di Maria Sirago
Introduzione
La storiografia di fine Novecento ha definito l’organismo delle confraternite in età moderna come una “associazione volontaria di laici” con finalità religiose, provvista di un proprio regolamento redatto per disciplinarne le attività. Le confraternite sorte in età moderna con la raccolta di fondi derivanti dalle quote associative si occupavano della sepoltura degli associati, della dote per le figlie, dei sussidi per le vedove e di altri aspetti inerenti le forme della sociabilità, fornendo una mutua assistenza per gli iscritti inabilitati al lavoro per vecchiaia o malattia e per i loro familiari in modo integrativo o sostitutivo rispetto alle autorità ecclesiastiche o municipali. Erano dotate di un patrimonio formato dai lasciti degli associati e creavano all’interno delle chiese cappelle intitolate ad uno specifico santo, protettore della specifica “arte”. Dopo il Concilio di Trento hanno costituito per la Chiesa cattolica uno strumento per disciplinare la popolazione, incanalandola nell’ortodossia (Clemente, 2002: 555; Casanova, 2014:4-6). La loro diffusione nella Napoli spagnola permette di distinguere le comunità di marinai e pescatori napoletani che popolavano i quartieri costieri, divenendo uno strumento di autodifesa dalla diffusa povertà ma anche di controllo sociale e mediazione politica (Clemente, 2020: 75).
Negli ultimi trenta anni sono stati pubblicati alcuni studi su queste tematiche soprattutto per la città di Napoli, una popolosa città in cui fiorivano i più vari mestieri, quelli di Luigi Mascilli Migliorini, Daniele Casanova, Giuseppe Rescigno. Bisogna anche ricordare il volume collettaneo curato da Ennio De Simone e Vittoria Ferrandino, edito nel 2004, e quello curato da David D’Andrea e Salvatore Marino pubblicato nel 2022. Nella “Introduction” D’Andrea e Marino hanno sottolineato come gli studi delle confraternite, molto sviluppati per il Nord d’Italia, non sono stati approfonditi allo stesso modo per il Meridione, anche se gli studi che si possono ricavare nei diversi ambiti (sociale, religioso, economico, artistico, antropologico, ecc.) possono dare un quadro più esaustivo della società di ancien regime.
Uno degli ambiti più interessanti è quello inerente le “arti del mare”, le cui confraternite permettono di ricostruire la fisionomia marittima della Capitale partenopea, oramai scomparsa (Clemente, 2002), e dei paesi del suo Golfo. In questo territorio le attività marinare hanno sempre costituito una cospicua fonte di reddito. In realtà durante il viceregno spagnolo il commercio estero è stato monopolizzato da Francesi, Inglesi, Olandesi e Ragusei (di Dubrovnich). Ma la marineria napoletana, soprattutto quelle sorrentina e procidana, ha svolto un ruolo non secondario, occupandosi di trasportare soprattutto dalla Puglia e dalla Sicilia le derrate agricole necessarie per alimentare la popolosa città di Napoli. Questa alta specializzazione di padroni di barche e marinai, unita a quella dei pescatori e degli addetti alla vendita del pescato e dei costruttori delle imbarcazioni, ha favorito la creazione di numerosi “Monti di padroni di imbarcazioni e marinai” e di pescatori e capiparanze (organizzatori della vendita del pescato) nei golfi di Napoli e Salerno, i cui fini erano previdenziali più che assistenziali, poiché prevaleva l’obiettivo mutualistico su quello caritativo.
Questi enti, la cui natura era privatistica ma riconosciuta dallo Stato, si costituivano attraverso un atto notarile, in cui si accludeva la “regola”, cioè il regolamento, ma dovevano ricevere il regio assenso. Essi si ponevano come “organismi autonomi di autogestione dell’arte o del mestiere degli associati” determinando ad esempio il risarcimento del danno subìto dai “caratari” (proprietari di imbarcazioni il cui possesso era suddiviso in “carati”) se l’imbarcazione era stata predata dai corsari o fissare il nolo del viaggio o erogare le somme necessarie per la dote delle figlie, per la malattia o per il riscatto dai corsari. Il loro organismo era standard. Al vertice vi erano i Governatori, da due a quattro, eletti dagli associati, che si occupavano di far rispettare il regolamento ed erogare le somme dovute (Giuseppe Di Taranto, 1999: 595ss.).
Le corporazioni di padroni di barca e marinai provvedevano ad erogare la somma necessaria per il riscatto degli schiavi catturati dalle flotte turca e barbaresca che imperversavano lungo le coste dell’Italia meridionale (Mafrici, 1995). Il ricco Monte dei “Pescatori di corallo” di Torre del Greco a metà Seicento riscattava ogni anno dai cento ai trecento schiavi (Ferrandino, 2008: 25). Ma esisteva anche una specifica confraternita, quella di Santa Maria di Gesù della Redenzione dei Cattivi, fondata nel 1548 da nobili, mercanti, togati ed ecclesiastici nella chiesa di San Domenico Maggiore, dopo una ennesima incursione dell’ammiraglio della flotta ottomana Kahir -el Din detto Barbarossa (Mafrici, 2003) che raccoglievano elemosine per pagare i riscatti di quelli che erano catturati dai barbareschi. Essa con una sua propria barca costruita a Castellamare di Stabia, la Santa Maria di Pozzano, si occupava di riscattare i prigionieri. Carlo V la dotò di un capitale di 4000 ducati sugli arrendamenti dei ferri di Basilicata, Terra di Lavoro, Principato Citra e Ultra e Filippo II di altri 4000 sulle dogane pugliesi e di Basilicata. Nel 1564 si dotò di una propria chiesa, Santa Maria della Mercede, attigua al complesso di San Pietro A Maiella (Boccadamo,1985; Casanova, 2014:77).
La politica marittima di Carlo e Ferdinando di Borbone
La marina mercantile napoletana nel Cinquecento e Seicento era dedita alla sola navigazione di cabotaggio per rifornire la Capitale di derrate alimentari mentre il commercio estero era appannaggio degli stranieri, soprattutto olandesi e inglesi. Nel corso del Settecento si ebbe un notevole incremento delle imbarcazioni sia nel territorio sorrentino, sia nell’isola di Procida. Fin dall’inizio del suo dominio (1707) l’Austria si dedicò allo sviluppo dei porti e del commercio favorendo la costruzione delle imbarcazioni mercantili regnicole. In una inchiesta del 1727, pubblicata da Antonio Di Vittorio (1973: 401-403, tab.466-467-468), si può evincere la consistenza della marina mercantile meridionale, molto sviluppata soprattutto nell’isola di Procida e nella costiera sorrentina.
Tabella 1
Popolazione marinara (marinai e pescatori) e Marina mercantile 1727
Terra di Lavoro |
Principato Citra |
||||||
Città |
Padroni di b. |
Marinai |
Barche |
Città |
Padroni di b. |
Marinai |
Barche |
Gaeta |
197 |
967 |
33 |
Salerno |
5 |
26 |
4 |
Ischia |
37 |
198 |
38 |
Vietri |
- |
- |
- |
Lacco |
16 |
62 |
8 |
Maiori |
18 |
144 |
13 |
Casamicciola |
16 |
95 |
16 |
Minori |
2 |
- |
10 |
Forio |
35 |
158 |
48 |
Atrani |
7 |
46 |
7 |
Procida |
- |
- |
102 |
Amalfi |
- |
32 |
8 |
Pozzuoli |
89 |
135 |
135 |
Conca |
10 |
92 |
32 |
T. del Greco |
3 |
24 |
3 |
Praiano |
22 |
88 |
- |
Torre Ann. |
15 |
63 |
10 |
Furore |
2 |
6 |
2 |
Cmare |
62 |
404 |
64 |
Positano |
45 |
442 |
45 |
Vico |
39 |
406 |
38 |
Anacapri |
8 |
69 |
8 |
Piano |
85 |
896 |
86 |
Capri |
35 |
150 |
34 |
Sorrento |
21 |
117 |
51 |
|
|
|
|
Massa L. |
21 |
230 |
41 |
|
|
|
|
A Torre del Greco si contavano 125 padroni di feluche coralline ed altrettante imbarcazioni con 1000 marinai
Dopo la costituzione del regno indipendente (1734) il re Carlo e i suoi ministri ripresero le idee mercantilistiche già elaborate in epoca austriaca, dando particolare attenzione alla riorganizzazione dei principali porti, alla ricostruzione della flotta, necessaria per la difesa dei convogli mercantili e delle coste del regno, e della marina mercantile, necessaria in primo luogo per i rifornimenti annonari (soprattutto grano e olio) provenienti in massima parte dalla Puglia (Trizio, 2019), su navi sorrentine, a cui si aggiungevano i prodotti siciliani (Lentini, 2020). Di solito si usavano le tartane ma poi cominciarono ad essere costruite anche grosse imbarcazioni, pinchi e polacche (Sirago, 2021), soprattutto a Castellammare e nella costa sorrentina, a Piano e Meta, che cominciavano ad intraprendere nuove rotte.
Nel 1741 fu emanata una prima prammatica in cui si prescriveva che le imbarcazioni dovevano ottenere un permesso, da rinnovare ogni due anni, per i viaggi che intendevano intraprendere. L’anno seguente fu decretato un Regolamento, rinnovato nel 1751, 1757 e 1759, e fu creato un comitato che doveva controllare l’operato dei capitani, obbligati a loro volta a redigere un giornale di bordo. Infine, nel 1751 fu fondata una «Compagnia di assicurazioni marittime» per regolamentare il commercio. Per contrastare gli assalti di turchi e barbareschi fu data particolare attenzione alla costruzione di imbarcazioni di navi attrezzate a reprimere la “guerra di corsa”. Fu incrementata la costruzione di fregate, tartane, galeotte armate con petriere e cannoni insieme ad alcuni vascelli che dovevano “scorrere i mari” in caccia dei nemici e proteggere la marina mercantile. Poi si iniziò a costruire gli sciabecchi, su modello spagnolo, velieri mediterranei di origine araba, a prua slanciata, a tre alberi, talvolta con un piccolo bompesso, molto manovrabili e veloci, con una ciurma ridotta rispetto alle galere e galeotte (Ferrandino, 2008: 21; Sirago, 2019: 514ss.)
Per il commercio di cabotaggio si usavano le tartane e le feluche. Ma a partire dagli anni Quaranta vennero concesse franchigie per incrementare la costruzione di navi mercantili di grossa stazza, armate con 20-22 cannoni, da utilizzare per il commercio estero. Tra il 1752 e il 1762 furono costruite 444 imbarcazioni.
Le feluche e tartane erano costruite a Procida, le polacche e i pinchi di grosso tonnellaggio a Castellammare (dove anche i siciliani facevano costruire le loro imbarcazioni) e nella penisola sorrentina, a Vico, nella spiaggia di Equa, a Piano, nel cantiere di Cassano, e a Meta, in quello di Alimuri, dove esisteva una antica tradizione cantieristica.
Altre costruzioni si facevano nel golfo di Salerno, soprattutto nel porto di Vietri, ma i committenti erano soprattutto del borgo di Raito mentre quelli di Conca facevano costruire le loro imbarcazioni nel cantiere di Castellammare (Sirago, 2004; Passaro, 2019b).
Tabella 2
Costruzioni di navi mercantili tra il 1752 e il 1762 (Sirago, 2004)
Napoli |
C.mare |
Procida |
Ischia |
Vico |
Piano/Meta |
Vietri |
|
4 |
69 |
233 |
3 |
8 |
129 |
8 |
Le navi di maggior tonnellaggio, pinchi e polacche (tra i 3000 e i 5000 tomoli) [1], erano utilizzate per intraprendere le nuove rotte dei mari del Nord e del Levante. Una prima occasione si ebbe durante la “Guerra dei sette anni” (1757-1763) quando i mercanti napoletani, approfittando di una momentanea stasi del commercio inglese, cominciarono ad inserirsi nel commercio con le Americhe (Sirago, 2019).
A metà Settecento furono compilati i Catasti Onciari, una sorta di censimento, da cui si può ricavare la fisionomia delle “città di mare”. Ma spesso coloro che dichiaravano i beni in loro possesso omettevano di dichiarare le imbarcazioni, per cui la fonte non è del tutto esaustiva.
Tabella 3
Popolazione marinara e Marina mercantile a metà Settecento (Sirago, 2004, tabelle)
Terra di Lavoro |
Principato Citra |
||||||
Città |
Padroni di b. |
Marinai |
Barche |
Città |
Padroni di b. |
Marinai |
Barche |
Gaeta |
- |
- |
- |
Salerno |
- |
202 |
- |
Ischia |
- |
- |
|
Vietri |
- |
292 |
- |
Procida |
- |
- |
- |
Maiori |
2 |
69 |
3 |
Pozzuoli |
38 |
158 |
36 |
Minori |
4 |
41 |
- |
C.mare |
4 |
511 |
5 |
Atrani |
- |
94 |
- |
Vico |
5 |
301 |
8 |
Amalfi |
- |
90 |
- |
Piano e Meta |
- |
1128 |
5 |
Conca |
1 |
164 |
- |
Sorrento |
10 |
177 |
17 |
Praiano |
6 |
325 |
10 |
Massa |
6 |
180 |
- |
Furore |
4 |
17 |
6 |
Capri |
- |
170 |
- |
Positano |
- |
534 |
- |
Anacapri |
- |
50 |
- |
|
|
|
|
Anche durante il regno di Ferdinando si continuò a dare impulso allo sviluppo economico e fu ampliato il commercio con l’estero, specie con la Svezia, dove venivano acquistati i cannoni per la flotta e le batterie costruite lungo il golfo partenopeo (Sirago, 2019). In quel periodo fu riorganizzata l’Accademia di Marina, fondata nel 1735 per gli ufficiali, e nel 1770 furono istituite le scuole nautiche di Napoli, a San Giuseppe a Chiaia, e nella penisola sorrentina, a Meta e Carotto, dove viveva una numerosa popolazione marinara (Sirago, 2022). Poi dagli anni Ottanta il ministro della marina John Acton stilò un “piano per la marina” con cui riorganizzò tutto il comparto, facendo costruire l’arsenale regio a Castellammare per la flotta, e dette impulso anche alla costruzione della marina mercantile, molto sviluppata a Castellammare e nella penisola sorrentina, dove si costruivano grosse imbarcazioni anche di 8000 tomoli che solcavano pure gli Oceani (Passaro, 2019b).
Tabella 4
Marina mercantile napoletana (1782-1799) [2]
Armatori
Napoli |
Gaeta |
Procida |
Cmare |
Vico |
Sorrento |
Conca |
Vietri |
48 |
24 |
221 |
24 |
35 |
303 |
28 |
20 |
Costruzioni
Napoli |
Gaeta |
Procida |
C.mare |
Vico |
Sorrento |
Conca |
Vietri |
5 |
28 |
236 |
145 |
24 |
225 |
2 |
17 |
Le Confraternite e i Monti. La città di Napoli
La capitale partenopea fin dall’inizio del dominio spagnolo aveva dovuto fornire le galere da aggregare alla flotta spagnola (Sirago, 2018a) contando su valide maestranze che fin dal 1486 avevano creato insieme ai capresi una “Confraternita di calafati”, una delle più antiche, in una cappella della chiesa “de la croce” [3] o della Immacolata Concezione, san Francesco e Santa Brigida nella Strettoia del Sedile di Porto (Mascilli Migliorini, 1992: 182).
Fin dall’epoca spagnola la Capitale era divisa in quattro zone, una settentrionale, una meridionale, i quartieri spagnoli e una fascia periferica. Le categorie professionali legate “all’arte del mare”, padroni di barche, marinai, pescatori e pescivendoli, erano dislocate nella zona meridionale, all’Arena, al Borgo di Loreto, in quelle di Portanova (nella zona del Mandracchio o porto mercantile) e Porto, in cui era compreso il borgo di Santa Lucia, e da fine Cinquecento in quella periferica di Chiaia. Tra fine Cinquecento e metà Seicento nei “processetti matrimoniali” su un campione di 10486 abitanti si contavano 580 marinai, il 5,%, 126 pescatori, l’ 1,3%, 13 barcaioli 17 gongolari (pescatori di vongole e altre conchiglie) e “pignatari”, 16 addetti ad altre attività, 17 calafati, 46 pescivendoli e 11 “salzumari” (salatori di pesce), in totale 809, a cui si aggiungevano gli addetti alla lavorazione del legno, tra cui i mastri d’ascia che «fabbricano vascelli, galere, barche, feluche» (Petraccone, 1974: 55-66).
In realtà la città di Napoli era esente dai pagamenti fiscali per cui non si può quantificare il numero degli addetti alle specifiche attività lavorative. Ma le Confraternite e i Monti possono dare un quadro della localizzazione dei vari “lavoratori del mare”. Gli addetti al commercio avevano costituito il “Monte degli Assientisti di mare e terra”, quello degli “Armatori, dei “Proprietari di bastimenti” e quelli dediti alla costruzione delle imbarcazioni avevano creato il Monte dei “Costruttori impresari di bastimento”, il “Monte dei Mastri d’ascia di mare” (falegnami), quello dei “remolari” (costruttori di remi), a San Nicola alla Dogana, e quello dei “Mastri calafati di navi” nella cappella dell’Immacolata Concezione a Santa Brigida, il più antico (Migliaccio; Sirago, 2004). In realtà a Napoli si costruivano imbarcazioni di piccolo tonnellaggio, dedite al commercio di cabotaggio e alla pesca. Ma molte maestranze lavoravano nell’arsenale dove si costruivano le imbarcazioni per la flotta.
Vi erano poi molti Monti dei “padroni di barca e marinai e fellucari (marinai delle feluche) nella zona del molo piccolo o Mandracchio (il porto mercantile), un territorio completamente trasformato dopo i lavori del “Risanamento” di fine Ottocento, che corrisponde alla via Cristoforo Colombo.
Alla “porta della Calce” (detta così perché si scaricava la calce prodotta a Castellammare) e san Nicola al Molo vi era il monte dei “padroni de felluche (imbarcazioni da trasporto) et barcajoli”, esistente fin dal 1615, il cui statuto fu riconfermato nel 1765 (Migliaccio, fs. 93). Un simile monte di “padroni di barche seu felluche e marinai”, esistente dal 1639, era stato fondato alla “Marina del vino” (Migliaccio, busta 4, fs. 92/22). Un monte per “Marinai del Molo” era stato eretto dai marinai spagnoli al “Piliero”, vicino al molo piccolo o Mandracchio, dove nel 1578 avevano eretto una chiesa dedicata alla vergine di Saragozza del Pilar, non più esistente (Galante, 1872: 326, Migliaccio, busta 4, fs. 93,20).
Altro importante monte dei marinai era quello fondato nella chiesa di Santa Maria di Portosalvo al molo piccolo eretta nel 1554 dai padroni di barca e marinai che l’avevano largamente sovvenzionata (Galante, 1872: 324-325, Migliaccio, busta 4, fs. 95/7), ancora esistente, riaperta al pubblico da poco, che conserva dei marmi policromi che raffigurano scene di vita marinara. Qui vivevano molti marinai ma anche “funari” (lavoratori di funi), mercanti di legna, falegnami di mare che lavoravano nel vicino arsenale (Petraccone,1974: 78).
Nel Borgo di Santa Lucia, una sorta di “corpo sociale a se stante”, isolato dalla città fino al 1620 (Clemente, 2020: 87ss.) vivevano numerosi “luciani”, che per l’80% esercitavano le “arti di mare”, nel 1576 avevano eretto la chiesa di Santa Maria della Catena (Galante, 1872: 381-82) in cui avevano fondato un “Monte di Padroni di felluche e marinai” insieme ai pescatori e ai pescivendoli, nel mese di settembre del 1708 [4] (Moschetti, 1981: 941).
Un cospicuo numero di napoletani era dedito alla pesca, esercitata con vari “sistemi”: vi erano i “rezzaioli” e “sciabicari”, del Borgo di Loreto o di Chiaia, che calavano le reti a sacco dette “sciabiche” su barche poste al largo o le tiravano da terra, i “palangresari” (i più poveri) che calavano il “palangrese”, una specie di paniere in cui venivano posti ami con lenze per la pesca del merluzzo, i “volantinari” che usavano delle righe lunghe fatte di filo, simili alle lenze, i “tartaronari”, che usavano una rete a sacco più piccola della sciabica, impiegata per pescare sarde, aguglie e palamidi, i “cannucciari”, che pescavano con la lenza o “volantino”(Sirago, 2018: 32).
Alcuni pescavano anche il tonno e lo ponevano in salamoia per cui fu creata una specifica confraternita dell’“arte delle scancarature di tonnina” (Sirago, 1993: 957). Il Borgo di Loreto raccoglieva un gran numero di pescatori. Qui inizialmente si raccoglievano le elemosine per pagare un medico e un cerusico (barbiere) per curare i marinai e pescatori ammalati. Poi nella parrocchia di Sant’Arcangelo all’Arena del Borgo di Loreto nella cappella dell’Immacolata Concezione “sotto titolo dell’Arcangelo Raffaele” era stato costituito un “Monte puramente laicale” dei marinai e pescatori «che si procuravano il vitto con la pesca: rezzaioli, palangresari, volontinari, tartaronari e sciabicari» i quali ottennero la riconferma del regio assenso il 24 gennaio 1766 e il 24 agosto 1786. Essi pagavano una quota cospicua ma necessaria ad affrontare i rischi del mestiere, che spesso li rendeva inabili al lavoro [5] (Migliaccio, busta 4, fs. 90/5, Casanova, 2014: 194, Rescigno, 2016: 288-289).
I “gongolari” o vongolari (pescatori di vongole e conchiglie) del quartiere Porto fin dal 1576 avevano fondato con regio assenso una Confraternita sita nella chiesa di Santa Caterina stilando un nuovo statuto, più articolato, nel 1661, quando su loro richiesta era stata regolamentata la pesca dei cannolicchi, praticata di solito dai pescatori di Chiaia, e proibito l’uso dei rastrelli “a mangano” che distruggevano la fetazione. Essi controllavano l’intero ceto dei pescatori di conchiglie nel tratto di mare tra San Giovani e la punta di Posillipo, evitando i soprusi degli altri pescatori [6]. Era una pesca specializzata rispetto a quella generica perché si configurava come una pratica di coltivazione del mare il cui raccolto era il risultato di un lavoro pregresso che giustificava il controllo delle aree “coltivate”; perciò veniva limitato lo sfruttamento della risorsa per garantirne la riproduzione e si impediva l’abuso individuale (Clemente, 2002: 554 e 2020). Alla Confraternita erano iscritti anche i pescivendoli e “cannucciari” (Casanova, 2015: 199). Ancora a metà Ottocento, dopo l’abolizione delle corporazioni (1/11/1825) i “vongolari” facevano ricorso contro le nuove leggi, secondo le quali 12 ”guardiamari” erano preposti al controllo, chiedendo che esso fosse effettuato secondo gli antichi sistemi della confraternita, per preservare questo tipo di pesca [7].
Santa Lucia era un popoloso borgo in cui vivevano i numerosi luciani dediti alla pesca e alla vendita del pescato in un luogo detto “pietra del pesce” (Petraccone, 1974: 77). Nel 1576 i marinai, pescatori e capiparanza della zona fondarono la chiesa di Santa Maria della Catena (Galante, 1872: 381-382) dove fu istituito un Monte gestito soprattutto dai ricchi pescivendoli (Migliaccio, busta 4, fs. 96/9, Clemente, 2002: 553 e 2020). I pescatori pagavano 2 carlini per ogni cantaro di pesce “ingabellato” (portato alla pietra del pesce dove si pagavano le dovute gabelle) [8].
Nel borgo di Chiaia, una zona periferica in forte espansione dalla fine del Cinquecento, viveva una numerosa comunità di pescatori. Nel chiostro della chiesa di Santa Maria in Portico verso la metà del Seicento era stata fondata una congregazione dei pescatori e marinai detta di Maria Santissima dell’Assunta in Cielo. Secondo la regola per cui nel 1792 era stato riconfermato il regio assenso, si specificava che la congregazione era solo “per persone appartenenti all’arte del mare” o ai loro figli marinai e pescatori e si stabiliva un pagamento di 12 grana mensili [9] (Clemente 2002: 554; 2020; Casanova, 2014: 191). La chiesa di S Maria della Neve fondata nel 1571 dai pescatori di Chiaia, divenuta parrocchia nel 1598, ospitava la congregazione di pescatori e marinai (Clemente 2002: 554). In questo luogo dove esisteva un convalescenziario dei gesuiti nel 1770 fu fondato il Collegio nautico di san Giuseppe a Chiaia per orfani di marinai e pescatori (Sirago 2022).
Altro ceto importante era quello dei pescivendoli poiché la vendita del pescato sottostava a rigide regole. I “capiparanza” incettavano tutto il pescato in quattro luoghi: la Pietra del pesce e la Pietra di marmo (nella zona del porto mercantile), la Pietra di Santa Lucia e la Pietra di Chiaia, e lo distribuivano ai pescivendoli che a loro volta davano gli scarti ai “bazzarioti” che li vendevano con le tipiche “spaselle”. Il sistema era strettamente legato a quello delle assise per cui il guadagno era limitato ai “capiparanza” o “parsonali” che prestavano il denaro per l’acquisto della barca e degli attrezzi (come si faceva con gli agricoltori col “contratto alla voce”). Il prestito era senza interesse ma nascondeva un vero e proprio controllo usuraio sui pescatori. A fine Settecento gli “agricoltori del mare”, come li definiva Francesco Mario Pagano, non potevano vendere al prezzo di mercato ma a prezzo fisso, secondo la qualità del pesce, da pagarsi in contanti ogni fine settimana. La durata del contratto variava da uno a tre anni, durante i quali il “parsonale” impegnava a mandare le sue barche a ritirare il pesce in un luogo scelto dal pescatore, a pagargli ogni anno 100 ducati come regalia e a concedergli di poter pescare per il proprio profitto per due o tre mesi all’anno senza consegnare il pesce, un sistema limitato nel 1788 quando fu abolita l’assisa.
La libertà del commercio del pesce migliorò le condizioni di vita dei pescatori, il ceto più povero. Uno dei punti di forza di questa abolizione, sottolineato dal Pagano era che bisognava mutare l’antico sistema e favorire la salagione del pescato, con la quale gli olandesi, i danesi e gli scandinavi si erano arricchiti, salando il baccalà e lo stoccafisso di cui i napoletani si cibavano nelle date prescritte dal calendario liturgico. Il Pagano propose di impiegare la rendita annua di 3000 ducati annui del “Monte di Santa Maria della Catena” a Santa Lucia a mare, forse il più ricco della città, per anticipare ai pescatori, con un modesto interesse, la somma necessaria per l’acquisto degli strumenti. Ma un cambiamento si ebbe solo dal 1806, quando fu abolita la feudalità e con essa tutti i diritti gravanti sulla popolazione, tra cui quelli “di mare” e sulla vendita del pescato (Moschetti, 2001: 259-260; Ferrandino, 2008: 17-19; Sirago, 2018b: 26).
Nel 1526 alla Pietra del Pesce “nel vicolo della Marina del Vino dietro la fontana della Loggia” fu edificata la chiesa di Santa Maria delle Grazie, detta anche di Santa Croce (Casanova, 2014:195), «dall’huomini che esercitavano l’Arte suddetta de’ Piscivendoli e capiparanza» (Galante,1872: 308-309). Secondo la regola della confraternita, che aveva ottenuto il regio assenso nel 1651, i pescivendoli quando entravano nella congregazione pagavano 6 ducati e poi un tarì per ogni cantaro di pesce da vendere [10]. La loro confraternita era una vera e propria corporazione mercantile che creava solidarietà fra i membri e ne difendeva l’interesse collettivo garantendo che nessuno dei partecipanti violasse le norme che regolavano la vendita del pescato (Clemente, 2002: 555). Nel fondo Migliaccio (busta 4, fs.94/22) è citato un Monte di “Pescivendoli e Terrrazzani seu venditori di pesci” nella strada del Porto esistente dal 1662, probabilmente lo stesso di Santa Maria delle Grazie.
Nel Borgo di Santa Lucia a mare presso la Pietra del pesce nella chiesa di Santa Maria delle Grazie Catena era stata fondata una confraternita per “capiparanza e pescivendoli” che si occupavano della vendita del pescato e pagavano 2 carlini per ogni cantaro di pesce venduto, somma raddoppiata nello strumento del 1738 [11] (Clemente, 2002: 554). E vi era anche una confraternita di “pescivendoli di Chiaia” (Migliaccio, busta 4, fs. 91/5).
Terra di Lavoro (odierne province di Latina e Caserta)
Gli abitanti della città di Gaeta, sia quelli del Borgo che quelli di Castellone e Mola (odierna Formia) erano dediti in gran parte alla pesca con una rete a strascico, la sciabica, trainata da due paranzelli detta “alla gaetana”, una attività fiorente fin dal Medioevo. Anche qui esisteva una Pietra del pesce dove si raccoglieva tutto il pescato rivenduto dagli incettatori. Ma esso era trasportato in gran quantità a Roma e a Napoli.
Nella chiesa di Santa Maria di Portosalvo, costruita nel Borgo, i “padroni di barche da navigare e di tartane da pesca” nel 1655 avevano ottenuto il regio assenso, riconfermato nel 1722, per la costituzione di un “Monte e congregazione sotto il titolo della Santissima Vergine della Consolazione” dedita alle opere pie, tra cui la “redenzione dei captivi”: i padroni di barca pagavano la quarta parte di ogni viaggio e i pescatori un quarto sulla pesca. Se una nave fosse stata catturata dai turchi si sarebbero dovuti pagare 300 ducati in tre anni agli interessati ma se l’imbarcazione era peschereccia si pagava la metà. Per ogni padrone si pagavano 150 ducati e per ogni marinaio 100 [12] (Migliaccio, busta 4, fs. 86/23, Di Taranto, 1999: 596). Un altro Monte per “barcaioli” e “pescatori cannucciari” era stato istituito a Castellone (Migliaccio, busta 4, fs .84/20 e Sirago, 2018b: 40-41).
Anche gli abitanti di Pozzuoli erano dediti alla pesca. Essi nel 1621 avevano fondato presso la darsena, nel rione terra, vicino alle banchine del porto, la chiesa dell’Assunta, detta anche “Chiesa della Purificazione a mare” dove nel 1654 avevano costituito una confraternita di “parsonari e padroni di rezze” ed una di “Valentinari Rezzaioli seu Tartaronari e Navaloidi seu Barcaioli” (Migliaccio, busta 4, fs.98/5), attività ben definite nel Catasto Onciario insieme alle 36 barche con tutti i loro attrezzi da pesca (Sirago, 2018b). Le due confraternite rappresentavano rispettivamente il ceto dei possidenti (venditori del pescato e padroni degli strumenti) e quello dei più umili pescatori.
Torre del Greco può essere, come è noto, definita “la città del corallo” (Sirago, 2006) visto che i suoi abitanti erano dediti alla pesca del corallo con le “feluche coralline” dotate di un “ingegno” armato con ami destinato a strappare il corallo dai fondali. Nel 1727 si contavano 125 padroni con altrettante feluche e 1000 marinai “corallari”. Il loro “monopolio” non derivava da privilegi ma dalla loro capacità organizzativa con cui avevano intrecciato una fitta rete di relazioni economiche tra le isole maggiori, Procida, Ischia e Capri e i centri pescherecci di Gaeta e Pozzuoli, Sorrento, Positano, Amalfi. Inoltre essi erano capaci di spingersi fino in Sardegna e Corsica per cercare nuovi banchi. Perciò era necessario tutelarsi dai rischi del pericoloso mestiere. Nel 1615 i padroni delle feluche ed i marinai avevano creato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie un “Pio Monte di felluche et barche, marinai e pescatori della Torre del Greco” (Migliaccio, busta 4, fs. 104/46), il cui statuto fu firmato da 27 contraenti, anche se il notaio affermava che erano solo gli armatori più importanti. I contraenti si impegnavano a versare un quinto per ogni viaggio e i marinai che pescavano nel Golfo partenopeo un quarto del loro compenso. Erano previsti i soliti sussidi, tra cui anche 50 ducati per il riscatto dei prigionieri. Nel 1639 fu redatto un nuovo statuto e la sede fu spostata nella chiesa di Santa Croce, poi nel 1673, dato l’aumento dei suoi componenti, nella Cappella di Santa Maria di Costantinopoli, grancia della parrocchia di Santa Croce, mantenendo il suo carattere laicale e difendendo gelosamente la propria autonomia rispetto al clero locale (Ferrandino, 2008). Una certa attività peschereccia vi era anche a Torre Annunziata, testimoniata dal Monte di “Padroni di barche, marinai e pescatori”, esistente dal 1614 (Migliaccio, fusta 4, fs. 103/7).
Il porto più importante, dopo quello della capitale, era quello di Castellammare di Stabia. Una delle attività lavorative più impegnative era quella della costruzione delle imbarcazioni. I mastri d’ascia di mare stabiesi avevano perfezionato la costruzione delle tartane, imbarcazioni che derivavano dalle antiche taride medievali, lunghe circa 15 metri e larghe 2,5 metri, della portata di circa 300 tonnellate, più grandi delle comuni tartane (ad un albero), dette anche “tartanoni”, con un albero di maestra e uno di mezzana, fornito di 10-12 remi, con 8-10 elementi di equipaggio: sulla poppa, riccamente adornata, vi era intagliata spesso la Madonna di Portosalvo. Poiché il costo di una imbarcazione era elevato, circa 2500 ducati, questo veniva diviso in più persone, dette “caratari” o “partiari” che firmavano un contratto notarile, così fondando una “Societas navigij”.
Il ricco ceto armatoriale stabiese, insieme ai marinai e pescatori, nel 1580 aveva creato una confraternita nella chiesa della S.S. Annunziata al Molo o Santa Maria, la “Confraternita dei Marinai, Pescatori e Padroni di Barche e Bastimenti” sotto il titolo di Santa Maria di Porto Salvo che aveva reperito i fondi grazie ad una tassa imposta su ogni nave che attraccava nel porto e veniva sostenuta dalla somma mensile erogata dai congregati che godevano dei benefici assieme ai familiari. Secondo le Regole “Ogni Nave, Navilio, Pinco, barca Tarcheja” pagava una quarta parte per viaggio, ogni “Gozzo Grosso di trafico per Napoli e luoghi convicini” un tarì la settimana, ogni “Guzzo latino” i piccoli cinque grana la settimana, i grandi 10 grana la settimana, ogni “filuca” un tarì la settimana, i pescatori pagavano “mezza parte per ogni rete Sciabica”, le “Tartane da pescare” cinque grana la settimana, nei giorni festivi pagavano mezzo quarto di tutta la pesca. Ogni marinaio che navigava su imbarcazioni straniere pagava una “cinquina a docato” del guadagno e quelli che rimanevano a terra facendo “la loro industria” pagavano cinque ducati l’anno [13] (Vanacore, 2007).
Le attività marinare erano molto fiorenti nella penisola sorrentina. Meta, definita da Biagio Passaro (2020) “un paese di naviganti”, insieme a Piano fino alla fine del Settecento facevano parte del territorio di Sorrento ma avevano sviluppato una diversa fisionomia. Nel Settecento i ricchi imprenditori facevano costruire imbarcazioni di grosso tonnellaggio (anche di 8000 tomoli) nei cantieri di Alimuri (Meta) e Cassano (Piano) con i quali compivano viaggi in tutto il Mediterraneo, fin nel Mar Nero e nelle Americhe. Alcuni possedevano imbarcazioni più piccole feluche e tartane, con cui caricavano le derrate alimentari soprattutto dalle Puglie per rifornire la Capitale. Questi ultimi a Meta a metà Seicento avevano fondato una congregazione di “Padroni e marinai di tartane e felluche” che ebbe la riconferma del regio assenso nel 1719 (Migliaccio, busta 4, fs.88/7). E a Piano era stato creato un “Monte di Marinai e pescatori”, con regio assenso del 1712 (Broccoli, 1893).
Invece a Sorrento, dove Carlo V nel 1520 aveva concesso alla città i diritti per il calo della tonnara, si era sviluppato un ceto di pescatori specializzati «cannucciari, marinai di canna, lenza, volantino, esca bianca, marinai di palamiti, marinai di tonnara» (Migliaccio, busta 4, fs.102/3, Broccoli, 1893). Essi avevano costituito una “Confraternita di marinai pescatori della Marina Grande e di marinai del Golfo della Marina Piccola” nella Cappella di san Giovanni in Fontibus sita nella chiesa di sant’Anna alla Marina Grande costruita a spese dei pescatori, ancora esistente, in cui potevano essere ammessi i marinai o pescatori di Sorrento. I marinai e pescatori della Marina Grande secondo la regola del 1742, rinnovata nel 1778, dovevano dare il guadagno ricavato da una parte della pesca, quelli della Marina Piccola dovevano pagare ogni quattro mesi una parte del ricavato dei loro viaggi [14].
L’isola di Procida insieme alla penisola sorrentina possedeva la quasi totalità della flotta mercantile del Mezzogiorno per tonnellaggio e per intensità di traffici. Gli abitanti tra Cinquecento e Seicento erano dediti soprattutto al trasporto del legname dalla costa laziale e al rifornimento della Capitale. Nel corso del Settecento avevano ampliato il loro raggio d’azione, arrivando a fine Settecento fino al Mar Nero (Di Taranto, 1985).
Nell’isola il 12 aprile 1617 era stata fondata una “Colonna del riscatto” per raccogliere i fondi per la liberazione dei procidani catturati, con regio assenso del viceré Osuna (Migliaccio, busta 4, fs. 100/15. Lo statuto pubblicato da Sergio Zazzera (2015) specificava i pagamenti che dovevano erogare gli affiliati, esclusivamente padroni di barche e marinai (“Nauta, … Navicularius vel Dominus Navis”), cioè la quarta parte del loro guadagno. Nel 1628 gli stessi padroni di barche e marinai eressero a loro spese la chiesa di Santa Maria della Pietà alla marina di Sancio Cattolico in cui fu eretto il “Monte dei padroni di barche, di feluche e marinai” che ottenne una riconferma del regio assenso nel 1673 [15]. Un ulteriore regio assenso fu concesso nel 1732 per i “Padroni di tartane e marinai tartanari”, che avevano incrementato i loro traffici con la “carriera (trasporto) della legna” per Napoli “e altri luoghi e “per la pesca nei tempi permessi” e dovevano dare al Monte la quarta parte del loro guadagno [16].
Il trasporto di legna e carbone dalle spiagge laziali aveva avuto un forte incremento (Di Taranto, 1985: 31-33): perciò in una consulta del 24 novembre 1737 Carlo Danza, prefetto dell’annona, riferiva di aver avuto dall’eletto del popolo l’incarico di soprintendere all’armamento del capitano Geronimo Alfano e di altri mercanti di legna e padroni di tartane e barche, tra cui quelli procidani, che rifornivano la capitale di legna e carbone trasportata dalle spiagge laziali, armamento con cui dotare le imbarcazioni, organizzato di solito in «tempi sospetti d’invasione, o di Turchi, o de ’nemici», da «mantenersi in futurum per sicurezza del commercio» [17] (Ciccolella, Clemente, Salvemini, 2021: 524-525, doc. 145). A fine Settecento sorse un lungo contenzioso perché i procidani, che avevano incrementato la loro marina mercantile, preferivano intraprendere lunghi viaggi più proficui invece di effettuare il trasporto di legna e carboni per la capitale. Perciò il governo rese obbligatorio effettuare almeno tre o quattro viaggi all’anno (Di Taranto, 1985).
Nel porto di Forio dell’isola di Ischia nella chiesa di San Gaetano era stato fondato un Monte di “Padroni di guzzi (gozzi) barche pescareccie e feluche da viaggio” che aveva ottenuto il regio assenso nel 1722, riconfermato nel 1757. I padroni nel 1634 dovevano versare mezzo quarto per ogni viaggio, nel 1722 un quarto e nel 1789 15 ducati annui. Secondo il regolamento per il riscatto dai corsari si pagavano 100 ducati per padrone e 50 per il marinaio [18]. (Migliaccio, busta 4, fs. 85/7, Di Taranto, 1999: 596 e 598).
Anche a Capri e nel suo casale di Anacapri esisteva una comunità di uomini di mare dediti alle costruzioni di imbarcazioni, al trasporto di derrate alimentari con le feluche e alla pesca, anche quella del corallo, sulle barche coralline di Torre del Greco (Sirago, 2004b). Altri venivano ingaggiati dai “paranzieri” luciani che pescavano nelle acque dell’isola con i loro paranzelli. I calafati capresi fin dal 1486 avevano fondato una confraternita insieme a quelli napoletani. A Capri nel 1679 era stato eretto un Monte di padroni e marinai di barche da trasporto e di pescatori (Migliaccio, busta 4. 83/12). Ad Anacapri nel 1726 era stato concesso il regio assenso per il Monte dei marinai, in cui si specificava il pagamento corrisposto dagli affiliati: quelli che navigavano nel golfo di Napoli con “barche, buzzi (gozzi) ed altri legni” pagavano 15 grana per ogni viaggio, per Castellammare 10, per Massa 5, per Minori 3 carlini, per altri luoghi mezza parte del guadagno del viaggio, per acquistare grano a Salerno per la città 5 grana; inoltre i marinai che navigavano su “navi forestiere” nel golfo napoletano pagavano il quarto del guadagno e quelli che navigavano fuori del Golfo 4 grana per ogni viaggio [19] (Migliaccio, busta 4, 81/17).
A Salerno, capitale del Principato Citra, vi era una numerosa comunità di pescatori. Qui il ceto dei “venditori di pesce” aveva costituito una confraternita i cui associati dovevano versare il “quarto de’ pesci”, cioè la quarta parte dell’utile ricavato dalla vendita del pescato [20] (Migliaccio, busta 4, fs. 101/7, Rescigno, 2016: 289). A Praiano e Vettica Maggiore vi era una numerosa comunità di pescatori: nel 1636 i padroni di barche pescherecce e i pescatori avevano fatto costruire una chiesetta sotto il titolo del Purgatorio in cui avevano fondato un Monte di Pietà detto “Monte de’ morti” per soccorrere i mendicanti, per il riscatto dei prigionieri presi dai turchi e per i maritaggi, a cui ogni affiliato contribuiva con la quarta parte del guadagno (Migliaccio, busta 4, fs. 99/15, Rescigno, 2016: 290, Sirago, 2020).
Ad Amalfi si praticava la sola pesca di sussistenza testimoniata dalla fondazione di una “Confraternita di pescatori cannnucciari”, mentre la tonnara che si calava a Santa croce era gestita da altri pescatori specializzati. Anche nel vicino casale di Atrani erano stati istituiti un “Monte di padroni di barche” (Migliaccio, busta 4. 82/11) e una “Confraternita di pescatori cannucciari” (Sirago, 2018b: 57). A Maiori era stata costituita la “Congregazione di san Giacomo o il Monte dei padroni di barche e marinai” nella chiesa di san Giacomo de Platea. Era stabilito un pagamento variabile in base all’età, ma si specificava che ogni barca da pesca doveva versare la quarta parte per ogni viaggio [21] (Rescigno, 2016: 289).
Nelle due terre di Maiori e Minori era praticata una certa attività mercantile, mentre la pesca rimaneva una attività di sussistenza. A Maiori era stata fondata una “Congregazione de’ Padroni di Barche marinai e Pescatori” dedicata a Santa Maria la Bruna. A Minori nel 1611 era stato impiantato un Monte “dei padroni di barche e marinai” di Minori, che aveva ottenuto la riconferma con regio assenso il 20 agosto 1752 in cui si specificava la quota da versare: la quarta parte di guadagno per ogni viaggio con le loro barche [22] (migliaccio, busta 4, fs.6). Ma spesso, con l’aumento dei commerci, le merci venivano caricate su barche “forastiere” dirette a Napoli, per cui i congregati evitavano di pagare il dovuto. Perciò nel nuovo statuto del 1752 si stabilì che il pagamento doveva essere effettuato in ogni caso, anche dai marinai che erano imbarcati su navi “forestiere” [23] (Rescigno, 2016: 290.291; Sirago, 2018b).
Conclusioni
L’uso di creare specifici Monti per le “arti di mare” era diffuso solo nei golfi di Napoli e Salerno, il che dimostra la vivacità di queste comunità marittime, attente alla tutela del proprio status, dato il mestiere faticoso e pericoloso, per il quale era necessario ottenere qualche garanzia di sopravvivenza per sé e per la famiglia. Vi sono pochi altri esempi nel Mezzogiorno. A Maratea, che risentiva delle abitudini in uso nel territorio campano e i numerosi “salzumari” portavano le derrate agricole a Napoli, nel 1738 i padroni delle “feluche da viaggio” avevano eretto un Monte per il cui sostentamento si impegnavano a pagare 10 carlini a viaggio (Migliaccio, busta 4, fs.87/5).
Altre due confraternite erano state fondate in Calabria, ma risentivano degli influssi della Capitale. Il caso di Parghelia, un casale di Tropea, era singolare. Qui si era formata una ricca comunità marinara che nel corso del Settecento aveva sviluppato una bizzarra tipologia di “viaggio di negozio” lungo il Tirreno, con soste a Napoli, Roma, Genova, Savona spingendosi fino a Marsiglia, dove alcuni paralioti avevano fondato “case di commercio” per la vendita di prodotti calabresi: vini, olio, sete, essenze di agrumi, telerie di cotone (Sirago, 2009; Campenni, 2021). In questa comunità il ceto dei “Negozianti e Marinai”, devoto alla Madonna di Porto Salvo, aveva impiantato una “Cassa sussidiaria” su modello delle confraternite napoletane e salernitane, pagando una quota fissa annuale di 30 grana [24]. Invece nella vicina Pizzo, dove si calavano due tonnare (Sirago, 2003: 435-436) si era formata una fiorente comunità di “pescatori specializzati”, rais e tonnaroti, che gestivano alcune tonnare napoletane, come quelle di Procida, Ponza e Castellammare (Sirago, 1999). Anche il ceto di padroni di barche aveva creato una Confraternita (Migliaccio, busta 4, fs. 97/5).
Dall’elenco delle confraternite attive presenti a Napoli tra il 1734 e il 1805 riportate in appendice da Daniele Casanova (2014) si evince che erano operanti 263 Confraternite, il che mostra un dinamismo dell’associazionismo laicale, soprattutto in ambito manifatturiero. Dopo la soppressione delle Corporazioni, il 23 ottobre 1821, delle “arti meccaniche” e quattro anni dopo di quelle “annonarie” si ebbe un periodo di disordini. Tra le “arti marittime” uno dei contenziosi più accesi era quello sorto tra la antica arte dei “Gongolari della Cappella di Santa Caterina, un contenzioso attraverso il quale si possono ricavare i sistemi di questa arte. I Governatori della Congregazione ai primi dell’Ottocento avevano presentato ricorso in merito ai sistemi di pesca, controllati dopo l’abolizione della congregazione (1825) da 12 “guardiamari”, chiedendo che si operasse uno stretto controllo secondo gli antichi sistemi da loro esercitati. Difatti fin dal 1661 era stato proibito il sistema di pesca dei cannolicchi con il rastrello, che distruggeva la fetazione di tutti i molluschi, un sistema che spesso veniva usato malgrado i divieti. Questo contenzioso, illustrato in un prezioso disegno, mostra quale fosse lo stato dei “lavoratori delle arti marittime” in epoca moderna e quali fossero le modalità usate per la loro difesa [25]. Ma i pescatori di Chiaia, esterni alla corporazione fin dal 1824 ottennero che si togliessero i divieti di pesca a quelli che non appartenevano alla corporazione, il che suscitò il lungo contenzioso, stigmatizzato da Carlo Afan de Rivera, che deplorava l’“anarchia” seguita al decreto di abolizione di Ferdinando e decantava la capacità di autoregolamentazione della confraternita (Clemente, 2010: 408-409).
Un altro caso interessante è quello del “Monte dei corallari” di Torre del Greco studiato da Vittoria Ferrandino (2008). Il ceto degli armatori e pescatori torresi, dediti ad una pesca faticosa e pericolosa, nel corso del Seicento aveva raggiunto un ruolo rilevante nell’economia cittadina, il che aveva permesso nel 1699 il riscatto della città dal feudatario tramite alcuni prestiti erogati dal Monte. Nel corso del Settecento si ebbe un ulteriore sviluppo e a fine secolo iniziò anche la lavorazione del corallo. La storia del Monte, legata a quella della cittadina vesuviana, permette di ricostruire le vicende economiche, politiche e sociali di quella che può definirsi la “città del corallo”,
In realtà lo studio delle corporazioni “marittime” permette di ricostruire uno spaccato dell’attività marittima del golfo partenopeo, di cui ci sono ancora tracce nell’economia di Torre del Greco, dove ancora oggi si lavora il corallo, ma anche nell’isola di Procida e nella costiera sorrentina, dove molti sono addetti alla “marineria”.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Abbreviazioni
ASN, Archivio di Stato, Napoli, CM Cappellano Maggiore
ASS, Archivio di Stato, Salerno
Fonti
Università di Bari Dipartimento di Giurisprudenza Biblioteca “Gennaro Maria Monti”, Fondo manoscritti “Migliaccio”, inventario a cura del dottor Michele Liberio, busta 4, fascicoli 81-104, citati da Broccoli A. e Moschetti C.M. Il fondo raccolto da Francesco Migliaccio dal 1870 al 1872 raccoglie numerosi statuti delle corporazioni reperiti nell’Archivio di Stato di Napoli, nell’Archivio Municipale e nell’Archivio dello Stralcio Arti e Mestieri (molti documenti non sono piùesistenti). Il fondo nel 1936 fu acquisito per opera di Gennaro Maria Monti al Seminario Giuridico dell’Università di Bari. Cfr. Vantaggiato E. (2008), a cura di, La Raccolta Migliaccio dell’Università degli Studi di Bari. Per una storia delle associazioni delle arti e mestieri nel regno di Napoli, Bari, Quaderni di Ateneo, Università degli Studi.
Note
[1] 25 tomoli corrispondono a 1 tonnellata di stazza lorda (Passaro, 2019a, p.42).
[2] ASN, Ministero delle Finanze, vol. da 1355 a 1420 (1782-1799): i dati sono frammentari a causa dei bombardamenti subiti da Napoli durante la Seconda Guerra Mondiale.
[3] ASN, Sommaria Consulte, 9, ff. 18-20, 29/9/1584.
[4] ASN, CM, 1186/85, 1708
[5]ASN, CM, 1206/139, 24/1/1766 e 1182/1, 24/8/1786.
[6] ASN, Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, 289/3, 1841.
[7] ASN, Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, 289/2, 2/6/1826 e 13/6/1831 e 3, 1841.
[8] ASN, CM, 1189/14, 1738.
[9] ASN CM 1185/82, 15/11/1792.
[10] ASN, CM, 1196/37, 18/11/1651.
[11] ASN, CM, 1189/14, 7/3/1738.
[12] ASN, CM, 1184/44, 1722.
[13] ASN, CM, 1182/5, 13/11/1767, regio assenso in cui è accluso il regolamento-
[14] ASN, CM, 1210/122, 3/7/1778.
[15] ASN, CM, 1189/67, 6/10/1673 con riferimenti al 1617.
[16] ASN, CM, 1189/67, 3/5/1732.
[17] ASN, Casa Reale Antica, 767/113, dispaccio del 21/11/1737 (in Ciccolella Clemente Salvemini, 2021).
[18] ASN, CM, 1209/77, 1722 e 1757.
[19] ASN, CM, 1189/23, 12/11/1726.
[20] ASS, Catasto Onciario, 3965, f.878.
[21] ASN, CM, 1202/76, 8/12/1782.
[22] ASS, Protocolli notarili, b. 286, f.100
[23] ASS, Protocolli notarili, b.3230, allegato al f.77.
[24] ASN, CM, 1192/115, 20/8/1786.
[25] ASN, Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, 289/3, 1841, e 10/1, disegno senza data.
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Sannazaro di Napoli, ora in pensione. Partecipa al NAV Lab (Laboratorio di Storia Navale di Genova). Ha pubblicato numerosi saggi di storia marittima sul sistema portuale meridionale, sulla flotta meridionale, sulle imbarcazioni mercantili, sulle scuole nautiche, sullo sviluppo del turismo ed alcune monografie: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2013; Gente di mare. Storia della pesca sulle coste campane, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2014, La flotta napoletana nel contesto mediterraneo (1503-1707), Licosia ed. Napoli 2018.
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