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Le dame e i cavalieri di un Medioevo taroccato ovvero le nuove feste popolari

al-tempo-delle-festedi Mariano  Fresta 

Delle feste grandi e piccole, dal capodanno universale a quelle locali dedicate ai patroni, la demo-antropologia si occupa da molto tempo, in quanto esse sono sempre apparse come una delle manifestazioni più importanti della cultura antica che alla fine del diciannovesimo secolo abbiamo ritrovato depositate nella moderna cultura popolare. Ampia, quindi, è la letteratura che, da Frazer in poi, le è stata dedicata. Ma i criteri che sono stati utilizzati per studiare il fenomeno negli anni passati mal s’adattano alle feste moderne, perché, mutata la società, sono cambiati anche gli scopi per i quali si organizzano gli eventi festivi. Fabio Mugnaini, docente di Storia delle tradizioni popolari all’Università di Siena, ha per un decennio svolto proprio su queste nuove manifestazioni una ricerca della quale ci offre ora i risultati nel volume Al tempo delle feste. Etnografie del festivo in Toscana, Pacini Editore, Pisa 2024 [1].

Il fenomeno di queste nuove feste cominciò ad interessare l’Italia, a livello di cultura popolare e di massa, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso; esse si mostrarono da subito molto diverse da quelle presenti nel mondo popolare e contadino. Dopo il tracollo del sistema agrario, qualcuna delle feste antiche fu riproposta nei primi anni settanta del Novecento, ma ebbe breve vita, perché ormai la cultura contadina viveva solo nella memoria e nella nostalgia degli anziani, mentre cominciava a diffondersi l’impulso prepotente di un nuovo stile di vita e di una nuova cultura, suggerita dai mass media, che si mostrava più accattivante e più “moderna”.

Le nuove feste in genere sono state ideate e organizzate dal basso e collegate ancora a vecchie tradizioni ormai obsolete, o, più spesso, si sono rifatte a tradizioni più o meno inventate, purché avessero un qualche vago legame con la storia delle comunità proponenti. Ma per rispondere al perché sono nate queste numerose e variegate manifestazioni occorrerebbero lunghe e complesse considerazioni di natura storica, sociologica e antropologica: qui mi limito a dire, prendendo a prestito le parole dell’Autore del libro, che le celebrazioni festive «sono una pratica di produzione e consumo culturale consustanziale alla vita sociale stessa, che trova di volta in volta, nelle più svariate condizioni storiche e politiche, i modi per realizzarsi, in quanto esperienza sociale». Inoltre, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale le feste antiche erano state quasi del tutto azzerate ma non era stata eliminata l’esigenza di celebrarle; e poi la rapida trasformazione economica e sociale, susseguitasi dopo il conflitto mondiale, aveva generato un bisogno culturale che era necessario soddisfare con la ripresa, in ogni comunità, di avvenimenti che tenessero uniti i suoi membri attorno a qualcosa in cui potersi riconoscere.

Fare la storia di tutte queste feste, dal 1980 ad oggi, non è semplice ma Fabio Mugnaini ci è riuscito, anche perché si è posto precisi limiti geografici, pur se spesso fa riferimento a feste che si celebrano, oltre che nel nostro Paese, nelle varie parti del mondo, e fa qualche incursione più profonda in alcune regioni europee (soprattutto in Francia e in Spagna); il suo lavoro più lungo, protrattosi per più di un decennio, si è svolto in Toscana, sua regione natia oltre che terreno di elezione della ricerca. Questa regione è, infatti, quella più ricca di avvenimenti festivi che rievocano vicende del passato, sorti un po’ dovunque, grazie al sempre vivace spirito campanilistico delle sue contrade e alla peculiarità urbanistica ed edilizia di tutti i centri, grandi e piccoli, risalenti al Medio Evo e al Rinascimento; che sono, poi, i periodi storici che maggiormente suggeriscono storie, più o meno verisimili, da narrare e rappresentare. 

Mugnaini, prima di affrontare l’analisi delle feste studiate, si chiede cosa sia la “festa”. Nella realtà questo termine indica molte cose, perché esso è usato per indicare anche le sagre, le fiere, le feste religiose, comprese quelle in onore dei patroni; ed è proprio partendo da questa difficoltà a formulare una risposta che inizia le sue riflessioni:

 «La festa è, occorre dirlo, un oggetto di ricerca falsamente familiare, che – al contrario di altri temi vicini al vissuto di chiunque (ricercatori e studiosi compresi) come le fiabe, per esempio –,  non è protetto da alcun lessico tecnico né da uno strumentario analitico specifico (come, per le fiabe, possono essere le funzioni proppiane e la classificazione Aarne-Thompson); è inoltre un tema onnipresente e pervasivo: pochi sono i terreni di studio o gli ambiti tematici che possono ritenersi indenni dall’obbligo di fare i conti con una loro ‘traversabilità’ o ‘traducibilità’ nei termini dei più ricorrenti modi di intendere e identificare la festa».
Arezzo

Arezzo, giostra del Saracino

Dopo una disamina generale sui tanti tipi di festa e dopo aver dato conto degli studi precedenti e dei convegni ad essi dedicati, Mugnaini comincia a renderci edotti sui risultati delle sue ricerche mettendo a confronto fra loro tutte le feste per evidenziarne le affinità e le diversità, nel tentativo di estrarre da questa serrata comparazione l’essenza stessa della festa che si nasconde dietro la varietà delle rappresentazioni. Oltre alla comparazione l’Autore svolge anche alcune necessarie considerazioni sul concetto di tempo, termine che compare programmaticamente nel titolo stesso del volume. Il tempo è da lui considerato nel suo duplice significato, quello semplice di data calendariale in cui cade la ricorrenza della festa; e quello più complesso inteso come tempo lungo, da un anno all’altro, durante il quale la festa si evolve, si trasforma, perde ed acquista elementi, segue le mode e i suggerimenti derivati dai mutamenti della società. Così, seguendo il ripetersi annuale della festa, è possibile vedere i gradi della sua trasformazione e nello stesso tempo individuare le caratteristiche costanti con cui ciascuna si presenta.

Tutto ciò, quindi, rende difficile, o addirittura impossibile, dare della “festa” una definizione precisa, perché ogni evento contiene molte varianti, molte contaminazioni, per questo ognuno di essi va studiato antropologicamente per conto suo. Probabilmente nel passato la situazione presentava la stessa complessità, solo che essa ha cominciato ad essere studiata alla fine dell’Ottocento quando i folkloristi e i demologi vedevano e studiavano ogni evento  dell’espressività popolare come fenomeno pittoresco e strano, che non era necessario considerare come fatto collegabile al contesto in cui era nato e da cui aveva tratto alimento per svilupparsi; al massimo, rifacendosi alle ipotesi di Frazer, i fenomeni folklorici venivano visti come relitti di epoche lontanissime.

La Focarazza di Santa Caterina

Roccalbegna (Grosseto), La Focarazza di Santa Caterina

Se oggi tuttavia, resi esperti dagli studi precedenti, si effettua una ricerca sul campo, accurata e prolungata nel tempo, come ha fatto Mugnaini, è possibile, invece, distinguere i vari elementi che compongono le attuali manifestazioni festive, quelli che presumibilmente erano all’origine e quelli derivati da contaminazioni successive.  Nella focarazza di Santa Caterina, ad esempio, e nel bravio delle botti di Montepulciano e nella maggiolata diffusa in Maremma e in altre zone della Toscana e di altre regioni italiane, sono abbastanza evidenti le origini (certissime quelle del bravio inventato mezzo secolo fa) e quali invece gli elementi che via via si sono aggiunti al nucleo originario, tratti da altre tradizioni. Le tre feste, pur conservando la loro specifica natura, hanno anche qualcosa di affine che le avvicina. Le prime due si assomigliano per il forte agonismo su cui si basa la manifestazione; nel bravio, poi, è evidente che a ispirare il corteo in costume rinascimentale dei rappresentanti delle contrade, che precede la gara delle botti, sia stato proprio il teatro, che ha influenzato tante altre feste in costume storico. Anche nella maggiolata, pur nella sua apparente semplicità ci sono elementi di teatralità, tanto da essere stata catalogata, quando si studiava mezzo secolo fa, tra gli spettacoli popolari, insieme con il bruscello e il maggio drammatico.

L’influenza maggiore, come osserva Mugnaini, è stata però quella del Carnevale, che ha interessato la maggior parte delle feste, perché in queste ricorrenze, non solo quelle rievocative moderne, ma anche quelle più antiche e più vicine al mondo contadino il mascheramento è essenziale: la ricorrenza festiva, infatti, rompe con la quotidianità, non si lavora, si consumano cibi particolari e ci si maschera per diventare altra persona da quella che si è in tutti gli altri giorni. In questo senso, poiché in tutte le ricorrenze in cui si assumono ruoli diversi da quelli richiesti dalla quotidianità ci si traveste e ci si maschera, possiamo parlare di influenza del carnevale. Ma, fa osservare ancora Mugnaini, il mascheramento carnevalesco non ha più la caratteristica antica perché nelle feste moderne

«ha perso la sua carica di irriverenza, di dissacrazione, di blasfemia, essendosi trasformata in festa di divertimento» … cosicché il carnevale, paradossalmente, è diventato laico, «fortemente orientato al soddisfacimento di una fascia di popolazione sempre più giovane», insomma si è tramutato in loisir, semplice passatempo funzionale al turismo di massa».  

Se non è possibile trasformare in una definizione unica e onnicomprensiva il concetto di festa, si possono comunque riconoscere in ognuna di esse degli aspetti ricorrenti: il che ha consentito a Mugnaini di formulare la definizione di “festa emblematica”. Tale denominazione attraversa tutto il libro, a volte espressa in poche righe o in una nota, fino al capitolo La festa necessaria, nel cui paragrafo 4, Il decalogo della festa emblematica, essa è ampiamente formulata e spiegata. Da questa definizione si evince che la festa non è più l’espressione più o meno spontanea di una società culturalmente compatta come erano, o come sembravano essere, le feste legate al mondo agrario; adesso gli elementi che la compongono sono diversi ma fortemente intrecciati fra di loro: c’è ancora la spontaneità, ma ad essa si accompagna la necessità di una robusta organizzazione e spesso il contributo finanziario degli Enti locali; insieme con una certa dose di improvvisazione in essa ci sono delle norme da rispettare che sono state incluse addirittura negli Statuti dei Comuni; adesso nella sua realizzazione ci sono scopi e interessi economici, finalità turistiche e di rappresentatività della comunità organizzatrice che impongono decisioni e comportamenti sconosciuti alle vicende festive di mezzo secolo fa.

Le feste sono diventate “emblematiche” e normalizzate per un processo di evoluzione conseguente agli scopi nuovi che le comunità si prefiggono, ma certamente dai primi anni di questo secolo una buona influenza su questa trasformazione si può addebitare anche all’Unesco e alle relative pratiche di “patrimonializzazione” dei cosiddetti “beni intangibili”, tra cui si annoverano le feste. Se da una parte le iniziative dell’Unesco sono positive e condivisibili, perché esortano alla tutela e alla salvaguardia di eventi culturali molto importanti, dall’altra il fatto che si ricorra alla patrimonializzazione per avere un titolo in più da spendere per le attività turistiche e speculative desta qualche perplessità. Sempre nel capitolo ottavo, Mugnaini a lungo discute di tutte le questioni teoriche e pratiche che le iniziative Unesco hanno posto agli studiosi di antropologia; tra queste suscitano maggiore preoccupazione quelle che lasciano spazi alle proposte di riconoscimento di una identità che esiste solo nella mente degli organizzatori, come dimostra l’esempio riportato della “festa dei Veneti”: la divertente disamina che ne fa Mugnaini mette in evidenza che gli elementi che la compongono costituiscono il paradigma delle incongruità cui si ricorre quando si vuol dare corpo a qualcosa che non esiste.

Secondo l’Unesco “i beni culturali immateriali” sono tali perché creati dal “popolo”, che possiede la spontaneità, la fantasia e la cultura per realizzarli, ma non i mezzi per fissarli e salvaguardarli (e forse non ci pensa nemmeno a farlo). Ma se attualmente le feste si possono organizzare solo se si partecipa ai concorsi per avere i finanziamenti degli Enti Locali e si devono seguire le regole approvate dai Consigli comunali, buona parte della loro “popolarità” va perduta; quello che resta va perso ugualmente se alla festa si può partecipare pagando un biglietto e sedendo in tribune appositamente costruite.

Il Carnevale di Foiano

Il Carnevale di Foiano della Chiana

Il Carnevale contadino non era certo una manifestazione che attirava l’attenzione dei più: le leggende parlano di grandi abbuffate, di cibi succulenti, di chilometriche salsicce e di montagne di bistecche di maiale e di fiumi di vino; la realtà era un’altra cosa, tanto che i vecchi, come ricorda Mugnaini, dicevano ironicamente che «chi non aveva ciccia – ammazzava il gatto». La ricorrenza, però, era osservata, perché era un’occasione di sfogo dissacratorio, era un’opportunità di stare insieme e divertirsi, rompendo la monotonia del lavoro quotidiano e la solitudine dovuta alla dispersione delle famiglie mezzadrili negli isolati poderi delle campagne toscane; si ballava, infine, fino allo scoccare della mezzanotte del martedì grasso che separava il periodo del divertimento da quello della penitenza, della Quaresima.  Il Carnevale di oggi ha poco di originalità e di spontaneità: in genere si imita in piccolo la sfilata dei carri di Viareggio, aggiungendovi magari il bruciamento di un fantoccio di cartapesta dopo la lettura di un testamento né satiricamente critico né graffiante, simile a certe battute da rivista televisiva. Qualche attenzione merita, comunque, il Carnevale di Foiano della Chiana (prov. di Arezzo), il più antico e quello che accanto alla sfilata dei carri presenta convegni ed incontri culturali, che sono iniziative certamente benemerite ma al di fuori della tradizione popolare.

La parte più importante del libro è quella che riguarda la decennale ricerca che Mugnaini ha dedicato alle feste cosiddette storiche o rievocative di vicende e costumi di qualche secolo fa. Il periodo maggiormente scelto da rappresentare è il Medioevo, un’epoca ancora misteriosa per chi non ha letto Le Goff e gli altri annalisti, così che se la rievocazione presenta vicende poco verisimili nessuno si scandalizza: l’importante è che gli armigeri abbiano elmo e spada e le dame sfoggino tessuti e vesti che appartengono più alla Firenze medicea e al Rinascimento che ai secoli XII e XIII. Più che una rappresentazione realistica del Medioevo si tratta spesso di arbitrarie manipolazioni con le quali si costruisce una finta epoca storica con tutti gli elementi suggeriti da oniriche visioni nate non da studi storici ma, forse, dalle immagini che la pittura, da Giotto a Raffaello, ha fissato sulle tele e gli affreschi delle chiese.

Mugnaini ci informa che in altri Paesi alle rievocazioni storiche si dà un carattere didattico-culturale, nelle feste italiane questo non succede, e meno male, vista la superficialità con cui il tema storico viene affrontato. Succede, invece, che la festa abbellisca il passato per presentarcelo purificato da ogni contatto con la realtà storica, per far «muovere persone viventi come personaggi dipinti negli affreschi, senza volere – né lo potrebbe – scendere in profondità. Il passato è un ingrediente del festivo, non un impegno conoscitivo, spesso una scorciatoia, una mossa euristica, per fare prima, meglio, come gli altri».

Tra tutte le feste rievocative studiate da Mugnaini ce ne sono almeno due che meritano di essere menzionate. La prima è quella di Sarteano, La giostra del Saracino, già esistente nella prima metà del Novecento come festa agraria, tanto da meritare il plauso del fascismo. «Le testimonianze orali parlano davvero di una festa estiva che celebrava delle abilità connesse al controllo del cavallo, affinate nell’ambito dei lavori di fattoria e, in generale, connessi al mondo rurale». La festa muore nei primi anni Sessanta (in concomitanza, verrebbe da pensare, con la fine della mezzadria); rinasce negli anni Ottanta del secolo scorso, sulla scia di altre simili manifestazioni, ma con gli orpelli storico-medievali diventati nel frattempo di moda.

La ciambragina di Serre

La Ciambragina di Serre

L’altra festa è quella di Serre, frazione di Rapolano, famosa per le sue cave di travertino e di marmo. Anche questo villaggio organizzava un festival estivo che ebbe però vita breve, perché fu sopraffatto da quello più importante del capoluogo comunale. Dopo qualche anno di pausa gli abitanti di Serre ci hanno riprovato ricorrendo al solito Medioevo, ma in maniera piuttosto originale. Non hanno monumenti di importanza storica, tranne un palazzo signorile dall’architettura falso-gotica, come si usava nel senese tra Ottocento e Novecento, e l’unica vicenda rappresentabile è quella di un matrimonio di un antico borghigiano con una donna francese di Cambrai (in dialetto, “la Ciambragina”): così ricorrono al mascheramento totale, al camouflage. Chi va a Serre nel periodo della manifestazione non trova più il villaggio odierno ma un borgo “realisticamente” medioevale: una volta varcate le porte (queste sì veramente medioevali) ci si trova immersi in botteghe medievali, si comprano cibi con moneta medievale, appositamente coniata, si vedono spettacoli di piazza come quelli di tanti secoli fa. Tutto ciò consente di evitare l’agonismo, di dividere il paese in contrade, di esacerbare quel tipo di campanilismo che vede anche gli abitanti di una via in contrasto con quelli della via accanto.  Tutto è semplificato; così scrive Mugnaini: 

«si vuole solamente ripristinare un meccanismo di attrazione di visitatori, attingendo al bacino territoriale limitrofo, e per farlo si mette a frutto la risorsa urbanistica: ci sono alcuni angoli interessanti e suggestivi; c’è un evento storico, risultante dagli atti della storia locale: c’è un matrimonio». 

In alcuni capitoli del libro l’Autore ci racconta minutamente come sono nate certe feste. Nel caso del bravio delle botti di Montepulciano non solo ripercorre le circostanze in cui è stata inventata la festa (con una piccola distrazione: il bravio si corre non nella ricorrenza di san Donato, patrono di una contrada, ma in quella di san Giovanni decollato patrono della città), si occupa anche di antropologia dello sport e del corpo destinando il suo studio ad un atleta che si dedica, come spingitore, alla corsa delle botti.

Corredandola con le interviste agli ideatori e ad alcuni organizzatori della manifestazione, è più lunga e più articolata la descrizione del Palio dei somari di Torrita di Siena, una festa abbastanza recente in cui predominante è la parodia del Palio più prestigioso e famoso, quello di Siena. Tra l’altro, la stessa manifestazione senese ha dato lo spunto ad altre comunità di esprimere lo spirito ironico toscano, con organizzazioni di gare non solo di asini ma perfino di maiali, senza però riuscire ad eguagliare l’importanza di quello di Torrita.

Il Palio dei Somari di Torrita Senese

Il Palio dei Somari di Torrita di Siena

Il finale del libro ha poco a che fare con l’atmosfera gioiosa delle feste. La pandemia del covid per due anni ha bloccato quasi tutte le attività sociali, anche le feste primaverili ed estive ed il turismo. Si è spento anche il Palio di Siena, la “festa-faro” come la chiama Mugnaini. Se l’attività delle altre feste occupa solo un breve periodo antecedente i giorni della manifestazione, attorno al Palio si vive per tutto l’anno, le contrade restano aperte per attività sociali e culturali; a chi non è senese certe cose appaiono strane, insensate, come il laico battesimo dei bambini, effettuato nella sede della contrada,  che li lega per tutta la vita alla contrada, la veglia al cavallo nella notte antecedente il palio, le scazzottate in Piazza del Campo, un tifo che trabocca nel fanatismo, ecc. Durante il Covid c’era il silenzio, non c’erano sbandieratori né tamburini, né cortei di cavalieri e gentildonne; ma sotto la coltre del silenzio e della paura, le contrade del Palio erano in fermento: se nelle altre città ci furono episodi di volontariato, forse di eroismo, a Siena tutti si dedicarono silenziosamente agli altri, nessuno fu lasciato solo. La vita contradaiola fa sì che tutti si conoscano, che tutti sappiano le condizioni di vita degli altri e così, in caso di emergenza tutti sanno come muoversi, come soccorrere chi ha bisogno di una medicina o di un pasto caldo o di un po’ di compagnia. Al tempo del covid a nessuno a Siena mancò la solidarietà degli altri. Ecco, forse ci appaiono strane le cose che avvengono a Siena, dal battesimo contradaiolo, al Te Deum cantato nel famoso Duomo in onore della contrada vincitrice, alla pazza e selvaggia corsa che per due volte l’anno fa riempire di folla la conchiglia di Piazza del Campo: ma se queste strane cose sono capaci di creare solidarietà, che ben vengano. E con questa confortante informazione finisce il libro di Mugnaini. 

Il Palio di Siena

Il Palio di Siena

Per concludere, per la ricchezza delle informazioni sulle feste moderne in Toscana e per l’ampiezza di una bibliografia che comprende moltissimi studiosi italiani e stranieri il libro può benissimo essere considerato come una summa a cui ricorrere per le verifiche teoriche, e insieme come una vasta casistica per l’elenco delle festività presenti in molte regioni del mondo e delle loro modalità di celebrazione e degli scopi più o meno espliciti che si prefiggono. Soprattutto notevole è la quantità delle citazioni, che appare non come lo sfoggio di un erudito di altri tempi, ma come complesso di considerazioni fatte proprie dall’Autore per rafforzare le sue riflessioni personali.

Se c’è un appunto da fare al lavoro di Mugnaini, esso riguarda, sia la struttura del libro, sia alcuni aspetti dell’esposizione dei contenuti. Il volume, infatti, è il risultato di un assemblaggio di testi composti in epoche diverse, in alcuni dei quali l’Autore ritorna a trattare gli stessi temi. Vero è che ogni volta che si ripete sullo stesso argomento ci sono apporti nuovi, ma un’impostazione diversa, strutturalmente più unitaria, magari riutilizzando gli stessi saggi come corredo essenziale per lo sviluppo del tema, avrebbe reso il libro più uniforme e più omogeneo. Le molte ripetizioni, insieme con un’esposizione dal periodare a volte complesso, rendono la lettura un po’ faticosa. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Note
[1] Il libro parla di tanti tipi di feste, ad esclusione di quelle liturgiche della Chiesa cattolica e di quelle, a carattere religioso, che le comunità dell’Italia centro-meridionale dedicano ad un patrono.

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. É stato edito nel 2023 dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.

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