di Settimio Adriani, Alessandra Broccolini [*]
«Il paesaggio racconta […] le storie degli uomini. Anzitutto racconta gli événements, cioè i fatti minimi e memorabili di cui esso è stato il palcoscenico: storie quotidiane, avvenimenti scontati, dimenticabili, e gesta di grande rilievo e decisive nel segnare il corso della storia» (Turri 2000: 17-19). Tenuto conto di ciò, è sulla triangolazione tra storia, dinamiche identitarie locali e vissuti collettivi che si incardina questa indagine che intende contribuire ad una risignificazione di un territorio fragile, qual è da sempre il Cicolano. Nell’area sudorientale della provincia di Rieti c’è un territorio storicamente isolato anche dai contesti urbani geograficamente prossimi, che coincide con i settori montani dei comuni di Fiamignano e Petrella Salto.
L’isolamento può sembrare strano se si considera che le città di Rieti e L’Aquila distano dal Cicolano soltanto poche decine di chilometri. Eppure l’isolamento è stato uno degli elementi caratterizzanti quel territorio. La morfologia impervia e la viabilità scarsa di fatto lo hanno reso a lungo una sorta di mondo a sé stante. Gli spostamenti erano strettamente limitati alle necessità gestionali delle greggi, dei campi e alla spasmodica ricerca di lavoro, rivolta altrove e quasi sempre stagionale. La transumanza rappresentava lo stile di vita dominante; erano i maschi che si allontanavano per stagioni intere, lasciando il peso della famiglia, della stalla e dell’orto sulle spalle delle donne e degli anziani (Adriani, Adriani 2008a). All’inizio dell’inverno, poi, in molti attraversavano il mare per raggiungere i caseifici sardi a lavorare come ‘casari’, per tornare a casa in primavera, quando le pecore isolane andavano “in asciutta” e i campi montani di proprietà, ormai usciti dall’inverno, richiedevano lavoro e presenza assidua (Adriani, Adriani 2008b).
Le transumanze più note erano (e ancora sono) quella orizzontale e quella verticale; entrambe avvenivano ritmicamente a fine estate e in tarda primavera. La prima vedeva muovere le greggi tra i pascoli della marina romana e quelli montani (Gabba 1985); la seconda, invece, spingeva i pastori stanziali a muoversi localmente con lo stesso ritmo tra il fondovalle e le pasture alte (Adriani, Morelli 2013). Proprio su quei monti, oltre ai pascoli, c’erano (e ci sono) le estese faggete che da sempre danno legna da ardere e i campi in cui si seminavano (e si seminano) l’antica ‘biancòla’, grano scarsamente produttivo ma molto resistente ad ogni avversità (Adriani 2014: 1-52) e la ‘lenticchia’ dell’altopiano di Rascino’ (Broccolini 2018), oggi assurta a presidio Slow Food. La necessità di dover restare in quota per lunghi periodi e le difficoltà degli spostamenti tra i monti e le valli, spinse chi se lo poteva permettere all’edificazione di rifugi in muratura, note come ‘casette’.
Sulle origini delle ‘casette’
«Fortune economiche improvvise e disastri altrettanto improvvisi possono indurre rinnovamenti travolgenti, manomissioni radicali, oppure abbandoni, deperimenti, obsolescenze di oggetti territoriali che pure avevano riempito di sé, con il loro clamore, il loro luccichio, un dato momento storico» (Turri 1982: 17-19). Per effetto dell’inseguimento di nuove “fortune economiche”, le ‘casette’, elementi centrali del paesaggio montano storico del Cicolano, conobbero «abbandoni, deperimenti e obsolescenze», fenomeno che raggiunse l’apice nella prima metà del secolo scorso. Questo studio vuole dare conto dell’utilizzo tradizionale di queste strutture e prefigurarne i possibili impieghi futuri.
Nonostante ogni ‘casetta’ sia una proprietà privata, a livello locale nel loro insieme vengono sempre più diffusamente percepite come un patrimonio della comunità. Le loro origini sono incerte, le scarse conoscenze storiche le fanno risalire a un’epoca probabilmente successiva all’abbandono del Castello di Rascino, insediamento medievale distrutto nel 1408 dalle guerre e oggi completamente diruto. Ma la sua fine non significò un abbandono delle culture, bensì una loro trasformazione in stagionali (Leggio 1990).
Molto probabilmente sono questi i presupposti che stimolarono l’edificazione in forma sparsa di questi rifugi in muratura. La loro ubicazione è legata ai seminativi e/o ai prati-pascolo di proprietà, a loro volta incastonati tra le vaste aree pascolive e boscate demaniali. Ciò lascia intendere che i rifugi siano sorti a servizio dei terreni e quindi delle attività agricole condotte in area montana, in linea di massima a quote superiori ai 1.200 m. s.l.m.; mentre a valle i settori antropizzati si trovano tra i 500 e i 1.000 m. s.l.m. Inoltre, data l’antica esistenza degli usi civici di pascolo e di legnatico, si può affermare che, di fatto, questi edifici sono da sempre a servizio delle attività agro-silvo-pastorali.
Un patrimonio complessivo
Edificate nel tempo in modo autonomo e senza alcuna forma di pianificazione, dal punto di vista architettonico le ‘casette’ sono strutture non omogenee, anche se presentano una tipologia prevalente, molto probabilmente dettata dalle esigenze d’uso e dall’economia dei materiali. Si mostrano semplici, essenziali e prive di ogni vezzo.
Le costruzioni sono state concepite per esporre a favore del sole la falda di copertura, le finestre dei vani abitativi (solitamente sprovviste di vetri e unici punti d’accesso della luce), i recinti per le greggi e gli ingressi delle stalle, poste al piano seminterrato e quasi sempre prive di finestre. Le travature principali dei tetti erano tradizionalmente tessute tra la parete alta (nella quale aprivano le porte d’ingresso dei vani abitativi) e quella bassa (nella quale aprivano le finestre). Questa tecnica, che consentiva l’impiego di travi di limitata lunghezza e sezione ridotta, era funzionale al trasporto dei materiali legnosi dai boschi di fondovalle (cfr. nota 3). In ogni caso, nonostante le limitate dimensioni degli assortimenti boschivi utilizzati, le travi non potevano essere trasportate a dorso di mulo e si effettuavano a traino.
Dalla foto si evince che nel piano rialzato ci sono due distinte unità abitative (struttura pluricellulare [1]), con accessi autonomi posti nella facciata posteriore ed ognuna composta da due stanze. Ripartizione testimoniata all’esterno dalla presenza di quattro finestre e due comignoli, corrispondenti a due focolari. Nel piano seminterrato si notano due aperture che immettono in altrettante stalle distinte, una per ogni unità abitativa ed ognuna costituita da un unico vano.
La stragrande maggioranza delle ‘casette’ è dotata di una pertinenza in muratura con pianta rettangolare a cielo aperto, strutturalmente annessa allo stabile e denominata ‘regnòstro’ (Mari et al. 2007: 54-66), recinto adibito al ricovero notturno delle greggi, caratterizzato da capacità antipredatorie (antilupo).
L’altezza delle mura perimetrali è sempre superiore a 2 m., mentre l’inaccessibilità ai predatori è potenziata da una coronatura di grandi pietre, aggettanti verso l’esterno e verso l’interno, poste sulle pareti esterne con la specifica funzione di contrasto verso ogni tentativo di scavalcamento. Purtroppo, durante recenti interventi di ristrutturazione alcuni manufatti hanno perduto questa singolarità architettonica. La foto evidenzia caratteristiche comuni a molte ‘casette’: il tetto a falda unica e le stalle al seminterrato, entrambi a esposte al sole, l’accesso al piano abitativo rialzato e disposto a monte, nella parete in ombra. Il rilievo delle ‘casette’, condotto in modo interdisciplinare (cartografia, fotorestituzione, indagini sul campo), ha consentito di censire tramite GIS 147 strutture (Mari et al. 2007).
L’analisi della loro distribuzione tra i residenti nei comuni di Fiamignano e Petrella Salto è stata preceduta dalla stima del numero di famiglie presenti, che alla fine degli anni Trenta del secolo XIX si attestava intorno a 1.700/1.800 unità, su una popolazione complessiva di circa 9.000 abitanti. Considerando che il patrimonio complessivo di ‘casette’ è costituito da singole unità immobiliari in grado di ospitare, seppur provvisoriamente, uno-due nuclei familiari, si è potuto stimare che tra il 10 e il 15% delle famiglie residenti disponevano di un rifugio montano di proprietà. Frazione considerevole, se si considera che le categorie sociali dei ‘proprietari’ e dei ‘contadini’ rappresentavano il 70% circa delle famiglie residenti (dato stimato per gli anni 1838/1839 sulla sola frazione Fiamignano capoluogo) [2] e che ogni unità abitativa poteva essere utilizzata in modo promiscuo da più nuclei familiari della stessa discendenza. Il numero piuttosto elevato di strutture conferma l’uso intenso della montagna da parte della popolazione locale.
La dispersione topografica delle strutture censite e la loro adiacenza ai seminativi di proprietà, evidenziata dal catastale, rappresentano un ulteriore elemento a conferma della funzione originaria delle ‘casette’. Si deve considerare, inoltre, che soltanto una frazione minoritaria di esse era ubicata nella fascia ecotonale, tra bosco e aree aperte. Per quelle che attualmente sono incluse in aree boscate, infatti, c’è da considerare che la copertura forestale circostante è il risultato dell’espansione naturale della faggeta. Processo posteriore alle edificazioni e iniziato intorno alla metà del secolo scorso in seguito all’abbandono pascolivo e colturale delle frazioni. Precedentemente all’ultima espansione boschiva, quindi, anche questi edifici si trovavano in ambienti aperti.
La distribuzione altitudinale degli edifici, compresa tra i 1.150 e i 1.250 m s.l.m. e corrispondente alla fascia dei coltivi, costituisce una ulteriore indicazione sulle esigenze che indussero l’edificazione, attività impegnativa dal punto di vista delle energie familiari messe in gioco. Modalità e condizioni d’uso delle ‘casette’ sono in parte chiarite dai dati catastali. Infatti ancora oggi la quasi totalità di esse risulta ubicata in prossimità o internamente a seminativi e prati pascolo di proprietà, come se in modo singolare fossero gli edifici a costituire pertinenze dei campi.
L’uso antico e recente
Alcune ‘casette’ sono state testimoni di eventi particolari; quelle di alcune famiglie benestanti locali hanno accolto i vescovi in visita pastorale (di Flavio 1989). Quelle di certi pastori, invece, sono state lo scenario di episodi briganteschi: «La notte fra il 25 e il 26 agosto [1865] quattro briganti uccisero ventisei pecore (cinque montoni, ventuno pecore) in uno stazzo situato in contrada Peschiole» (Sarego 1976: 123). Questi eventi, gli unici riportati nei documenti d’archivio, non possono però essere considerati caratterizzanti; le ‘casette’ sono stati muti testimoni del disagio e delle fatiche di generazioni di montanari che seguendo il ritmo delle stagioni vi hanno soggiornato senza lasciare traccia scritta del loro vissuto. Qualche frammento di quella vita dura e silenziosa è però rimasto nella memoria e nella poesia popolare. Nonostante la distanza dai centri abitati, la segregazione dal resto della comunità e la crudezza della vita che sui monti si conduceva per lunghi periodi, i pastori consideravano l’ambiente montano una sorta di Eden; il luogo dell’abbondanza e del riscatto dal vivere negli impervi e improduttivi pendii della Valle del Salto. Concetto abilmente espresso in una eptastica di origine pastorale:
C’è tra que’ monti un piano
che del Padreterno è il dono
al primo sol fiore di pruno
abbondan legna e latte ovino
lenticchie dà con pane e fieno.
Qui, sull’irta costa invece
poco godere e assai fugace [3].
Eppure da sempre da quell’area montana isolata si va e si torna col variare delle stagioni al seguito delle greggi transumanti. E ogni volta che si parte è un distacco, da tutto e da tutti, nella piena consapevolezza che quel sacrificio cambierà poco o nulla.
L’erba è ormai pasciùta alla montagna
tòcca piglià’ ‘élla sciùfela la via.
Addio moglie, casa e compagnia
ma ‘sto tribbolà’ pócu o gnénte cagna [4].
La separazione dal paese e dagli affetti, vissuta con fatica, rappresentava un sacrificio che nessun pastore avrebbe mai negato ai suoi armenti. Il cuore, però, restava sempre su quei monti, che usciti dall’inverno apparivano lussureggianti ed erano lì ad attendere il ritorno. La seguente ottava rima, anch’essa di memoria orale, descrive l’ansia di tornare che attanaglia ogni pastore e la consapevolezza che seppure per opposti motivi c’è sempre qualcuno in attesa: la sposa, e il lupo!
Quànno se fa l’ora de cagnà’ salìme
greggi e cuore spingono a partire
si transuma in contro verso al fiume
pensando sempre di mai più tornare.
Non è più tempo di patir la fame
abbondan erba ed acqua da bere.
C’è poi chi aspetta, lì tra i monti
le nostre spose e chi ha’rrotàtu i ‘énti [5].
Internamente le ‘casette’ [6] avevano un arredo essenziale, un aspetto spoglio e disadorno ed erano prive di ogni comfort. Le dotazioni si limitavano a un tavolo, utilizzato sia per consumare i pasti che per le lavorazioni al chiuso (caseificazione, ecc.) e alcune seggiole. Non di rado sostituite dalle ‘prétole’, semplici panchette a tre piedi costruite in loco con legno di faggio e utilizzate anche per la mungitura. Non era prevista una cucina vera e propria, la cottura dei cibi, solitamente costituiti da zuppe, avveniva direttamente nel camino utilizzando il paiolo, dal quale si scodellava direttamente nelle ‘scòppe’, piatti in terracotta dalla forma troncoconica. Anche i mobili erano ridotti all’essenziale, nella maggior parte dei casi c’era ‘l’arca’, contenitore in faggio dal coperchio tondeggiante, completamente smontabile per consentirne il trasporto a dorso d’asino. Nell’incessante lotta contro l’azione dei topi, in essa si conservavano il pane, il lardo, il formaggio e la farina. Il resto veniva appeso alle pareti. La disponibilità di contenitori si riduceva a uno o due paioli in rame di diversa capacità e altrettante padelle di ferro, la ‘cupèlla’ di legno per l’acqua potabile e la ‘cupellétta’ (1,5 litri circa) per portare con sé l’acqua nelle ore di lavoro. Nulla di più.
Non c’era acqua corrente né servizi igienici. Anche i letti, le ‘rapazzòle’, erano essenziali, costituiti da fardelli di coperte che venivano aperti sul pavimento alla bisogna, o collocati su tavole sorrette da cavalletti. Nella maggior parte dei casi si giaceva tutti nella stessa stanza e spesso si era in molti. Laddove fossero disponibili due vani vigeva la suddivisione tra uomini e donne. L’utilizzo delle ‘casette’ si protraeva dalla primavera avanzata all’autunno inoltrato, in relazione alle necessità individuali e secondo il calendario scandito dalle lavorazioni. Gli agricoltori iniziavano all’inizio della primavera con la semina delle lenticchie, poi lo sfalcio e trasporto a valle del fieno, seguivano la raccolta del grano e delle lenticchie, l’aratura, la semina del grano, la provvista di legna da ardere. I pastori, che accompagnavano le greggi dalla primavera all’autunno, non avevano queste cadenze e curavano anche la tosatura, i parti, la mungitura e la caseificazione. Quando erano le famiglie intere a trasferirsi in montagna si era soliti portare a seguito le galline, per la disponibilità quotidiana delle uova, e il maiale, per non interromperne l’accrescimento e l’ingrasso.
Riabitare un “patrimonio” demoetnoantropologico: una riflessione a margine
La storia di queste ‘casette’ e dei loro antichi abitanti sulla montagna appenninica apre una riflessione conclusiva sulla complessità del patrimonio oggi e sul “senso dei luoghi” (Teti 2007). Un luogo apparentemente semplice, “vuoto”, quello della montagna cicolana, lontano dalle grandi vie di comunicazione, dai flussi turistici e da quelli tecnologici, lontano da quegli scapes che l’antropologo Appadurai definisce espressioni della globalizzazione (Appadurai 2001). Sull’altopiano di Rascino e sui territori di montagna circostanti ancora oggi non c’è acqua corrente, non c’è elettricità e non c’è copertura telefonica; e i paesi più in basso – Fiamignano, Petrella Salto e altri – sono in via di spopolamento. In questo ampio territorio aperto sono disseminate queste abitazioni povere, delle quali si percepisce al primo impatto soprattutto il muro di cinta “antilupo” a ricordarci che qui il rapporto degli uomini con il selvatico era stretto e in perenne lotta per salvare le greggi. Ma lo spazio quasi sconfinato che connota il paesaggio non deve ingannare; perché il vuoto che lo caratterizza e il suo isolamento, dopo la fase di abbandono dovuto al declino delle attività produttive della montagna, si aprono oggi ad un “riscatto” patrimoniale che va immaginato e costruito diventando un valore aggiunto. Un vuoto che si presta ad una messa in valore e spinge a domandarci cosa sia un “patrimonio” e di quante sfumature di senso si componga.
I termini che oggi caratterizzano il dibattito intorno al patrimonio culturale ruotano intorno ad una concezione del “culturale” che si è ormai sottratta al potere dell’elite e all’eccezionalità del monumento, aprendosi ad una visione antropologica e immateriale della “cultura” intesa come forma di vita, la vita della gente comune. È ciò che si intende per “bene demoetnoantropologico”, una tipologia di forme materiali e immateriali che lo Stato italiano ha riconosciuto nell’attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (2004). Forme di vita legate alla povera gente, contadini, pastori, artigiani, ai quali questa nozione di “patrimonio” ridà voce e luce. E se un patrimonio culturale non è un’essenza che ha valore in sé, ma un processo di “messa in valore” avviato da una comunità, è necessario riflettere sulla articolata “patrimonializzazione” di questi luoghi e con essi anche delle sue ‘casette’. Un complesso intreccio di paesaggio, strutture abitative, pratiche agricole antiche e attuali, memorie e “beni comuni” (quali ad esempio gli usi civici di pascolo e di legnatico), compone un panorama patrimoniale complesso, nonostante l’apparente arcaicità del luogo.
L’antica possibilità concessa ai residenti di pascolare e raccogliere legna anche nei possedimenti demaniali costituisce ancora oggi un ricco patrimonio comune, che si configura come supporto irrinunciabile di un altro patrimonio, in questo caso di natura privatistica, quello dalle ‘casette’. A questi elementi del territorio, che resistono e diventano centrali nella percezione locale del valore, si accompagna anche la “rinascita” produttiva della montagna da parte degli abitanti che stanno riscoprendo e reinvestendo in due prodotti locali, una varietà di grano di montagna, la biancòla, e soprattutto nella lenticchia, una varietà locale a seme piccolo, che sta portando un valore aggiunto all’altopiano, divenendo il motore di un nuovo modo di guardare ad esso (Adriani 2015). Non più solo terra di memoria e di abbandono, ma luogo di ritorno, di nuovo senso dei luoghi e soprattutto di un rimanere (la “restanza” della quale parla Vito Teti). La riscoperta produttiva della montagna entro una cornice patrimoniale che valorizza la biodiversità coltivata è diventato l’asse sul quale fare convergere questa idea complessa di “patrimonio” che comprende, oltre ai valori antichi dei “beni comuni” come sono gli usi civici, anche le ‘casette’.
Un recente progetto di recupero di queste abitazioni, risalente al 2006, mostra un processo di “patrimonializzazione in atto” (Mari et al. 2007). Tuttavia, la contingente situazione socioeconomica non lascia ipotizzabile la perpetuazione dell’utilizzo storico di questa eredità abitativa. Nonostante l’agricoltura sia infatti in forte ripresa, l’attuale velocità di lavorazione dei campi e la presenza di strade carrozzabili consentono ai coltivatori un ritorno a valle giornaliero. La perdurante marginalità territoriale, attualmente identificabile nella mancanza di acqua corrente, elettricità, internet e copertura telefonica, può e deve essere trasformata in un valore aggiunto. Quanti sanno che a un’ora di viaggio dalla capitale c’è ancora un luogo in cui è ancora possibile isolarsi in un ambiente naturale? Un utilizzo delle ‘casette’ come albergo diffuso potrebbe avviare la valorizzazione sostenibile dell’altro patrimonio che sui monti del Cicolano è ancora rappresentato da un ambiente incontaminato, dove si sta sperimentando una ripresa di produzione agricola che va “oltre” il biologico e che ripristina – anche per necessità ambientali – una relazione con la terra non mediata dall’uso di prodotti estranei ai terreni, che non siano sole e acqua piovana.
Chi viene sull’altopiano di Rascino, come negli altopiani vicini, percepisce questo intreccio di valori, tra qualità ambientali e buone pratiche umane dense di memoria, percepisce che qui la “dimenticanza” dei luoghi e il loro essere rimasti marginali alla modernizzazione, ha giovato ai luoghi stessi non perché li ha fatti restare fermi in una condizione di “anteriorità” (arcaica, primordiale, primitiva, etc.), ma perché ha aperto uno spazio esperienziale che è difficile avere altrove.
«Quando parlo di sentimento dei luoghi – scrive Vito Teti – pur non escludendo la magia che essi possono esercitare, non intendo costruire una metafisica dei luoghi, collocarli in una sorta di immobilità e di astoricità. I luoghi hanno una loro posizione geografica, spaziale, ma sono sempre, ovunque, una costruzione antropologica» (Teti 2004:4).
Così, pur trovandoci nel cuore profondo dell’Appennino e lontano da ogni via di comunicazione, vediamo aprirsi un orizzonte molto vasto dove è possibile sentire il delicato equilibrio che si può sviluppare tra i luoghi e i suoi abitanti. L’assenza di servizi ormai ritenuti di base e irrinunciabili può quindi permettere a nuovi visitatori una forma di esperienza che si apre, ad esempio, alle aspettative del «[…] turista postmoderno (o post-turista)» (Feifer 1985, cit. in Urry 1995: 149; Broccolini 2008: 113), quale soggetto «libero dai vincoli della cultura alta», che sappia apprezzare la possibilità di vivere esperienze immersive nell’ambiente naturale e nelle relazioni umane che le ‘casette’ e il territorio offrono.
Tuttavia, non è solo nello sguardo esterno che il territorio e le sue ‘casette’ possono trovare una risignificazione. Quanto piuttosto nell’attivare quella che l’antropologo Vito Teti chiama “restanza” (Teti 2011), quella scelta di “rimanere” nei paesi che non è solo il frutto di un rinnovato senso del luogo, ma è esso stesso un atto coraggioso di risignificazione:
«Restare ha una sua valenza dinamica, anche inquieta. Il viaggio della speranza non va compiuto più fuori, ma nel posto in cui sei. Che non vedi più come luogo destinato all’arretratezza perenne. Oggi i giovani sentono che possono esserci opportunità nuove, altri modelli e stili di vita, e che questi luoghi possono essere vivibili. È finito il mito dell’altrove come paradiso» (Teti 2011).
Sono questi luoghi a costituire quel progetto che Pietro Clemente ha di recente definito “Il centro in periferia”:
«Porre il centro in periferia invece di sviluppare il periferico a partire dal centro» è esattamente l’idea che ci tiene in rete e che capovolge la tendenza della modernità, in cui i centri trascinano le periferie nella uniformità. Oggi invece è tempo che siano le periferie a definire nuove centralità basate sulle differenze e si facciano carico dell’immenso e titanico impegno di far voltare indietro lo sguardo delle grandi città. In altre parole una idea nuova di civiltà complessiva non può che nascere dai luoghi piccoli perché in essi sono visibili e riprogettabili i nessi che fondano la civiltà, le relazioni sociali e quelle con la natura. Cosa è in un piccolo paese una nuova nascita e cosa è in una grande città, suggerisce davvero l’idea che la vita come suo insieme profondo si può vedere molto meglio dai mondi piccoli» (Clemente 2017).
Luoghi storicamente marginali come le montagne del Cicolano con le sue ‘casette’ hanno dunque oggi la capacità di fare sentire la loro voce, di innestare – in un panorama più ampio rispetto ad un passato di fatica per la sopravivenza – processi virtuosi di risignificazione che possono portare le persone a rimanere, a non abbandonare. Se il territorio «nasce dalla fecondazione della natura da parte della cultura» come ha scritto Alberto Magnaghi, se esso è «un’opera d’arte, forse la più alta, la più corale che l’umanità abbia espresso» (Magnaghi 2010: 17), la montagna del Cicolano, come ambiente dell’uomo lontano dagli sguardi semplificanti e estranianti della modernità, mostra di non essere «moribonda…sotto la colata lavica dell’urbanizzazione» (Magnaghi 2010: 18) e ancora ci permette di sperare in un futuro alternativo: