesto d’intesa che sfociava in ilarità senza limiti. Le ragazze, ovviamente, ci guardavano e rimanevano di stucco. E noi, a maggior ragione, ci sganasciavamo dalle risate.
Ora, mi chiedo come sia possibile che questa storia, seppellita nei meandri della mia mente, sia venuta a galla, dopo anni, giusto in un bar di Palermo, mentre aspettavo che un garzone mi desse una bottiglietta d’acqua. Vai a capire i misteri della psiche, vai a capire che succede nella testa delle persone! Per tutta risposta, istintivamente, mi attraversa la mente l’idea di Lévi-Strauss secondo cui i miti, oltre a rappresentare un vero e proprio dialogo di sistemi di opposizioni e similitudini tra loro, sono un’esperienza estetica per chi li analizza, un’esperienza che necessita una lunga sedimentazione: un’esperienza
«estetica tanto più eccitante in quanto i miti inizialmente si presentano come dei rebus. Raccontano storie senza capo né coda, piene di episodi assurdi. Si deve mettere il mito in incubazione per giorni, per settimane, talvolta per mesi, prima che scocchi improvvisamente la scintilla e che in quel certo dettaglio inspiegabile di un mito si riconosca trasformato quel certo dettaglio inspiegabile di un altro mito» (Lévi-Strauss 1988: 186).
Mi chiedo se la vita stessa di un individuo non possa essere vista, anch’essa, come una sorta di narrazione mitica in evoluzione, all’interno della quale il singolo dettaglio si renda intellegibile, nel tempo, nella comparazione, grazie al rapporto differenziale che si instaura tra quelli che singolarmente non sarebbero altro che dettagli isolati, privi di senso. Chissà! Sono forse blasfemo? Non me ne vogliano i puristi dello strutturalismo, ma credo che una parte delle ricerche di Lévi-Strauss spinga a crederlo. Ne riparliamo in altri luoghi, con più spazio, senza il disagio dell’attesa. Un fatto è certo: dopo aver aspettato al banco, dopo aver ingannato il tempo ripensando alla possibilità di un bricolage lévi-straussiano riguardo a ciò che mi stava succedendo, ho chiesto la bottiglia d’acqua al garzone con maggiore decisione, spazientito, motivato. Questa volta è andata bene: è andata bene ma non ho potuto fare a meno di pensare a Pierre Bourdieu. Non ha tutti i torti – mi sono infatti detto – Bourdieu: «L’attesa è uno dei modi privilegiati di subire il potere» (Bourdieu 1998: 239).
Sembrerà strano, di primo acchito, ma subiamo il potere attraverso l’attesa; attraverso l’attesa ci imponiamo agli altri. In che modo? Semplicemente disponendo del tempo altrui come a noi meglio aggrada. Quel che è peggio è che la disposizione del tempo altrui si fa inoltre in modi asimmetrici. Immagino infatti, ripensandoci, che la storia di questo garzone di bar vada in questo senso: passa tutto il giorno a ‘prestare attenzione’ a clienti che sbuffano, al proprietario che lo bistratta, a pensare alle cose che non può fare nella sua esistenza perché non ha una paga sufficiente. Immagino male? Lui è un poveraccio, malpagato, strapazzato dal suo capo, con un carico giornaliero di lavoro eccessivo, alle prese con clienti talvolta maleducati? Immagino di sì, spererei di no, non ho certezze. Per quanto riguarda l’attesa in sé, invece, ho qualche certezza in più. Il valore semiotico dell’attesa dipende dalla situazione in cui si è proiettati e, proprio per questo, non sempre è noiosa o puro esercizio di potere. In attesa dell’innamorato, per esempio, l’attesa può trasformarsi in una magia avvincente, necessaria, persino angosciosa o tumultuosa. Scrive Barthes, a questo riguardo: «L’attesa è un incantesimo» (Barthes 1979: 41). Resta il fatto – nel bene e nel male, nell’ipotesi di Bourdieu o di Barthes – che l’attesa è una molla fondamentale della nostra vita: una molla esistenziale che dovrebbe essere maggiormente studiata, sia nel quotidiano casalingo sia nell’esotico meno usuale, sia a casa propria sia in movimenti diasporici. Basti pensare, oggigiorno, alle attese – ben più esistenziali, talvolta purtroppo mortali – dei migranti che scombussolano la dicotomia ricevuta di esotico/nostrano. E non solo. Se si pensa alle attese interminabili dei migranti, non si può non pensare alla questione delle frontiere (al loro attraversamento o impedimento), alla nozione, forse obsoleta, di ‘Stato’ e ai flussi della globalizzazione e alla diversità di movimenti consentiti alle persone agiate o povere: la libertà di fluire nel mondo è possibile per coloro i quali sono in condizioni economiche di fruirne a esclusione d’altri, gli svantaggiati del mondo, che ne sono esclusi (Khosravi 2010).
Khosravi non ha tutti i torti, nel suo racconto autobiografico, a porre insieme la questione delle frontiere e della migrazione in quanto nozioni e pratiche esperite direttamente. Da parte mia, in chiave intimista, io ho voluto mostrare che l’attesa è un meccanismo fondamentale della vita di tutti i giorni, nei diversi contesti della vita quotidiana, anche in quelli in apparenza più superficiali. Me ne sono servito, dell’attesa, per cercare di «afferrare i punti di inserzione, i modi di funzionamento e le dipendenze del soggetto», me stesso, tra altri soggetti e spazi consentiti dal reale e dall’immaginario (Foucault 1971a: 20). E ci sarebbe tanto da dire a riguardo, sulla soggettività e l’immaginario, ma non lo farò qui. Vorrei invece scivolare dolcemente su altro. Vorrei dire che il mio tentativo di analisi non voleva essere un discorso ‘in teoria’ o una miscela ben composta di autori diversi, ma una ‘pratica di campo’ – al botteghino di un museo, al banco di un bar, al cospetto di un posteggiatore – agentiva e cognitiva: una pratica, dunque, che mi ha consentito di riproporre autori di provenienza diversa in un bricolage che riformula tratti della mia stessa esperienza vissuta, quale è per l’appunto l’attesa nel quotidiano. L’attesa, più in generale, porta con sé un senso di transitorietà e caducità dovuto al fatto che le nostre società sono spesso improntate a una esistenza – un senso consumistico dell’esistenza – in continua ricerca di scopi da prefiggersi e compiti da realizzare.
Ma è anche più vero che l’attesa diviene talvolta un meccanismo di controllo dell’alterità che nulla ha a che vedere con il consumismo o il mero senso di realizzazione di frenetici obiettivi: è pura coercizione esercitata sui poveri e i vulnerabili. Da una parte, si dovrebbe allora potere essere liberi di spostarsi senza costrizioni e questo dovrebbe valere per tutti, non soltanto per alcuni; dall’altra, è pur vero che la libertà di spostarsi come meglio si crede dovrebbe essere cosciente e non imitazione di sterili modelli culturali fondati sul senso del vivere visto come un ‘andare sterilmente da qualche parte’, meccanicamente equiparato al benessere.
In questa prospettiva, complessa e ‘politica’, gli antropologi hanno il dovere di concentrarsi maggiormente sui vari modi di attribuire senso all’esistere, nonché sulle vulnerabilità che ne derivano e sulle politiche che l’accompagnano o ingabbiano. Malattie, povertà, sofferenze e migrazione rendono gli individui vulnerabili. Gli antropologi dovrebbero allora studiare i modi attraverso cui queste vulnerabilità possono essere smussate e superate. Non è ovviamente semplice. Come scrive Behar: «Writing vulnerability takes as much skill, nuance, and willingness to follow through on all the ramifications of a complicated idea as does writing invulnerably and distantly» (Behar 1996: 13). È, questa, ragione sufficiente per arrendersi o dichiararsi spavaldamente invulnerabili? Io sono antropologo, io sono vulnerabile. Voglio però rispondere, più appropriatamente, con una storia zen che è anche utile per spiegare, in forma dialogica, il mio modo di affrontare l’attesa (e le sue quotidiane asimmetrie) come forma di attuazione, più che come comprensione esclusivamente teorica:
«Una volta uno studente domandò a Joshu, maestro zen: ‘Se nella mia mente non c’è nulla, che cosa devo fare?’
Joshu rispose: ‘Buttalo via’
‘Ma se non c’è nulla, come faccio a buttarlo via?’ insistette l’allievo.
‘Be’’, disse Joshu, ‘allora attualo’» (Senzaki 1973: 55).
Di fatto, proprio come nella storiella zen, l’attesa è una sorta di nulla, di vuoto teorico per molti. Secondo me, però, ci si può sbarazzare di questa idea osservando, nella pratica, come funziona e come ci fa agire. L’attesa risulta essere, in definitiva, utile strumento di analisi riflessiva e transitiva perché mette bene in risalto un principio: cioè che «the personal and the professional are never separate because we are always interacting with others and learning from others» (Stoller 2014: 141).