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Le arti popolari e la “riscoperta” delle lucciole

9788899852887_0_0_626_75di Alessandro D’Amato

Recensire un libro, un qualsiasi libro, presuppone un esercizio intellettuale che per gli antropologi dovrebbe apparire piuttosto familiare. Si fa riferimento a quella necessità di distanziamento e di straniamento che appare determinante nell’elaborazione di un’analisi obiettiva del proprio oggetto di studio. Spesso, nella conduzione delle proprie ricerche etnografiche, la difficoltà maggiore è proprio rappresentata dal rischio di cadere nel tranello di conferire dei giudizi di valore alle culture indagate o di lasciarsi coinvolgere emotivamente da esse, perdendo in tal modo in lucidità nelle proprie capacità di rappresentazione. Tuttavia, consapevoli che ciascun individuo – e dunque “persino” ogni esponente della categoria degli antropologi – sia portatore di un ben definito substrato culturale e valoriale, probabilmente la strada più adeguata da seguire, come suggerito da Ernesto de Martino, non può che essere rappresentata da un utilizzo critico delle proprie categorie etnocentriche.

Con le dovute proporzioni, recensire un lavoro di una persona che si conosce bene e nei confronti della quale vi è un’amicizia ormai decennale e un rapporto di reciproca stima può determinare gli stessi rischi individuati precedentemente a proposito della pratica della ricerca etnografica. Per tale ragione, nell’indagare l’ultimo libro di Sergio Todesco, Angoli di mondo. Scritti di antropologia, folklore, storia delle idee (Pungitopo ed. Messina 2020), la più grande difficoltà sarà rappresentata dal riuscire ad adottare un approccio che richiami quell’etnocentrismo critico di demartiniana memoria cui precedentemente si è fatta menzione.

Come il sottotitolo del volume esplicita in modo evidente, l’opera costituisce una raccolta di brevi saggi – venti, in totale – che l’autore ha pubblicato in un arco temporale di circa un quadriennio, compreso tra il 2017 e il 2020. In tale frangente, infatti, egli ha stabilito una sistematica collaborazione con questa rivista, Dialoghi Mediterranei. All’interno di questi venti scritti, Todesco ha così avuto la possibilità di riflettere attorno a una serie di questioni a lui care, in grado di spaziare dalla storia dell’antropologia italiana a problematiche inerenti il folklore, inteso in particolar modo nella sua accezione di arte popolare, sino a giungere a più complesse questioni teorico-metodologiche. Ne consegue che egli si sia trovato a compiere le sue evoluzioni sospeso in equilibrio su un filo collegato, da una parte, all’ambito della ricerca sul campo e, dall’altro, alla riflessione epistemologica che, nel caso in questione, non di rado fa registrare degli sconfinamenti su territori filosofici tutt’altro che estranei all’autore.

La lettura del volume fornisce anche dei cenni biografici sulla figura di Todesco, mettendo in risalto la presenza di alcuni punti di riferimento intellettuale determinanti nella sua formazione filosofico-antropologica. In tal senso, egli esterna più volte il proprio debito di riconoscenza nei confronti di eminenti personalità quali Pier Paolo Pasolini e Walter Benjamin, Roland Barthes e Claude Lévi-Strauss, Antonino Uccello ed Ernesto de Martino. Proprio quest’ultimo, per ammissione diretta dello stesso Todesco, ha costituito probabilmente la maggiore fonte di ispirazione nel suo percorso di avvicinamento alla ricerca e alla riflessione demoetnoantropologica. Altra figura di rilievo, in grado di condizionarne gli scritti è senz’altro quella di Luigi M. Lombardi Satriani, decano degli antropologi italiani, cui si deve la stesura della preziosa prefazione con cui il libro si apre: poco più di otto pagine di densissime considerazioni sui contenuti e gli stimoli offerti dalla lettura di Angoli di mondo; una babele di spunti e di sollecitazioni sempre di estremo interesse, utili ad accrescere il desiderio della lettura e mostrare che le direttrici della ricerca possono assumere connotazioni e profili eterogenei.

Accanto alle eredità intellettuali, un ulteriore punto fermo del percorso di approfondimento antropologico di Todesco è rappresentato dalla matrice geografica della sua etnografia. Ancora una volta prendendo spunto dalla lezione demartiniana, nel corso della propria carriera egli ha infatti scelto di dedicarsi alle Indie di quaggiù, compiendo grandissima parte della propria ricerca sul campo in quella provincia di Messina che, oltre a costituire il proprio territorio d’origine, ne ha anche rappresentato la relativa patria culturale, il luogo privilegiato su cui porre lo sguardo e ricercare l’altrove, l’ambiente eletto delle proprie peregrinazioni antropologiche. In tal senso, le uniche sporadiche eccezioni sono costituite dagli sconfinamenti in quell’areale ibleo, entroterra siciliano al confine tra le province di Ragusa e Siracusa, in cui a cavallo tra gli anni sessanta e settanta del Novecento operò e lasciò una traccia indelebile Antonino Uccello, insegnante, poeta e demologo visionario, cui si devono alcune monografie fondamentali per la conoscenza del mondo popolare e contadino della Sicilia sudorientale e, soprattutto, quel modello di museografia etnoantropologica rappresentata dalla casa-museo a lui intitolata, ancora oggi visitabile a Palazzolo Acreide.

copertina-pitre-testi-e-atti2Angoli di mondo si apre con un saggio dedicato alla vita e alle opere di Giuseppe Pitrè. Esordisce, dunque, con alcune riflessioni di natura storiografica. Nel novembre 2016, l’occasione è data dalla partecipazione di Todesco, a Palermo, al Congresso Internazionale per le celebrazione del centenario della morte dello stesso Pitrè e di Salvatore Salomone Marino, i due medici palermitani dalla cui passione per lo studio della cultura popolare siciliana si è affermata in Sicilia una inedita disciplina, all’epoca denominata ‘demopsicologia’. In questa circostanza, lo stesso Todesco fu invitato, dal direttore di Dialoghi Mediterranei, a prendere fattivamente parte alle relative vicende editoriali, esordendo proprio con il saggio dedicato all’attività pitreana, di cui sono poste in evidenza alcune peculiarità: dalla «concezione olistica» che indusse il celebre palermitano ad approcciarsi al mondo popolare con uno sguardo omnicomprensivo, alla capacità – messa in mostra dallo stesso Pitrè – di conciliare e fondere in una sintesi proficua la concezione romantica del popolo siciliano con un approccio metodologicamente orientato verso strategie positivistiche di raccolta (quasi “naturalistica”) degli elementi culturali appartenenti al mondo popolare.

Dall’interesse per il vastissimo e variegato ventaglio del patrimonio immateriale (canti, fiabe, leggende, proverbi, rituali ecc.) alla tensione museografica, che indusse Pitrè a raccogliere e collezionare centinaia e centinaia di oggetti che sarebbero poi confluiti in quelle anguste stanze di Via Maqueda a Palermo, presso cui il primo nucleo del ‘Museo Pitrè’ sarebbe stato ospitato, almeno fino a che il medico-demopsicologo non rimase in vita. Solo successivamente, a metà degli anni trenta, si deve al merito di Giuseppe Cocchiara l’aver determinato lo spostamento delle collezioni pitreane in una sede più dignitosa e ampia, quale fu la Casina Cinese, all’interno del Parco della Favorita. Infine, ultimo aspetto dell’operato di Pitrè, fu la propensione di quest’ultimo all’attività politica, a vari livelli di coinvolgimento e partecipazione, fino a ricoprire differenti ruoli e incarichi. Fu, infatti, presidente della Società siciliana di storia patria e della Reale Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo; fu docente universitario della disciplina che egli stesso contribuì a istituire, oltre che senatore del Regno: sempre con un ben preciso obiettivo da perseguire e sostenere. Vale a dire, l’edificazione, mediante le proprie ricerche e i propri studi, di una coerente e omogenea identità siciliana, in un periodo storico di riscoperta del concetto di popolo-nazione.

Proprio il concetto di identità risulta centrale nella riflessione di Todesco. Scorrendo i saggi che si susseguono all’interno del libro, non vi è contributo in cui tale termine – cruciale, pertanto, nel suo pensiero antropo-filosofico – non costituisca l’asset di base del proprio ragionamento. Le stesse pagine dedicate al patrimonio culturale e alle dimensioni museografiche dei relativi processi di musealizzazione, ruotano attorno al ruolo che tali processi possono assurgere nei meccanismi di valorizzazione identitaria. Del resto, la rappresentazione museografica può ambire a costituire una delle più efficaci modalità di salvaguardia di un patrimonio culturale che, a un tempo, si snoda tra l’apparire indispensabile e la sua natura vulnerabile.

Partendo dalla necessità di ancorare i beni materiali e immateriali al contesto ambientale di riferimento, la comprensione dei significati di cui essi sono portatori non può che passare dall’assunzione di consapevolezza che tale patrimonio sia costituito da una moltitudine variegata di «risorse d’identità». D’altronde, sia che ci si trovi di fronte al patrimonio oggettuale sia che si abbia a che fare con saperi, rituali e memorie trasmissibili oralmente, Todesco mette al corrente da rischi connessi al fluire inarrestabile della contemporaneità, la quale sin dall’epoca della pasoliniana “scomparsa delle lucciole” (altra locuzione cara al nostro autore) costituirebbe il rischio maggiore per quanto riguarda la sopravvivenza di quelle che oggi abbiamo imparato a chiamare “comunità di eredità”. Siano esse musealizzate o meno, le collezioni di beni di interesse folklorico rappresentano pertanto elementi-chiave del ragionamento di Todesco. Del resto, se da un lato i “musei Dea” vanno certamente sottoposti a strategie di salvaguardia, dall’altro essi meritano certamente un ripensamento ontologico, nell’assoluta necessità di evitare che tali musei si trasfigurino in sterili depositi di oggetti “all’ammasso”. Piuttosto, i musei di area demoetnoantropologica dovrebbero divenire luoghi di negoziazione di significati e di identità, di messa in discussione e ripensamento delle «proprie coordinate culturali attraverso lo stimolo percettivo di declinazioni di cultura diverse da quelle disponibili nei musei dei patrimoni “colti”».

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Capizzi, Opere di Giacomo Principato (ph. Riccardo Vadalà)

La consapevolezza del ruolo assunto dai beni demoetnoantropologici nel veicolare identità e trasmettere significati, simbolismi e mitologie appare inoltre riassunto nella seguente considerazione: «questo patrimonio oggettuale e linguistico rappresenta una delle poche reali risorse antropologiche che il nostro Paese possiede e che ha il dovere storico di conservare “per coloro che verranno”». Ed è questa la ragione che lo induce a individuare nella decadenza – oramai decennale – della città di Messina una delle questioni più cogenti del proprio sguardo antropologico. Una città che, in passato, ha costituito un terreno fertile per contaminazioni culturali e influenze europee; una città che è stata luogo privilegiato di scambi culturali, circolazioni di idee, testi, contenuti culturali, comprese teorie e prassi ermetiche, alchemiche ed esoteriche, come dimostrano i due saggi intitolati Il fascino dell’altrove e Messina ermetica. Canzoni siciliane del XVII secolo sull’alchimia.

Ma è soprattutto il tema dell’arte popolare a costituire la traccia più profonda e trasversale dell’azione di ricerca condotta nel corso dell’attività antropologica di Sergio Todesco. Le varie declinazioni con cui l’arte popolare ha trovato espressione nell’area nebroidea e in quella della provincia di Messina sono pazientemente oggetto del suo sguardo etnografico: che si tratti di produzione di manufatti devozionali, di incisioni su madreperle, di fotografie, di utensili destinati all’attività agropastorale, di pittura o scultura, non vi è settore della produzione artigianale popolare su cui lo studioso non abbia nel corso degli anni soffermato la propria attenzione. Dando vita, non di rado, a mostre, cataloghi e pubblicazioni di indiscusso interesse e valore scientifico.

Oltretutto, in questa sua predilezione per il mondo dell’arte popolare, lo studioso mostra una particolare sensibilità per le questioni di genere, rilevando – mediante l’individuazione di singolari eccezioni alla regola – la persistenza di ruoli che culturalmente e socialmente risultano appannaggio maschile. Pertanto, la descrizione di figure femminili dedite alla pesca (Donne di mare e riconoscimenti istituzionali), alla pittura di carretti siciliani e di cartelloni per cantastorie (Nerina Chiarenza e dintorni. La pittura narrativa ed epico-cavalleresca) o alla fotografia “antropologica” (L’occhio del Monsignore. Calogero Franchina fotografo in Tortorici) diviene modello di istanze culturali quantitativamente minoritarie ma essenziali nella comprensione della storia dei luoghi e nella costruzione delle identità comunitarie.

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Mistretta, Donne (Fondo di Mons. Franchina)

Tanto che ci si trovi di fronte alle pescatrici eoliane, quanto che si osservi all’opera l’unica donna decoratrice di carretti siciliani; finanche, infine, si analizzi il contributo di Marietta Letizia, preziosa continuatrice dell’opera fotografica dello zio, grazie agli scatti della quale ancora oggi si possono osservare le testimonianze storiche di uomini, attività, rituali, cerimonie, feste e altri elementi materiali e immateriali della tradizione identitaria della cittadina di Tortorici: in ciascuno di questi casi, il ruolo della donna è risultato essere essenziale.

In particolare, il caso di Nerina Chiarenza merita forse un’attenzione ulteriore: riconosciuta nel 2014 quale “Tesoro umano vivente” da parte del Dipartimento Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, con conseguente iscrizione all’interno di quello straordinario e innovativo strumento rappresentato dal Registro delle Eredità Immateriali della Regione Siciliana, questa donna costituisce una specialissima “anomalia” in un panorama culturale del tutto androcentrico. Unica donna decoratrice di carretti siciliani, essa raffigura una peculiare testimonianza di come la «narrativa popolare siciliana» possa rappresentare un luogo esclusivo di individuazione delle strette e inestricabili interconnessioni esistenti tra la «dimensione orale e quella iconografica».

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Messina, Opere di Giovanni Cammarata (ph. Sergio Todesco)

Rimanendo all’interno dell’alveo dell’arte popolare e in analogia con quanto appena evidenziato, un altro personaggio tratteggiato all’interno dell’opera è Giovanni Cammarata, il cui Hortus Conclusus descritto nel saggio intitolato Il cavaliere e l’orto concluso dei sogni e la cui biografia si innestano perfettamente all’interno di un solco contraddistinto, in altre parti d’Italia e del mondo, dalla presenza di figure etichettate come outsiders, irregolari, sovversivi, talvolta persino contestatori. Nel caso in oggetto, l’orto concluso di Cammarata richiama eticamente ed esteticamente quel Santuario della Pazienza eretto negli anni sessanta e settanta dall’artista Ezechiele Leandro a San Cesario di Lecce, dal 2014 riconosciuto di interesse culturale per effetto di un decreto emesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Anch’egli artista irregolare, primitivista, autore babelico che realizzò le proprie sculture utilizzando materiale di risulta, fu tuttavia «del tutto inconsapevole e ignaro del mondo dell’arte e dei suoi meccanismi» (L. Madaro).

Altri sono i personaggi che costellano la raccolta di scritti di Todesco e attirano non poco la curiosità del lettore. Ad esempio, ulteriore caso di artista sui generis è rappresentato dal pittore naïf Antonino Mancuso Ferro, originario di Capizzi, nel messinese, e unico autore siciliano le cui opere sono ospitate all’interno di due strutture museali di assoluto prestigio, quali il Museo Internazionale d’Arte Naïve ‘Charlotte Zander’ di Bönnigheim (Germania) e il Musée International d’Art Naïf ‘Anatole Jakowsky’ di Nizza. Tra le altre cose, ancora una volta volendo elaborare un inconsueto parallelismo, alcuni elementi della vicenda biografica di Mancuso Ferro appaiono come straordinariamente affini a quelle dello scrittore semianalfabeta Vincenzo Rabito, la cui autobiografia postuma, Terra matta, ha vinto nel 2000 il Premio Pieve indetto dall’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, prima di divenire un vero e proprio “caso editoriale”, grazie al successo ottenuto dalla sua stampa per la casa Einaudi e la successiva trasposizione cinematografica nel docu-film omonimo, diretto da Costanza Quatriglio e vincitore di numerosi premi, in festival del cinema italiani ed esteri. Tanto Mancuso Fuoco quanto Rabito, infatti, abbandonarono la scuola in tenerissima età, per andare a lavorare in campagna e, così, aiutare le rispettive economie domestiche; tanto l’uno quanto l’altro dovettero rispondere alla chiamata alle armi (Mancuso Fuoco durante il secondo conflitto mondiale; Rabito – ragazzo del ’99 – nel corso della Grande Guerra); entrambi vissero l’esperienza dell’emigrazione in Germania e, al ritorno in Italia, il disorientamento determinato dalla precarietà lavorativa. Tutti e due, soprattutto, trovarono nelle rispettive forme espressive un impulso per dare sfogo ai propri sentimenti e alla propria interiorità: la pittura, in Mancuso Fuoco, e la scrittura, in Rabito.

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Capizzi, La tosatura in Sicilia, di Mancuso Fuoco

Angoli di mondo contiene tanto e tanto altro ancora. Non basterebbe certo l’esiguo spazio di una riflessione/recensione a offrire uno scenario completo e adeguato di quanto all’interno dell’opera è trattato. L’acume delle considerazioni svolte e la passione che anima il percorso dell’autore tra tematiche spesso eterogenee si traduce in una lettura piacevole e in un’opera di disvelamento di dettagli (o curiosità) scarsamente conosciuti ai più, sebbene all’interno di un contesto di macro-tematiche già in passato adeguatamente indagate nella storia degli studi. Ciò avviene, per citare un caso, quando Todesco si sofferma sulla mitologia di San Paolo in area mediterranea riuscendo a creare un dialogo tra le ben note interpretazioni etnografiche e quelle della letteratura classica, da un lato, e quanto presente all’interno delle sacre scritture, dall’altro. Oppure, altri spunti di interesse affiorano con forza dalla lettura di Tremendum fascinans. Due collane storiche a confronto, in cui la celebre “Collana Viola” Einaudi, legata alla memoria di Cesare Pavese ed Ernesto de Martino, diviene oggetto di analisi comparativa nei confronti della più datata “Collana di Studi Religiosi, Iniziatici ed Esoterici”, meglio nota come Collana Esoterica, inaugurata nei primi anni venti del Novecento dall’editore Laterza, al cui interno «vennero pubblicati pressoché per la prima volta autori e opere che occupavano o avrebbero in seguito occupato un posto di rilievo nella cultura italiana ed europea del XX secolo»: tra gli altri, solo per citare una ristrettissima rosa di nomi, Freud, Jung, Evola, Guénon, Steiner.

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Carlentini, Daniele Guercio e le sue statuine di argilla (ph. Sergio Todesco)

In definitiva, Angoli di mondo si configura – in un’accezione di estesa ampiezza – come una sorta di ricomparsa (o riscoperta) di quelle lucciole di pasoliniana memoria. In un suo celebre articolo comparso sul «Corriere della sera» il 1° febbraio 1975, infatti, Pasolini così scriveva, rivolgendo il proprio sguardo ai primi anni del decennio precedente: «nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani sé stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).

Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”» (Pasolini 1975): questo evento, secondo la sempre lucida disamina di Pasolini costituiva lo spartiacque tra due distinte fasi dell’attività politica democristiana [1] e viene fatto coincidere, da Todesco, con la progressiva e irreversibile estinzione di un mondo caratterizzato da forme di vita, tecniche, modalità espressive, ritualità e sonorità cui la sua ricerca etnografica ha da anni rivolto la propria attenzione.

È questa la ragione per cui la lettura della sua raccolta di scritti costituisce un utile strumento di analisi, riflessioni e approfondimenti di tematiche e suggestioni che, nel corso della propria carriera di studioso attento alla storia delle idee e degli studi demoetnoantropologici, alla museografia Dea e alle questioni identitarie, egli ha avuto modo più volte e sempre in modo rigoroso di trattare e approfondire.  

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Volendo banalizzare, per necessità di sintesi, le due fasi cui Pasolini faceva riferimento si potrebbero etichettare come “fascismo democristiano”, caratterizzato da una predilezione per la «civiltà contadina e paleoindustriale», per quanto attiene al periodo compreso tra la caduta del regime e i primi anni sessanta, e “fascismo mascherato”, in voga dopo la “scomparsa delle lucciole”, caratterizzato da un sostanziale vuoto di valori e di riferimenti.
Riferimenti bibliografici
P. Angelini, a cura di, La Collana Viola. Lettere 1945-1950. Cesare Pavese – Ernesto de Martino, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
A. Di Marzo – L. Madaro – B. Minerva – T. Piccolo, Leandro unico primitivo, Catalogo della Mostra “Leandro unico primitivo”, San Cesario di Lecce 2 luglio – 30 settembre 2016, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2016.
P. P. Pasolini, “Il vuoto del potere” ovvero “l’articolo delle lucciole”, «Corriere della sera», 1° febbraio 1975.
R. Perricone, a cura di, Pitrè e Salomone Marino. Atti del Convegno internazionale di studi a 100 anni dalla morte, Edizioni del Museo Pasqualino, Palermo 2017.
V. Rabito, Terra matta, Einaudi, Torino 2007.

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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali, vanta collaborazioni con le Università di Roma e Catania. Oggi è funzionario presso il MiBACT. Esperto di storia degli studi demoetnoantropologici italiani, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sia monografiche che di saggistica. Insieme al biologo Giovanni Amato ha recentemente pubblicato il volume Bestiario ibleo. Miti, credenze popolari e verità scientifiche sugli animali del sud-est della Sicilia (Editore Le Fate 2015).

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