il centro in periferia
di Antonio Muscas
Ad oggi in Sardegna sono in attesa di VIA (Valutazione di impatto ambientale) ben 114 impianti per la produzione di energia da rinnovabile per una potenza complessiva di quasi 4 milioni di kilowatt: sono state infatti presentate richieste di autorizzazione per 20 impianti eolici e 92 parchi fotovoltaici, per un totale di almeno 11 mila ettari di superficie occupata. Tra i 20 impianti eolici è compreso anche un impianto a mare della Ichnusa Wind Power (nome di richiamo ma società milanese) di 42 aerogeneratori da 12mila kilowatt ciascuno per complessivi 504mila kilowatt (solo il primo di una serie che nell’arco di 10 anni prevede un totale di circa 700 aerogeneratori che dalla costa di Alghero si estenderanno fino a Teulada).
Visto così si potrebbe considerare un bel biglietto da visita nel processo di transizione ecologica dell’Isola e dell’Italia intera. E infatti, secondo il Ministro della transizione ecologica Cingolani, la Sardegna si appresta a diventare un’isola green, un gioiello tecnologico ed esempio scuola per il mondo intero.
Per raggiungere l’obiettivo basterà raddoppiare o triplicare la potenza da rinnovabile attuale. Ovvero, passare dagli attuali 2 milioni di kilowatt già installati, ad almeno 4-6 milioni. E perciò è auspicabile che ai progetti in corso se ne debbano aggiungere pure degli altri.
Cosa volete che sia? Dopodiché, accumulatori elettrici, cavo di collegamento al Continente e il gioco è fatto. Tempo di realizzazione? Tutto entro il 2030. Tutto bene, quindi? Non proprio.
Al momento non esiste un piano di transizione, neppure una bozza. E non esiste un accordo, neppure di massima, né a livello sardo e neppure italiano. Come a dire che comunità e amministrazioni sono state candidamente escluse da ogni forma di partecipazione. D’altronde, come lo stesso Cingolani ha avuto modo di spiegare in un’intervista rilasciata a La Nuova Sardegna, non ci sarà spazio per le mediazioni, verrà istituita la Soprintendenza unica per le opere legate al Pnrr al fine di accelerare i tempi autorizzativi ed esecutivi delle opere. «È meglio essere chiari – ha risposto Cingolani al giornalista che gli chiedeva se a decidere tutto sarà solo Roma – Non c’è un piano alternativo: se non facciamo quello che abbiamo promesso, perdiamo i soldi della Ue, usciamo dall’accordo di Parigi e saremo più deboli rispetto alle crisi future. So che decuplicare la quantità di rinnovabili da installare ogni anno è una operazione incisiva, ma è bene ripeterlo: tutti per ottenere un vantaggio certo devono rinunciare a qualcosa oggi».
E intanto, grazie alla totale assenza di scelte strategiche, oltre all’incontrollata proliferazione di impianti di ogni specie, con un ritardo di oltre 50 anni, si portano avanti anche i progetti di metanizzazione dell’Isola, per la realizzazione di una dorsale e diversi rigassificatori sulle coste, con Confindustria e il governo sardo che spingono per non perdere l’ultimo treno dei finanziamenti.
Per comprendere bene il quadro entro il quale si inserisce la proposta Cingolani è necessario però conoscere alcuni dati, a cominciare dal settore energetico, appunto, e dalla condizione infra- strutturale.
La Sardegna oggi arriva a produrre un surplus di energia elettrica con punte di oltre il 40% rispetto al proprio fabbisogno. Nell’Isola la produzione è garantita da tre grosse centrali a combustibile fossile e una miriade di impianti da rinnovabile. Secondo i piani del governo due di queste centrali, quelle alimentate a carbone di Porto Torres e Portovesme, dovranno chiudere entro il 2030, mentre la terza, la centrale Sarlux di proprietà della Saras, alimentata con gli scarti di lavorazione del petrolio – che continua a usufruire di sostanziosi incentivi pubblici perché, grazie ai CIP6, è equiparata agli impianti da rinnovabile – potrà continuare a lavorare indisturbata. L’aspetto particolare è che la Sarlux da sola soddisfa circa il 50% del fabbisogno isolano e lavorando praticamente sempre a pieno regime (oltre 7.000 ore all’anno), impedisce alle rinnovabili di produrre quanto potrebbero. Pertanto, quando è possibile, l’energia in eccesso viene trasferita tramite i cavidotti che collegano la Sardegna al Continente, diversamente gli impianti da rinnovabile devono restare spenti anche se, avendo diritto di immissione in rete, continuano a guadagnare come se stessero funzionando. Nella sostanza, perciò, la presenza della Sarlux, impedisce il pieno utilizzo delle rinnovabili e una corretta pianificazione del settore elettrico dell’Isola, oltre, chiaramente a costarci diverse centinaia di milioni di euro all’anno per via dei sostanziosi incentivi che riceve e dei lauti guadagni grazie alla vendita dell’energia elettrica.
In questo confusionario contesto, l’ulteriore incremento di impianti di produzione da rinnovabile non farebbe altro che generare maggiori complicazioni e non consentirebbe di produrre un solo kilowattora in più di energia rinnovabile.
A quanto sopra, è necessario e doveroso aggiungere il risultato dello studio pubblicato a luglio dalla Banca d’Italia: «Divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso», dal quale emerge la triste situazione della nostra Isola; in dotazioni infrastrutturali la Sardegna è infatti ultima in tutto: strade, ferrovie, porti e aeroporti, ospedali, gestione dei rifiuti, energia elettrica, telecomunicazioni, funzionamento rete idrica.
Le ragioni di questo divario, che penalizza anche tutto il sud Italia a favore del nord, risiedono soprattutto nella destinazione dei fondi infrastrutturali, in cui ad essere privilegiato è ovviamente il nord, nei tagli alla spesa pubblica e nella pessima qualità delle nostre amministrazioni locali.
E mentre l’attenzione è tutta concentrata sul turismo e sulle infrastrutture energetiche, la qualità della vita degli abitanti dell’Isola peggiora di giorno in giorno.
Ciò che è peggio, come ha riportato il Fatto Quotidiano in un articolo del 15 agosto, mentre il governo Conte aveva istituito il “fondo perequativo infrastrutturale” per destinare maggiori fondi al sud, con avvio entro il 30 giugno 2021, Draghi, col decreto governance e semplificazioni, ha rinviato i termini al 31 dicembre. E così, quando già i primi 24,9 miliardi del Recovery Fund sono arrivati all’Italia, l’unica certezza è che saranno destinati a creare ulteriore divario economico e sociale, consumare altro suolo e dare maggiore contributo all’inquinamento e al riscaldamento globale.
La crisi ambientale e la pandemia stanno rappresentando per alcuni un’ulteriore e ghiotta occasione per fare affari e prendere d’assalto territori e diritti, diventati questi ultimi un inconcepibile freno allo sviluppo. Le zone geografiche dove il recente assalto si sta concentrando sono le periferie dell’Italia, le aree rurali colpite pesantemente dalle difficoltà economiche e sociali e dallo spopolamento.
Difficoltà, come dimostrato dallo studio della Banca d’Italia, amplificate dal taglio drastico dei servizi: sistema socio- sanitario, medicina di base, istruzione, trasporti, servizi postali e bancari, e addirittura telecomunicazioni, e altri servizi, ove alcuni centri non hanno neppure copertura telefonica mobile e men che mai rete internet. In questi luoghi, considerati erroneamente senza speranza, un progetto di grande impatto e consumo di suolo diventa allettante, anche se la prospettiva sono la miseria di qualche migliaio di euro e, forse, una manciata di posti di lavoro.
La Sardegna, nonostante la vastità di territorio fertile e coltivabile, importa oltre l’80% dei prodotti alimentari, è tra le ultime regioni d’Europa in termini di reddito pro capite, con indici allarmanti di emigrazione, disoccupazione e abbandono scolastico e livelli d’istruzione da Paese sottosviluppato, si trasforma però in un paradiso in grado di regalare introiti milionari a chiunque arrivi qua a fare affari, si tratti di cibo, energia, turismo e altro ancora.
Prima che sia troppo tardi, abbiamo il dovere di interrogarci sul futuro nostro e di tutto il pianeta, e sui progetti che i governi sardo e italiano vogliono costruire sulle nostre teste. Su quali sono e a beneficio di chi, le ricadute sociali, economiche, occupazionali, paesaggistiche e ambientali.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Antonio Muscas, Ingegnere Meccanico e docente di materie tecniche per le scuole di formazione professionale. Attivista e componente di diverse associazioni che si occupano di tutela del territorio, dell’ambiente e dei diritti sociali, componente del direttivo dell’associazione Zero Waste Sardegna e già membro del Coordinamento Comitati Sardi. Scrive sul manifestosardo.org e altre riviste in rete.
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