di Elio Rindone
La Bibbia: un testo che, nel corso dei secoli, ha aiutato i credenti a vivere meglio la propria vita e a creare società organizzate con maggiore giustizia? Sì e no! Essa contiene infatti, a mio parere, grandi insegnamenti, che ancora oggi conservano tutta la loro validità, ma porta anche il peso di condizionamenti culturali di epoche passate, le cui conseguenze possono essere disastrose. Se i testi biblici, quindi, vengono interpretati con metodo storico-critico, è possibile trovare in essi un messaggio di grande attualità; se, invece, ogni pagina viene presa alla lettera come parola divina, come è accaduto nell’Europa cristiana negli ultimi due millenni, accanto agli effetti positivi, comunemente e giustamente riconosciuti, possono essercene alcuni molto negativi.
In questo articolo mi propongo di portare qualche esempio di questi ultimi, accennando brevemente a questioni come la schiavitù o la sessualità, e soffermandomi più a lungo, invece, sull’atteggiamento cristiano nei confronti degli ebrei.
Che la schiavitù caratterizzasse le diverse civiltà antiche, è un fatto scontato, e quindi niente di strano che fosse presente anche nella società ebraica. Ma se essa venisse approvata da un testo sacro, non sarebbe più difficile liberarsene? È proprio ciò che è accaduto per secoli nell’Europa cristiana.
Nella Genesi, per esempio, si legge che Noè maledice Cam, e suo figlio Canaan: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!». E aggiunse: «Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet ed egli dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!» (9, 25-27).
Lo schiavo è considerato proprietà del padrone, tanto che, «Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è suo denaro» (Esodo 21, 20-21).
Ci sono, però, trattamenti differenziati: un ebreo può rendersi schiavo di un correligionario, ma non deve essere trattato con durezza, non può essere venduto e va liberato dopo sei anni di servizio. Diverso, invece, il caso dello straniero: «Quanto allo schiavo e alla schiava che avrai in proprietà, potrete prenderli dalle nazioni che vi circondano; da queste potrete comprare lo schiavo e la schiava» (Levitico 25, 44).
I nemici, poi, se non sono stati sterminati, vanno ridotti in schiavitù: «Quanti rimanevano degli Amorrei, degli Ittiti, dei Perizziti, degli Evei e dei Gebusei, che non erano Israeliti, e cioè i loro discendenti rimasti dopo di loro nella terra, coloro che gli Israeliti non avevano potuto votare allo sterminio, Salomone li arruolò per il lavoro coatto da schiavi, come è ancora oggi» (1 Re, 9, 20-21).
Nel Nuovo Testamento sembra che la situazione sia cambiata, dal momento che Paolo scrive: «noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi» (1 Corinzi 12, 13). Ma si tratta di un’uguaglianza religiosa, che in realtà non implica affatto l’abolizione della schiavitù. Infatti nella lettera agli Efesini, per esempio, si legge: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore […], prestando servizio volentieri, come chi serve il Signore e non gli uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo che libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene» (6, 5.7-8). E nella lettera a Tito si chiede agli schiavi di «essere sottomessi ai loro padroni in tutto; li accontentino e non li contraddicano, non rubino, ma dimostrino fedeltà assoluta, per fare onore in tutto alla dottrina di Dio, nostro salvatore» (2, 9-10).
A questi testi, ovviamente, si ispirano teologi come sant’Agostino (354-430), che giustifica la schiavitù come conseguenza del peccato originale:
«a buon diritto la condizione servile è stata imposta all’uomo peccatore. Perciò in nessun testo della Bibbia leggiamo il termine “schiavo” prima che il giusto Noè tacciasse con questo titolo il peccato del figlio […]. Dunque prima causa della schiavitù è il peccato per cui l’uomo viene sottomesso all’uomo con un legame di soggezione, ma questo non avviene senza il giudizio di Dio, nel quale non v’è ingiustizia ed egli sa distribuire pene diverse alle colpe di coloro che le commettono. […] Perciò l’Apostolo consiglia anche che gli schiavi siano sottomessi ai loro padroni e che prestino loro servizio in coscienza con buona volontà» (De civitate dei, XIX: 15).
Secoli dopo, pure san Tommaso (1224-1274) ritiene che la schiavitù sia un castigo del peccato originale, e che perciò lo schiavo «non possa disporre liberamente della propria persona: infatti il servo per tutto ciò che è, è del padrone» (Somma Teologica, II-II q. 189 a. 6 ad 2). E non solo i teologi. Anche se non sono mancate eccezioni – come quella di Pio II (1458-1464), che nel 1462, in una Lettera a un vescovo, considerando la schiavitù un vero “crimine”, condanna le «atrocità commesse contro i popoli della Guinea» – il magistero pontificio ha in genere giustificato nel ‘400, con interventi ovviamente ben accolti e messi in pratica dai governanti, le guerre di conquista di terre che, essendo abitate da selvaggi, potevano essere considerate, dal punto di vista giuridico, res nullius. Nel 1452, per esempio, con la Bolla Dum Diversas il papa Niccolò V (1447-1455), benediceva, al fine di diffondere la vera fede, l’esplorazione e la conquista portoghese nelle coste africane dell’Atlantico: «Con la nostra autorità apostolica e con il consenso dei presenti concediamo» a te e ai re del Portogallo tuoi successori, la facoltà di «invadere, conquistare, espugnare e soggiogare i Saraceni, i pagani e gli altri infedeli, e ogni nemico di Cristo», e di «ridurre in perpetua schiavitù le loro persone».
Il continente africano fu quello che subì le più dolorose conseguenze di una prassi comune tra le potenze che si rifacevano al Vangelo (prassi condivisa da quelle musulmane, di cui qui non ci occupiamo): secondo calcoli affidabili, circa dodici milioni di uomini furono ridotti in schiavitù. La tratta dei neri, infatti, continuò a diffondersi nei secoli seguenti, e in questa lucrosa attività ebbero tutte un ruolo di primo piano, senza distinzione alcuna, nazioni delle diverse confessioni cristiane: Portogallo, Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda.
Per quanto riguarda i cattolici, è un peccato che, delle numerose dichiarazioni dei suoi predecessori, Leone XIII (1878-1903) ricordasse solo quelle che condannavano la schiavitù. In una sua enciclica, infatti, il papa si vantava del fatto che si è arrivati «all’abolizione della schiavitù, antica vergogna delle genti pagane, soprattutto per opera ed interessamento della Chiesa» (Libertas, 1888). Giovanni Paolo II (1978-2005), nel corso del suo viaggio apostolico nell’isola degli schiavi a Gorée, in Senegal, riconoscerà invece la gravità di questa storia di schiavitù: «È un dramma della civiltà che si diceva cristiana. […] Sono venuto per rendere omaggio a tutte le vittime sconosciute. Non si sa esattamente quante sono state» (Visita alla Maison des esclaves, 1992). Forse sarebbe stato però opportuno ricordare che questa immane tragedia trovava giustificazioni anche nella Bibbia e nel Magistero!
Passando al tema della sessualità, erano diffuse nell’antichità (vedi M. Foucault, Histoire de la sexualité. L’usage des plaisirs, Paris 1984), e quindi anche nella società ebraica, idee come quella dell’inferiorità della donna o dei rischi di un desiderio sessuale che sfugge al controllo della ragione. Ma, anche in questo caso, la situazione peggiora se approvata da un libro sacro.
La morale cristiana, dimenticando testi, che pure fanno parte della Bibbia, come il Cantico dei Cantici, nel corso dei secoli è stata in effetti influenzata, più che dal messaggio del Vangelo, dall’epistolario paolino. Qui si pone l’accento sul fatto che è la donna che, cedendo alla tentazione, disobbedisce ai comandi divini: «non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre» (1 Timòteo, 2, 14). Perciò Paolo, premesso che «è cosa buona per l’uomo non toccare donna» (1 Corinzi, 7, 1), esorta i Corinzi a vivere, come lui, liberi dal vincolo matrimoniale, e consiglia loro di sposarsi solo se non riescono a controllare i propri desideri sessuali: «Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare» (1 Corinzi, 7, 8-9). E pare che il compito primario della donna, che deve vivere «in piena sottomissione» (1 Timòteo, 2, 11) nei confronti dell’uomo, sia quello di procreare: «Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza» (1 Timòteo, 2, 15).
Proprio a Paolo si rifà Agostino per affermare che, dopo il peccato originale, il rapporto sessuale, anche tra gli sposi, non è esente da una peccaminosa concupiscenza. Anzi, il peccato di Adamo si trasmette a tutti i suoi discendenti proprio attraverso la generazione. A riprova di ciò, Agostino – citando Romani «come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte» (5, 12) – afferma: Paolo «ha detto: A causa di un solo uomo, dal quale certo ebbe inizio la generazione degli uomini, proprio per insegnare che il peccato originale si è trasmesso a tutti gli uomini per mezzo della generazione» (De nuptiis et concupiscentia, II, 27, 45). Il desiderio sessuale ormai non è separabile dalla concupiscenza, e solo in quanto orientato alla procreazione «il legame coniugale trasforma in bene il male della concupiscenza» (De bono coniugali 1, III, 3).
E san Girolamo (347-420) è ancora più radicale, poiché svaluta persino il matrimonio e invita ad astenersi totalmente dalla vita sessuale: «prendiamo la scure e tagliamo le radici dell’albero sterile del matrimonio. Dio aveva permesso il matrimonio agli inizi del mondo. Ma Gesù Cristo e Maria hanno consacrato la verginità» (Lettera 22 a Eustochio).
Simili idee hanno, ovviamente, influenzato tutta la morale medioevale. Nel XII secolo, per esempio, i testi di spiritualità non esitano a mettere in rilievo il pericolo costituito dall’attaccamento ai beni terreni, e in particolare ai piaceri sessuali, inseparabili dal peccato anche nell’ambito del matrimonio. Il cardinale Lotario dei conti di Segni (1161-1216), divenuto nel 1198 papa Innocenzo III, non dubita che «il coito, anche se coniugale, non può mai verificarsi senza il prurito della carne, senza l’ardore della libidine e senza il fetore della lussuria. Per questo i semi concepiti insozzano, si macchiano, si corrompono, onde l’anima in questi infusa, contrae la tabe del peccato, la macchia delle colpe, la sozzura dell’iniquità» (De contemptu mundi 1, III).
Pure secondo san Tommaso non è più possibile, dopo il peccato originale, padroneggiare il desiderio sessuale, sicché l’uomo «durante il coito diventa una bestia, perché non può moderare con la ragione il piacere del coito e il fervore della concupiscenza» (Somma Teologica, I, 98, 2 ad 3m). Tra gli sposi il rapporto sessuale, giustificato dalla procreazione dei figli, non è peccato mortale, ma veniale: è pur sempre, però, qualcosa di vergognoso (aliquid turpe), a causa della «sconcezza della concupiscenza, quale si trova nel coito nello stato attuale» (I, 98, 2). E poiché il desiderio sessuale anche negli uomini più santi implica, per il prevalere della passione, un certo disordine, l’Aquinate condivide l’opinione di Agostino, secondo la quale «nel matrimonio di Maria e di Giuseppe mancò soltanto l’atto coniugale, perché non avrebbe potuto compiersi senza una certa concupiscenza carnale derivante dal peccato» (Somma Teologica, III, 28, 1).
Ovviamente la società medievale non rinunciava ai godimenti sessuali, e basta leggere il Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375) per rendersi conto di quanto la vita reale fosse lontana dagli insegnamenti dei moralisti, non solo tra i laici ma anche tra i membri del clero. Del resto, quello della sessualità è un campo in cui il Magistero non è intervenuto spesso: è bene, per esempio, chiarire, come ricorda Jacques Le Goff, che il matrimonio è diventato un sacramento, con regole poste dall’autorità ecclesiastica, solo nel 1215, ad opera del IV Concilio Lateranense.
Non si può sottovalutare, invece, il ruolo dei maestri di teologia morale, che hanno plasmato per secoli il sentire comune. Basti pensare, tra l’altro, alla condanna dell’omosessualità come peccato contro natura, da punire con la pena di morte. Solo nel 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità cancellerà l’omosessualità dalle malattie mentali, definendola «una variante naturale del comportamento umano», mentre ancora nel Settecento, approvando una prassi plurisecolare, che comprendeva persino la condanna al rogo, un grande moralista come sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), ispirandosi alla Bibbia e alla tradizione della patristica e della scolastica, chiedeva che i sodomiti, se laici, «fossero condannati a morte e alla combustione del cadavere» (Pratica del Confessore per ben esercitare il suo Ministero, 1771).
Nemmeno la rivoluzione dei costumi seguita al ‘68 indurrà le autorità ecclesiastiche a rivedere la dottrina tradizionale. Nel 1975 Paolo VI (1963-1978) approverà anzi la dichiarazione Persona Humana, della Congregazione per la Dottrina della Fede, che condanna: i rapporti prematrimoniali, che contrastano «con la dottrina cristiana, secondo la quale ogni atto genitale umano deve svolgersi nel quadro del matrimonio»; gli atti omosessuali, che «sono intrinsecamente disordinati e che, in nessun caso, possono ricevere una qualche approvazione»; la diffusione della masturbazione, che è causata dalla «depravazione dei costumi”. Esaltata, invece, è la castità, che “è compresa in quella continenza che Paolo annovera tra i doni dello Spirito santo».
Anche a prescindere dalle terribili sofferenze inflitte agli omosessuali, sarebbe difficile negare che, nel corso dei secoli, tanti uomini e donne, che hanno preso sul serio gli insegnamenti ecclesiastici, hanno sacrificato una componente così rilevante della propria umanità, o si sono trovati nella condizione psicologica di non poter vivere serenamente la propria sessualità: senso di colpa, repressione dei desideri sessuali, difficoltà di stabilire relazioni intime soddisfacenti, vergogna per pensieri o turbamenti sentiti come peccaminosi…
È evidente che, se oggi la Chiesa cattolica comincia a mutare le sue posizioni sulla sessualità, ci si può solo rallegrare di ciò. Ma sarebbe corretto riconoscere le conseguenze dannose dell’insegnamento tradizionale, evitando affermazioni poco credibili come quelle di Giovanni Paolo II: «Mentre per la mentalità manichea il corpo e la sessualità costituiscono, per così dire, un anti-valore, per il cristianesimo, invece, essi rimangono sempre un valore non abbastanza apprezzato» (Udienza Generale, 22/10/1980).
Per quanto riguarda, infine, l’atteggiamento cristiano nei confronti degli ebrei, occorre anzitutto chiarire il significato di tre termini, talvolta usati con una certa approssimazione. Con ‘antigiudaismo’ si intende l’avversione cristiana nei confronti della religione ebraica e del popolo che rimane ad essa legato. Con ‘antisemitismo’ si intende l’odio per gli ebrei determinato da motivi razziali. Con ‘antisionismo’ si intende l’opposizione al progetto ebraico di costituzione in Palestina dello Stato di Israele.
Posto che le differenti motivazioni non sono radicalmente separate, e anzi spesso si influenzano a vicenda, coinvolgendo anche ragioni di carattere economico e sociale, preciso subito, per evitare equivoci, che qui mi occupo solo dell’antigiudaismo cristiano (e non di quello musulmano).
Un antigiudaismo che innegabilmente trova fondamento in passi neotestamentari, presi per secoli alla lettera come testi storici. Stando al racconto di Matteo, per esempio, Gesù, per essere giudicato, è condotto di fronte a Pilato che, non trovando ragioni per condannarlo, «prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi! E tutto il popolo rispose: Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (27, 24-25). È, questo, un versetto che ha avuto conseguenze storiche di enorme portata: esso è stato letto come un’auto maledizione con la quale gli ebrei, chiedendo di crocifiggere Gesù, attirarono su di sé e sui propri discendenti un vero e proprio fiume di sangue.
Nel vangelo di Giovanni, poi, a Gesù che polemizza con alcuni farisei vengono attribuite queste parole: «Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità» (8, 44). Ma già Paolo, nella 1 Tessalonicesi, una ventina di anni dopo la crocifissione di Gesù, affermava che i Giudei «hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi, non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini. Essi impediscono a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano sempre di più la misura dei loro peccati! Ma su di loro l’ira è giunta al colmo» (2, 15-16). Gli ebrei, dunque, si sono allontanati dalla verità, hanno come ‘padre il diavolo’ e hanno commesso la colpa più grave: per secoli saranno, infatti, accusati di deicidio.
Questi passi, come era prevedibile, hanno influenzato i Padri della Chiesa come Agostino, che – citando Isaia: «È stato condotto a morte per l’iniquità del mio popolo» (53, 8) – scrive: «Ciò viene detto di Cristo che voi – nei vostri padri – avete inviato a morte, e fu condotto come un agnello alla mattanza» (Tractatus adversus Iudaeos, 7.10). Gli ebrei, perciò, sono ora, come popolo eletto, sostituiti dai cristiani. Il versetto della parabola dei vignaioli omicidi – «Ucciderà senza pietà quegli uomini malvagi e darà la vigna in affitto ad altri agricoltori» (Matteo, 21, 41) – è infatti così commentato da Agostino: il vangelo «non dice: la sradicherà e ne pianterà una nuova, ma affiderà la medesima vigna ad altri agricoltori. Ed essa è in verità la città di Dio formata dalla società dei santi» (Tractatus adversus Iudaeos, 6.7).
Nel XIII secolo, poi, Tommaso d’Aquino sostiene che almeno i capi degli ebrei hanno commesso consapevolmente un deicidio: infatti, «si può anche dire che l’abbiano conosciuto come vero Figlio di Dio, perché ciò risultava loro dall’evidenza dei segni, ai quali però per odio e per invidia non vollero arrendersi, riconoscendolo come Figlio di Dio» (Somma teologica, III, 47, 5). Ma anche il popolo può essere accusato di deicidio, perché la sua ignoranza della natura divina del Cristo era in qualche modo voluta: «L’ignoranza ‘affectata’ [artificiosa] non scusa la colpa, ma piuttosto l’aggrava: essa infatti dimostra che uno è così intenzionato a peccare che preferisce rimanere nell’ignoranza per non evitare il peccato. Perciò i giudei peccarono non solo come crocifissori dell’uomo Cristo, ma come crocifissori di Dio» (III, 47, 5 ad 3).
In effetti, già in seguito all’Editto di Tessalonica del 380 d. C, con cui Teodosio I rese il cristianesimo religione di Stato, gli ebrei vennero progressivamente privati dei diritti di cui avevano goduto sotto gli imperatori pagani. In una società cristiana, che considerava un dovere disprezzare, odiare e punire gli ebrei, questi vissero in una condizione di inferiorità: non potevano sposare cristiani, né avere schiavi cristiani, né possedere terre. Spesso esclusi dalle corporazioni di mestiere, si dedicarono ad attività come il prestito a interesse, vietato ai cristiani, acquistando così un peso nell’economia medievale che li rese anche bersagli di invidie e accuse di usura. A partire dal 1000, poi, ebbero inizio attacchi violenti alle comunità ebraiche, conversioni forzate e accuse ripetute: avvelenare i pozzi, diffondere la peste, commettere omicidi rituali e profanare le ostie.
Ma i primi grandi massacri si verificarono nell’Europa Centrale nel 1096, ai tempi della prima Crociata: le comunità ebraiche insediate lungo il Reno e il Danubio furono quasi del tutto cancellate dai cavalieri cristiani in marcia verso la Terrasanta. Già a partire dal 1100, poi, numerose furono le espulsioni degli ebrei dagli Stati europei: Francia, Germania e soprattutto Spagna. Il papa Sisto IV (1471-1484), infatti, istituì nel 1478 l’Inquisizione spagnola, che mirava a sorvegliare, ed eventualmente punire, i ‘conversos’, cioè gli ebrei e i musulmani che ufficialmente si erano convertiti ma continuavano in realtà a seguire in segreto la propria religione. Così la regina Isabella, sostenuta dall’inquisitore Torquemada, costrinse nel 1492 gli ebrei che rifiutavano il battesimo a lasciare il Paese: ben 150.000 ebrei dovettero abbandonare le loro case per non rinunciare alla loro fede.
La Chiesa romana, contraria in genere alle violenze contro gli ebrei, era però favorevole alla separazione tra cristiani ed ebrei. Già il IV Concilio Lateranense del 1215 aveva disposto per questi ultimi l’obbligo di portare segni particolari, come distintivi o cappelli gialli. Nel XVI secolo nacquero i primi ‘ghetti’, i quartieri dove gli ebrei furono costretti a risiedere. In Italia, dopo quello di Venezia, ne fu creato uno a Roma, per ordine di Paolo IV (1555-1559). Circondati da mura, con portoni che venivano chiusi al tramonto e riaperti all’alba, questi luoghi non potevano estendersi, nonostante l’inevitabile aumento della popolazione. E nel 1570 Pio V (1566-1572) introdusse nel Messale romano l’invocazione pro perfidis judeis, che li accusava di cecità e pregava per la loro conversione, formula cancellata dalla liturgia solo nel 1959, sotto il pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963).
Nel Seicento e nel Settecento la condizione degli ebrei comincia a migliorare, grazie all’iniziale secolarizzazione della società europea. Nel corso della rivoluzione francese, l’Assemblea Nazionale emancipò nel 1791 la popolazione ebraica e, con un editto del 1806, Napoleone estese la parificazione giuridica degli ebrei a tutti gli Stati satelliti dell’Impero. Con l’unificazione della Germania e la nascita dell’impero tedesco, nel 1871, venne concessa, ad opera di Bismarck, agli ebrei la piena cittadinanza. In Italia, il ghetto fu definitivamente abolito, e gli ebrei equiparati agli altri cittadini, solo nel 1870, dopo la breccia di Porta Pia e la fine del potere temporale dei papi.
Ciò non significa che nell’Ottocento l’ostilità nei confronti degli ebrei abbia avuto fine. Al contrario, il ruolo di primo piano conquistato nella società europea – in poche generazioni saranno presenti in tutti i settori e le professioni – accrebbe tale ostilità, che troverà una significativa espressione ad opera di un giornalista tedesco, Wilhelm Marr (1819-1904), il quale coniò il termine ‘antisemitismo’ e nel 1879 fondò la Lega Antisemita che, considerando la presenza degli ebrei una minaccia per la Germania, chiedeva la loro rimozione forzata dal Paese.
Proprio la diffusione di questi sentimenti antiebraici porterà, pochi anni dopo, un giornalista ebreo di origini ungheresi, Theodor Herzl (1860-1904), considerato fondatore del ‘sionismo’ (Sion è una delle colline di Gerusalemme), a pubblicare nel 1896 un saggio, intitolato Lo Stato ebraico, in cui proporrà, come soluzione della questione della crescente insofferenza nei confronti del suo popolo, la creazione di uno Stato ebraico attraverso un piano di immigrazione di massa verso la regione palestinese.
Come già detto, qui non ci occupiamo dell’antisemitismo, che culminerà con l’Olocausto ad opera dei nazisti, né del sionismo, che porterà alla nascita dello Stato di Israele in Palestina. Ci pare opportuno, però, sottolineare come l’antigiudaismo abbia continuato a caratterizzare l’atteggiamento della Chiesa romana sino al Novecento. Come Herzl racconta nei suoi diari, in un colloquio con Pio X (1903-1914) all’inizio del secolo, il papa gli disse: «La fede ebraica è stata il fondamento della nostra, ma è stata sostituita dall’insegnamento di Cristo, e noi non possiamo riconoscerle alcuna esistenza» (vedi Simon Levis Sullam, Per una storia dell’antisemitismo cattolico in Italia, in https://www.treccani.it/enciclopedia/per-una-storia-dell-antisemitismo-cattolico-in-italia_(Cristiani-d’Italia)/). Una tradizione teologica plurisecolare, che considerava gli ebrei condannati alla dispersione perpetua, sembrava infatti contraddetta dal riaffacciarsi, sul proscenio della storia, del popolo ebraico con un proprio Stato, e perciò una simile ipotesi appariva assolutamente da contrastare.
Una ventina di anni dopo, il francescano padre Agostino Gemelli (1878-1959), fondatore e rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, tra le personalità più autorevoli nell’ambiente ecclesiastico del tempo, pubblicò in forma anonima sulla rivista della stessa Università un necrologio che testimonia come la cultura cattolica fosse ancora legata alla tradizione antigiudaica:
«Un ebreo, professore di scuole medie, gran filosofo, grande socialista, Felice Momigliano, è morto suicida. […] Ma se insieme con il Positivismo, il Socialismo, il Libero Pensiero, e con il Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio? Sarebbe una liberazione, ancora più completa se, prima di morire, pentiti, chiedessero l’acqua del Battesimo».
Pochi mesi dopo, nel numero di dicembre 1924 della stessa rivista, Gemelli chiedeva scusa per la ferocia selle sue parole e precisava: «ogni giorno, come deve fare ogni buon cristiano, prego per la conversione degli ebrei».
Durante il pontificato di Pio XII (1939-1958), come è noto, il silenzio della Santa Sede accompagnò l’Olocausto, anche se è innegabile l’azione umanitaria svolta dal clero per salvare la vita di moltissimi ebrei, a Roma e non solo. Bisognerà attendere, perché il Magistero cambi le sue posizioni, il Concilio Vaticano II che, con la dichiarazione Nostra aetate, approvata sotto il pontificato di Paolo VI nel 1965, cancellerà l’antica accusa di deicidio rivolta collettivamente al popolo ebraico.
Ulteriori passi avanti sono stati compiuti sotto Giovanni Paolo II, che durante la visita nella Sinagoga di Roma nel 1986 chiamò gli ebrei «fratelli maggiori», e che, in un discorso a cardinali e vescovi riuniti nella Sala dei Papi, riconobbe che «Nel mondo cristiano alcune interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico e alla sua pretesa colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando sentimenti di ostilità nei confronti di questo popolo» (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti all’incontro di studio su «Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano», 31 ottobre 1997). Come al solito, assoluto silenzio sul fatto che tali ‘interpretazioni erronee’ non erano state affatto contrastate dal Magistero.
In conclusione, non si può dunque negare che le pagine della Bibbia, se hanno fatto molto bene, nel corso della storia hanno fatto anche molto male. Ne è una prova, ancora oggi il massacro dei Palestinesi, che il governo israeliano attua appellandosi a testi ritenuti sacri, esattamente come hanno fatto per secoli i cristiani. Nel Deuteronomio, per esempio, si legge: «Cancellerai la memoria di Amalek sotto al cielo: non dimenticare!» (25, 19). Il primo ministro Netanyahu, nel febbraio del 2024 ha, in effetti, giustificato la sua politica nei confronti di Gaza citando un versetto di I Samuele: «Va’ dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini» (15, 3). Oggi Amalek, per Israele e il suo governo, si identifica col popolo palestinese: questo è un male da estirpare totalmente, perché gli ebrei possano avere finalmente il pieno possesso di quella terra loro promessa da Jahvè.
Forse ancora una volta una scorretta lettura di un antico testo ha causato una grande tragedia, un vero ‘genocidio’, come riconosce uno studioso ebreo, professore di Storia dell’Olocausto presso il Dipartimento di Storia Ebraica e Studi Contemporanei dell’Università Ebraica di Gerusalemme: genocidio «significa non semplicemente uccidere molte persone, ma avere l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, nazionale, razziale o religioso. […] Quell’intento specifico di distruzione è chiaro a Gaza. Che, come società, non esiste più» (Amos Goldberg: “Gaza non esiste più: questo è genocidio”, in Ilfattoquotidiano, 27/12/2024).
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venticinque anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su “Aquinas”, “Rivista internazionale di filosofia”, “Critica liberale”, “Il Tetto”, “Libero pensiero”.
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