di Nino Giaramidaro
Spuntava sotto il sole rialzatosi da poco, a qualche grado verso sud. Ogni mattina. E io correvo alla finestra più bendisposta, e mi dovevo sollevare sulle punte per vederlo. Il treno, lungo di vagoni senza finestrini. Quel fischio prolungato, quasi affranto, mi sembrava destinato proprio a me, perché non perdessi lo spettacolo del pennacchio grigio scuro che andava acquistando chiarore mentre si alzava nel cielo.
Lo vedevo correre lungo un orizzonte ininterrotto; soltanto il campanile della chiesa di Santa Maria del Gesù per un attimo nascondeva la macchina nera e gli stantuffi che brillavano giocando con quel sole che sembrava la accompagnasse.
Il pennacchio si allargava sempre più e andava ad abbracciarsi con il piccolo fumo delle tre ciminiere corte delle fornaci, lassù nella via Marsala, dove facevano i mattoni e le tegole di creta, e anche i salvadanai per i bambini.
Poi il treno scompariva oltre Miragliano, gettando le ultime grida prima del passaggio a livello sul Mazaro, conosciuto soltanto da contadini e pecorai. Restavo un po’ a guardare tutto quel verde di diverso colore: gli alberi più scuri, il chiaro degli orti, qualche poligono di erba bassa, e lunghi filari orizzontali di olivi quasi grigi e scintillanti.
Per anni non ci feci più caso. Sentivo il fischio, ed ero come rassicurato per l’inizio della giornata. Mentre mi preparavo per la scuola, immaginavo il treno, il pennacchio, gli stantuffi fumosi, e la distesa dei verdi.
Un giorno, forse ero tornato da soldato, mi affacciai alla finestra per rinnovare l’appuntamento con il treno, ma lo vedevo a tratti: bianche e alte case lo nascondevano: edifici e vagoni, altri edifici e altri pezzi di treno; e tutto il verde era interrotto da muri, trazzere nuove, pochissime linee di olivi, non c’era più il carrubo alto e sbilenco e nemmeno i due, forse tre, pini con le chiome decentrate. Io credevo che questo accadesse per la prima volta. Una mutazione ordita contro di me. Pochi anni ancora e il treno non si vide più. Testimoniavano il suo passaggio clandestino il fumo e quei fischi che mi parevano oramai disperati.
Un treno invisibile, come le città di Calvino che contengono righe terribili: «Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova il suo passato che non sapeva più di avere: l’estraneità di ciò che non sei più o che non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti». Noi si vive in città vecchie, dove il passato è imprigionato nelle pietre, immemori, ammutolite da un futurismo orfano.
Nella sua malinconia, a tratti avvampata di ironia, Gesualdo Bufalino sosteneva: «Ritengo che l’uomo sia nessuno senza memoria. Credo di essere un collezionista di ricordi, un seduttore di spettri». E lo scettico Montanelli: «Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente».
Sì, il diritto al passato. Bisogna difenderlo questo bene anche materiale che fa parte di noi, pure se non ricordiamo – ogni giorno di più – di averlo in custodia. Non ci pensiamo in quegli esigui spazi di tempo che ci restano dalla quotidianità. Ed è sempre più difficile convincerci che l’oro non ha preso il posto della Stella polare, e nemmeno della Croce del sud. A queste costellazioni restano appese le nostre strade, dovunque vogliamo andare nel frusciare dell’oscurità che cancella i saperi, il sentire e l’essere. Dalla televisione una donna accorata parla sgomenta della scomparsa dell’educazione dei sentimenti, delle emozioni, del rispetto per gli altri. Quanta altra parte di noi si è arresa al buio?
Sentivo il piccone, mazze, vocio di manovali mentre risalivo il corso Vittorio Veneto, a Mazara, per andare a casa del mio padrino, all’imbocco del corso Umberto I. Erano in piazza Matteotti – già piazza Umberto I – tutti intorno alla fontana con puttone – mi dissero che si chiamava pupuliano – il quale soffiava dentro una grande conchiglia. Dovevano toglierla perché in quella relativamente nuova piazza il progresso voleva vi si costruisse una stazione degli autobus. Avevo poco più di tredici anni, ma lo stesso pensai: non potevano farla in un altro posto, dove non c’era nulla da demolire?
Un interrogativo che durante gli anni è diventato retorico. A volte, nei tempi morti della mente, rivedo le squadre di distruttori, e l’interrogativo – inutile, di impossibile risposta, rimbalzo dell’ignavia burocratica e del politicume tronfio e analfabeta – mi si ripresenta. E io chiedo alla notte un oblìo dolce, magari pensando a quell’uomo piccolo che svolazzava sulla terrazza dell’Alhambra, portando ai tavoli le pietanze del Miramare. Oppure alla misteriosa grazia con la quale il signor Masaracchio preparava il tamarindo pomeridiano alla signore nella sua piccola mescita fra piazza Santa Veneranda e la via Itria.
Gli anni Cinquanta, e la città somigliava ancora a quella che Filippo Napoli, nel declino degli anni Venti, descrive nella sua Guida storico-artistica di Mazara. Un centro storico smurato da una sessantina d’anni, con un groviglio di viuzze e undici piazze alle quali, lungo il “confine” con la città fuori le mura, da sud verso nord, se ne erano aggiunte altre cinque: Mokarta, Stazione, Umberto (già Torre bianca e poi Matteotti), Palermo e Regina.
Questo libretto di 94 pagine contiene un pezzo di memoria cittadina, quasi liofilizzata perché lo storico si rivolgeva ai suoi contemporanei, a coloro i quali possedevano luoghi, industrie, aziende, pubblici locali e botteghe. Non avevano alcun bisogno che Napoli dicesse qualcosa d’altro oltre il nome del cinema Scilla di via Madonna del Paradiso, oppure dell’arena Miramare in piazza Mokarta. Pure il nome si è perduto di questi due locali della città nuova.
Invece, del cine teatro Mannina io ricordo persino il colore dei portoni delle uscite di sicurezza in piazza Chinea: ultimi anni Quaranta e primi Cinquanta, l’ingresso da via Ospedale, le luci fioche e le pareti di un colore modificato da anni di mancate bonifiche, le sedie di ferro spesso contorte, la pellicola che si rompeva proprio mentre Tom Mix stava acciuffando il bandito, oppure nell’istante in cui Randolph Scott prendeva la mira con il suo Winchester. Vi ho visto pure un Tarzan con Johnny Weissmuller e un altro film che, a un certo punto, spinse mio fratello Giovanni (10 anni più di me) a mettermi il cappello davanti agli occhi per non farmi vedere scene da lui giudicate non adatte ai miei dieci anni. Tarzan, eroe buono e americano. Divenne celebre, soprattutto fra i ragazzini che in ogni luogo si esibivano nel suo famoso urlo.
Non c’è più traccia del bel cinematografo che già alla fine degli anni Quaranta aveva i peggiori spettatori. Dalla memoria salvata spunta un evento: mai accaduto che i carrettieri facessero uno sciopero così plateale e partecipato. Nei primissimi anni Sessanta si fermarono tutti e condussero i loro carretti con muli e mule nel piazzale di fronte alla dogana e dietro il palazzo dei Cavalieri di Malta (lu purteddu): una cinquantina, con le aste alzate che intralciavano i binari della “paparella”, la corta locomotiva della spola fra il molo e la stazione, spingendo vagoni di pesce che lasciavano una scia di ghiaccio fuso e di un afrore che solo lo scirocco sapeva disperdere.
Si accalcavano al portello biciclette e pedoni della città ferma per vedere carretti, uomini e bestie. Il trio dei trasporti di ogni sorta di merci: dai tufi dell’edilizia alle uve della vendemmia, al mobilio dei traslochi, e tutto l’altro che arrivava sui treni. Moto Ape e Leoncino apparivano ancora timidi sulle strade, anche perché costavano come tanti carretti. E i pochi carrettieri che cercavano di conquistare la patente, sulla loro strada trovavano una lampadina rossa che li fermava: “Che segnale è”, chiedeva l’ingegnere. “Putìa di vinu”, era la pronta risposta.
Una città priva di fontane non è che faccia immaginare una grande storia. Probabilmente a Mazara c’erano, magari all’osso come la colonnina col rubinetto di piazza Chinea, ma sono state demolite dal progresso, lo stesso che condusse alla distruzione del castello normanno i lungimiranti del 1880. Non vi erano riusciti i pirati, e tutti gli altri secolari nemici. Rasi al suolo il palazzetto comunale, la centrale elettrica tardo liberty di via Pacinotti, tanti bagli delle vicine campagne sui cui rilievi oggi vigilano guardiani del progresso tanti nuovi e inutili Golgota tricrociati.
Viaggio in Tunisia e Algeria nel ’73. Un signore nella hall di un alberghetto su una parallela al boulevard de Bourghiba di Tunisi parla italiano, si ricorda dei tanti siciliani del quartiere Piccola Sicilia, degli ebrei in un rione quasi limitrofo. Ormai pochi sia gli uni sia gli altri, “ma ci sono ancora”. Si offre di accompagnarci a Sidi Bou Said. Non è una guida ma un professore, gli piace essere gentile con i visitatori e far loro vedere le cose belle. Prendiamo il trenino.
Sulla 127 rossa il viaggio continua. A Biscra eravamo stati ospitati dal gestore di una pompa di benzina, ex proprietario di giardini che vestiva alla turca. Dormiamo e pranziamo a casa sua. Cuscus con le forchette. Ci salutiamo con una sensazione di rimpianto. Con sole già arrossato, giungiamo a Bou Saada. Acqua salata da bere e non ghiacciata. Il giovane del bar parla con noi in francese. Ci chiede della Sicilia, di Palermo, di cosa facciano i giovani come lui. Quando si fa sera, è come se fossimo amici da tempo, e lui trova giusto invitarci alla festa di matrimonio della sua cugina più grande.
Una serata bellissima, a base di musica, danze e dolciumi dolcissimi al miele. Ad un certo punto una frotta di donne viene a rapire mia moglie per portarla nel perimetro femminile della casa. Mi sento a mio agio persino quando il nugolo di ragazze rapisce anche me per farmi vedere la sposa, cosa negata ai parenti e soprattutto allo sposo che continua a ricevere doni e soldi da prendere dalle labbra dei donatori.
Questo mio passato non dimenticato – vissuto al di là e al di qua del Mazaro e anche sull’altra sponda del Mediterraneo – mi suggerisce ogni giorno che dall’altra parte del mare non ho mai avuto nemici e che forse un giorno potrò ripercorrere quella rotta di sabbia che mi sorrideva. «L’avvenire è fatto di passato», voglio essere d’accordo con Anatole France.
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.
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