Il più fresco volume narrativo di Lia Tosi, Danze al buio (Mimesis, 2023), si apre su un trio di teen-agers impegnati a snidare, tra il serio e il faceto, al passo di un esergo ‘rubato’ alle Epistulae ex Ponto («in tenebris numerosos ponere gestus, | quodque legas nulli scribere carmen, idem est»), l’ombra di Ovidio esule a Tomi. L’esperienza «delle immense lande vuote, della danza al buio» costituisce per Clara, capintesta e medium del sortilegio, l’emblema di una vita appesa al «danzare nel buio», al «ballo da sola» che nell’epilogo si riverbera su altri complici di stregonerie, il gruppo di anziani veduti «entrare e sparire nella nebbia, quasi cappotti danzanti in un latteo buio».
La posizione del poeta sbalestrato nel «grande lontano», la waste land che lo rende alieno e quasi invisibile, può a sua volta farsi icona di un’impresa letteraria semi-clandestina, inaugurata da due romanzi «distribuiti in forma di samizdat» [1], ossia dalle edizioni «fuori commercio» la cui sigla Aoristo adombra forse l’assoluto storico, il nodo vitale sondato dal racconto. Il primo, Sonar le selve e le città gioire («finito di stampare» il 20 marzo 1991), abbraccia il decennio 1940-50, comprendendo nella «parte prima» l’entrata in guerra dell’Italia fino all’effimera ‘Repubblica di Montefiorino’ (17 giugno-1° agosto 1944) e nelle due altre distillando cronache dell’immediato dopoguerra. Il secondo, Inane («finito di stampare» il 6 dicembre 1993 e riedito da Polistampa nel settembre 2010, con il titolo Il signor Inane, accompagnato da una prefazione di Sandro Melani e da un risvolto di copertina di Giacomo Trinci), incontra lo spartiacque tra la conclusione degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Nel dittico, dunque, il ‘come eravamo’ vigila sul ‘come siamo’, il punto di partenza giudica l’attuale punto di arrivo.
Introdotto da una panoramica che rasenta il ‘largo’ iniziale dei Promessi sposi («Il viaggiatore che abbia il coraggio oggi di avvicinarsi al Convento delle Grazie, attraversando il prato coronato di castagni che gli si stende innanzi […], giri attorno all’edificio sino alla parte che guarda a mezzogiorno»), Sonar le selve e le città gioire si affaccia su un territorio che sparsi toponimi (Vinacciano, via tomba di Catilina, Palazzo dei Vescovi, piazza della Sala, lo stesso Convento delle Grazie), nonché i riferimenti alla «vista del campanile di Giotto» e alla «piana di Firenze», fanno agevolmente riconoscere per quello di Pistoia e del suo Appennino, presentando dapprima i due clan contadini – rispettivamente installati nella «casa del vento» (i ribelli Menicacci) e nella «casa castagnaia» (i moderati Ferri) – che testimoniano un mondo rimasto pressoché immutato nei secoli («Duecento, cento, sessanta, cinquanta anni fa»), per dare poi spazio agli attori che ne completano il contesto: il fattore Capecchi, i possidenti (l’innominato marchese e il conte Attilio), i fratelli Zaccagnini (la maestra Emilia e il «professore e preside» Guido), il prete don Bracci, il medico Raffaele Cellesi, il gruppo di partigiani (capeggiati da un icastico Papà Natale e comprensivi di un ammiccante Remo Tramaglino), il falegname Bigio, la tribù dei Gai (occupanti abusivi di una casa abbandonata durante la guerra).
Restituendo il clima dell’Italia liberata dal nazifascismo, lo squillante tripudio del titolo si annoda all’avvenimento cruciale del libro (culmine della seconda delle sue tre parti) non a caso ribattuto nelle ultime righe: «la notte che l’energia umana s’era trasformata in una fusione di speranze e volontà oneste, propellente pulito per una repubblica mai venuta, e il giorno del miracolo delle donne, in cui la stessa fusione era ascesa in un canto di libertà». Nel 1947, durante le lotte per la divisione del raccolto, un gruppo di donne si erano sdraiate lungo la strada per impedire la partenza del camion con i mezzadri arrestati, liberando «dai campi, dalle balze, dai prati che facevano corona, il canto dell’internazionale nell’azzurro, come di nuovo una fusione di sentimenti, d’intenti, avesse dato nella reazione prodotta energia umana di sogni, di volontà, che ora esplodendo benefica si spandeva nell’aria, a pregare la storia d’esaudire finalmente le utopie di giustizia».
Questo luogo pulsante – che riattiva i giorni della resistenza (liricizzati, sulla scorta di un celebre refrain partigiano, nel canto di Compagno vento, compagna bufera), e che fa pensare al memorabile «centro vivo» del memorabile Santa Mira di Gabriele Frasca – è il tempio di una religione laica, la «filologia civile»[2] di uno ‘sperato futuro’ da preservare a compenso della sua attuale inattualità; ma le ‘celebrazioni’ che vi fanno capo non sono affatto riti penitenziali da scrittura engagée o da socialrealismo, autorizzano anzi una vera festa del racconto, una gaudiosa processione colorata da una sorprendente pluralità di prospettive e di registri, euforizzata dalla «gioia della chiacchiera» bandita, in Danze al buio, da Clara anziana: un’impetuosa corrente che ci porta dove vuole. Le direttive del narratore onnisciente cedono così il passo alla vox populi dei «pare», «si dice», «sostiene», «ricorda», alla prima persona abruptamente chiamata ad esprimere i pensieri di un Capecchi, alla partecipazione patetica indetta dal «tu», alle lettere di Guido (che fanno avanzare la narrazione profilandone insieme il complesso carattere), alla personificazione delle preghiere di Nerida (che «brontolavano, non volevano, pretendevano si pregasse solo in chiesa o all’ora del rosario, e arrabbiate dicevano che era matta»).
E se il siparietto del ‘buon dramma di pessimo gusto’ imbastito dal duo Guido-Emilia si incarica di riassumere le sofisticazioni dei borghesi, i modi elementari dei subalterni si specchiano nei numerosi proverbi-tiritere (assunti nel titolo Filastrocche delle vecchie) [3], nella gara di versi da «esperti poeti estemporanei» improvvisata da Solatia e Aladino, nelle ottave che assecondano la fantasticheria di Torello a cavalcioni di un leccio (improntata al viaggio di Astolfo sulla luna), nel capitolo in versi Litanie domestiche (che illustra la dura condizione delle donne su cadenze da canzone popolare), nei toni fiabeschi attinti dal sogno di Furio bambino e da Il gatto tramontano, nei succosi vocaboli vernacolari («cuccumine»; «scorruccì; «pesa»; «intorvacchiato»; «biroldo»; «ganzare»; «disgarbava»; «sparlacciare»; «manfano»), nel secco espressionismo degli aggettivi-nomi («nel cupo»; «il maschile»; «il celeste»; «quei chiusi»; «sul terrestre») [4]. A mezza strada tra intellettuali e popolo, come a promuoverne l’incontro, stanno invece i rimandi, più o meno palesi, a vulgate della letteratura italiana: il «non spero, e non credo, ritornare» di Guido riconduce al «Perch’i’ non spero di tornar giammai» di Cavalcanti (altro Guido); «La terra ansante, livida, in sussulto» vista «trecento volte» da Torello (che rischierà di essere invitato «a recitare un albero a cui tendevi la pargoletta mano o una donzelletta in sul calar del sole») tradisce la sua lettura del pascoliano Il lampo, mentre di Leopardi parlano i «sovrumani silenzi» e la «profondissima sera» cui si abbandona e di Dante il paragone con le «colombe chiamate da simultaneo istinto» che raffigura il suo incontro con Ernestina.
A smentire ogni pretesa di ottimismo ideologico, il destino dei personaggi che saltuariamente emergono dal coro non è mai consolatorio: ciascuno balla a suo modo un ballo al buio, la giga del perdente. Ferrante, campione di forza, intelligenza e bellezza, è improvvisamente preso da un male oscuro e decide di partire per l’America, attraversando «un’invisibil porta che gli si chiuse dietro e non lo rese più»; Nerida, innamorata del mondo, non ha fortuna in amori che la vedono prima vedova bianca e quindi furtiva amante; Torello, partigiano e capopopolo per caso, rinuncia malinconicamente alla carriera politica che tutti gli pronosticavano, laddove Furio, che vi ha accesso, si sente una «brutta copia che prende il posto destinato a un migliore»; Guido, che gli altri tengono per poeta, si crogiola invece in uno sterile ozio, si considera «verbo inconiugato» e non scriverà «nemmeno un rigo». E le ruminazioni di Nerida sembrano il manifesto di un ‘pessimismo della ragione’: «Cos’era il nulla? Il nulla c’era. C’era sempre stato. Non ci voleva la patente dei filosofi per saperlo: c’era. Da tanto tempo la Nerida ne era al corrente. Dov’era? Non in un posto, ma dovunque, ubiquo come dio. Anche prima, sì, la sua vista d’indovina lo conosceva, l’informe immenso che avvolgeva con onda sorda e cieca la sua come la forma di tutti, isola minima fra altre, immersa nell’afono boato dell’oceanico niente. C’era, visto da pochi, ma c’era».
Da questo tangibile nulla che mina l’esistenza delle creature e i selciati della storia, parte, sin dal titolo (collegato al verso lucreziano posto in esergo: «namque est in rebus inane»), Inane. L’oscuro presagio di Nerida è ormai la realtà dichiarata nel traumatico preambolo, Estravagante (un inizio che Giorgio Bàrberi Squarotti considera «sfolgorante, mirabile, uno dei più belli che conosca») [5], con l’insegnante Maria Rossi aggredita da un orrendo vecchio evaso dallo «sfintere di Satana» per sbucare nella caldaia del suo condominio, «in cerca del «soglio mio… che fu di Pietro», e maledire il complice «Licio malnato» («Anima di peto di cui lassù Pistoia porta il brevetto e l’onta») che lo ha spinto a risalire in Italia per farne «bordello suo e mio»: un inferno terrestre in cui la mutazione antropologica che ha ormai travolto le speranze suscitate dalla resistenza e rianimate dal sessantotto si riflette nel metafisico vano che, insediato negli «spazi condominiali, corridoi, scale, ascensori, lasciati in balia dei vuoti muti», contagerà la lezione lucreziana della stessa Maria («luogo spazio o essere intangibile o immateriale, ubiqua estensione quod inane vocamus, che inane chiamiamo, è in ogni cosa e in ogni pieno, il negativo di dio?») e le riflessioni di Didaco («È cielo o vuoto?»; «Ma assai più spesso, ti confesso, ora, quasi sempre, assumo questa estensione come il grande (Magnum) vuoto (Inane). Non c’è orizzonte, non c’è scorcio d’infinito che io non pensi essere impatto col vuoto, bocche di respiro di Magnum Inane, del senza faccia infinito»), per ribaltarsi nel comico di un fantasioso «gruppo eversivo INANE, Internazionale Anarchica Escatologica», di detti fraintesi («Speriamo che tutto non resti poi un mistero inane»; «Mister chi? domandò il Magni, Mister Inanes? è coinvolto uno straniero?»; «Ecco che è, inane dei miei stivali, il tumore!»), o di una presunta indagine poliziesca (sul «signor Inane, presente e pare onnipresente in quei luoghi, sotto mentite spoglie forse, individuo inquietante e dai connotati incerti»), e chiudersi (all’insegna del lucreziano moenia mundi diffugiant subito magnum per inane soluta) sulla vertiginosa visione di Maria, protesa al «disvalore, che tutto disuna, dissona, dislega, dissolve, disanima, dispera», ai corpi che «tra le miste rovine di cielo e di terra» si dissolvono «traverso l’inane profondo».
La vicenda ha sempre dimora nella cittadina che, pur battezzata, dopo l’allusione al pistoiese Licio Gelli, «Pè» (con i suoi traslucidi «peèsi»), conserva i rivelatori toponimi di piazzetta della Sala, Torre del Capitano del popolo, vicolo de’ Fuggitivi, ma ruota ora – come si è anticipato, e come suggeriscono il paragrafo «Sotto Natale del ’90», l’accenno alla fine dell’URSS («Attento, occidente, attento. Non illuderti se questi ti hanno dato il Cremlino su un piatto d’argento») e altri indizi – intorno al 1990. Capovolgendo la prospettiva del suo gemello, l’azione è qui in gran parte assegnata al suo ambito urbano (effigiato, come giustamente scrive Sandro Melani, «con il gusto pittorico di un antico maestro di bottega, sensibile al fascino impressionistico dei giochi di luci ma al tempo stesso sorretto dal nitore visivo di chi in quei luoghi si è aggirato per anni»), con le terre appenniniche limitate al borgo di Ventanto «tutto restaurato secondo i canoni del rustico di vacanza», e con escursioni fiorentine e pratesi. Fra i personaggi si distinguono la nevrotica Maria Rossi e il suo politichevole marito Marcello, Didaco Puccini (titolare di una cartoleria e proprietario di una casa torre, le cui frustrate velleità intellettuali lo avvicinano, nella nomea di «nulla improduttivo e teorico», a Guido Zaccagnini), i suoi pittoreschi ospiti russi, Fiammetta (il suo impossibile amore), la ricca bottegaia Vilda Marini e il suo scombinato figlio Giulio «che si era fatto frate propria manu e aveva indossato sui jeans e le scarpe di tela un saio d’un ordine inventato da lui», l’influente canonico Morelli, il tutto chiesa & affari Osvaldo Cappunti, lo studente Patrizio Petrucci (persecutore di Giulio) e, soli esponenti del contado, il silenzioso e statuario Giotto Guidi e il logorroico Enrico Bologni.
Sull’onda del «qualcosa è successo, risalgono, non sono più crocifissi alla pena, aiuto aiuto» pensato da Maria dopo la sua disavventura con il lemure di Niccolò III, e del suo corrispettivo rimpianto del sessantotto («paese emerso che non a tutte le generazioni viene. Qua e là ovunque apparso, non disegnato sulle carte, stato in ogni stato, stato d’ogni colore, e niente vi aveva onore che non fosse intelligenza, onestà, speranza, fede, carità», fermato nel tagliacarte «che in cima all’impugnatura portava piccolo e ben fatto il simbolo d’una falce incrociata ad un martello, regalo d’un circolo operaio dove nel ’75 aveva tenuto una lezione di storia»), la ricognizione dei ‘luoghi del delitto’, suddivisa in cinque stazioni e comprensiva di una misteriosa scomparsa, certifica un degrado che avvelena ogni aspetto della vita (l’amore, i commerci quotidiani, la politica, la religione, l’economia, il paesaggio, il senso morale), giustificando le sconfitte regolarmente accusate dai vari attori, e suggerendo insieme una chimerica via di fuga consegnata al residuo ma resiliente potere dell’immaginazione che non è riuscita a conquistare il potere.
Così l’anodina Maria dal grigio cognome (che pure tradisce la sua vecchia militanza da ‘rossa’) torna a vivere nelle sue chimere. Il suo incubo preliminare troverà rispondenza nelle arcane metamorfosi che la vedono farsi automobile del marito («credeva che gli venisse offerto un grembo di donna, e gli davano il serbatoio di un’auto») o elenco telefonico («non più una, non più divisa, non più sotto gli occhi degli altri. In quel tutto di tanti nomi, nell’incognito collettivo plurale di migliaia d’indirizzi cognomi e nomi di battesimo. Abitante in migliaia di vie. Liberata dalla colpa d’essere sé e solo Maria Rossi sempre»), nell’alfabeto di «segni stregoneschi», nel delirio del «punto lontano piccolissimo, d’una dimensione infinitesimale, ma d’una potenza luminosa che rese bianco tutto l’universo» (preludio al grandioso incendio celeste che assomma le tinte dell’apocalisse e del paradiso dantesco), per schiudersi al liberatorio finale: «Sapeva un’ora di comunione nella notte, che il tempo rinnega date e storia, e tutto tutto si fonde nell’oceano di una pace ventre di astri e creature. In quel momento della notte tutt’intorno tutto tace, da vicino e da lontano, l’acqua ferita tace nei fiumi e nel mare, l’asfalto tace torturatore della terra, tace l’erba e il suo assassino diserbante tace». Così l’inetto e indeciso Didaco insiste a coltivare, nonostante tutto, un suo stilnovistico amore e crede d’aver udito «Una voce di soprano, di estensione incredibile, che emettesse tutta la vastità degli Appennini. Era musica senza parole, ma i significati si versavano in lui automaticamente tradotti, così direttamente che aveva l’impressione di non essere cosa diversa o esterna alla voce, alla musica, e si sentiva cantato, cantore e pentagramma di quel cantico».
Così Tatjana sogna di essere una Darja Michailovna alle prese con un gogoliano formaggio parlante e lo spirito dell’ubriaco Nikita vola sul tetto della cattedrale per vedere «Dolore-gorie, che gli stava nudo a cavalcioni sulla schiena a rodergli il cranio» e la bizzarra processione che lo celebra. Così Vilda confida a Nikita la sua allucinazione: «Alzavi gli occhi e sopra di te, sopra i tetti e i campanili, c’erano le vele a fondo blu smalto di una grande basilica che tutti ci conteneva. E sul fondo blu smalto fra stelle e agnelli volanti fluttuavano santi bislunghi, e testine d’angeli contornate da sei, otto, dodici paia di ali. Poi d’improvviso il fondo divenne tutto una crosta d’oro luminescente, e i santi e gli angeli, e gli agnelli, d’oro divenuti anch’essi, presero a mandar fuoco dalle nari e dagli occhi, sinché tutto in un secondo s’incenerì e uguale a sempre tornò la città». Così Giulio sottratto al mondo vi ricompare a sorpresa come uno sfuggente ectoplasma.
Nel sopravvento della genìa che procede «con una durezza sconosciuta a Pè fino a pochi anni innanzi» (iconizzata dal chiassoso abbigliamento e dall’allegra violenza di figli che danno vita alle «brigate Ficazze», spingendosi al sequestro di un poveraccio), prende un particolare rilievo la profanazione subita dalla casa «le cui origini contadine erano state cancellate dalla ristrutturazione che l’aveva innalzata a dimora di popolo grasso» o da quelle ricostruite «in uno stile rustico lussuoso, e tante arcate in mattoncini, tanti fienili civettuoli, tante tante piscine» (uno scempio annunciato nel romanzo precedente, che registrava la sostituzione della leggendaria «casa del vento» con la «lussuosa costruzione con piscina, la villa dei tedeschi Schroeder»): un ‘furto di storia’ che già muoveva a riflettere sullo «strabocchevole contenuto di passato in non grande spazio» impresso nell’antica abitazione dei Zaccagnini, e che convoca ora le stupende notazioni sulla vetusta «cornice in pietra serena di una porta, appoggiata a un rudere di parete» (reliquia da cui promana, quando le sue sacre pietre sono saccheggiate, un’«energia autonoma di vendetta»): «Varcando la soglia si avvertiva la pressione di un’invisibile materia, posatura di quanti vi avevano pregato, dormito, riposto stanchezze dei piedi e dello spirito. Veniva da pensare alla forza sprigionata e accumulata dal ripetersi e ripetersi di dolori d’ossa e d’anime, tale che messa insieme poteva dare spessore mistico allo spazio dove s’era consumata». La sanatoria del disastro dovrà modellarsi su questo genere di fraterne accumulazioni: quelle prodotte nell’«epoca d’oro» del magazzino di Didaco, quando vi «venivano a profetare, a esercitare quell’arte della speranza, di tante speranze riunite che sembrò sul punto di fare dell’Italia un capolavoro», o quelle che Maria deposita nel ‘popolo’: «Una comunità solidale, credo, con gli stessi ricordi, la cui immaginazione muova dallo stesso codice storico, la cui creazione politica attinga allo stesso pozzo poetico».
Questi accessi di nostalgica utopia, questi sussulti di perduto engagement contribuiscono a loro modo, ma senza atteggiarsi a sermone, all’effervescenza di un racconto che vive della «poliedricità formale» e della «contaminazione di generi diversi» intraviste da Sandro Melani: un marchio d’autore che disegna le traiettorie di un cavallo imbizzarrito e che si articola nell’andamento frammentario e digressivo (quasi confessato dai «rivoli secondari» che Maria Rossi è solita percorrere durante le sue lezioni e dai quattro segmenti denominati Scarti), nei repentini salti tonali (di volta in volta adibiti al quotidiano corrivo, al grottesco, al lirico, al parodico, al sentenzioso), nei proditorii inserti di tasselli culti (la russa Tatjana detta, con titoli di Dostoevskij e Ostrovskij, «Umiliata e offesa» o «fanciulla di neve», la Vita nova di Didico che discetta del «libro della mia mente» e di Maria che «non riusciva a far vedere a Didaco il miracolo che da lei si mostrava», i versi del Paradiso che inondano le pagine finali), e soprattutto nel variegato prisma di voci che vede vivacemente alternarsi il quasi neutrale narratore, la vox populi, il pettegolo super-io del luogo, il «noi» che presidia le pagine iniziali («Non sembravamo i soliti»; «aspettavamo»; «Nella nostra primavera»), i bigliettini di Didaco, il memento che la vita-morte rivolge a Maria («Sono preposta a consumarti e per quanti modi troverai per sopravvivere ne troverò uno di più io per esaurire la tua durata»), i diari incrociati di Didaco e Fiammetta e i loro incrociati monologhi interiori, l’abrupta allocuzione al personaggio («Tu, povera Rossi»; «ascolta Rossi»).
L’impegno politico-sociale guadagna la ribalta con i due libretti che fanno seguito al dittico underground: In via della casa effimera, «promosso da Sunia-Pistoia, con la collaborazione delle Federazioni Sunia di Lucca, Napoli, Padova, Prato, Viareggio», e pubblicato nel 1999 dalle edizioni La Meridiana, con una Premessa di Pietro Dini, dirigente del Sunia (Sindacato Unitario Nazionale Inquilini ed Assegnatari); Da maggio a maggio. Un anno di gente, apparso nel 2001 da Polistampa, «con il sostegno della CGIL Toscana» e con una Presentazione del suo segretario Luciano Silvestri in cui Lia Tosi è chiamata «insegnante» e «compagna».
Il primo sembra elaborare testimonianze legate alle iniziative del sindacato inquilini delle città che vi hanno cooperato (lo direbbero le tessiture pezzate di veneto, di napoletano e di un colloquiale toscano), presentando nel testo epilogale, Il genio del luogo, una storia che pare invece rifarsi a un’esperienza della stessa autrice (o di persona a lei prossima). L’affittuaria della villetta in collina «con lo sfratto cronico» ha fama di ‘sovversiva’ («Frequentava case del popolo, distribuiva volantini firmati falce e martello»), con un sovrappiù di militanza ‘ecologica’ che ha parole di fuoco per i «bounty killer di luoghi» che «esplorano valli e montagne, e non ne lasciano uno vivo» e rammemora le lotte «per proteggere il bosco, dai cacciatori, dagli asfaltatori dei viottoli, dai boscaioli», le «letture in onore del genio del luogo»: «Attorno al grande camino se era inverno, d’estate sotto l’immenso ombrello di un fico di duecento anni ciascuno leggeva versi, brani di autori preferiti come dono votivo, quasi preghiera, per sintonizzarsi col dio, corroborarlo, e chiedergli ancora uno sforzo in favore dell’inquilina».
La descrizione dell’aristocratica proprietaria priva di «liquidi» e della sua rinomata residenza parla di un’antica consuetudine: «La vidi la prima volta quando mi portarono a visitare la villa da piccolina, e mi sembrò la fata di Cenerentola, quella dei cartoni animati». Il «deposito di memorie, di manufatti, di documenti, di oggetti artistici», il «museo» (ora svuotato «delle sue interiora») che attestava «il passaggio di generazioni e stirpi diverse», la veneranda dimora (in cui «si gela, preferiscono scaldarsi con le stufine a gas»), il suo raro «giardino di limoni», l’«anziana contessa» e la «fedele signora di compagnia, minutissima, totalmente dedita a Lei, elevata a questi palazzi da origini modeste, la signora Luciani vissuta più di mezza vita nella sua ombra, inebriata dal gelo nobiliare degli interni, assorbita nei riti pomeridiani del ricevimento dei quasi sudditi, di vassalli, di valvassini»: tutti questi elementi saranno replicati, con minime variazioni, in Danze al buio, dove si parla della «villa che si adagiava davanti alla collinetta sulla quale risaliva la strada della vedova Clara» (oggi «svuotata, smembrata, sezionata, declassata a pollaio di neobaronetti plurimi»), del «museo» che vi era custodito, della visita di bambini favoleggiata da «Adelaide la fatina», del «giardino dei limoni», della vecchia contessa Buzzi-Barile, che vive senza «liquidi» e senza «riscaldamento», della «signora Sernani, dama di compagnia» che ostenta una «testa superba appena inclinata, comportamento regale» ed è «infocata d’estremismo nobiliare», ma che «mai in cinquant’anni aveva ricevuto salario». L’invisibile «deportazione, piccola, astorica» ricordata in esergo (fomite di «focolai di guerra civile minima, tenuti sotto controllo da una normativa che li ingloba nel corpo della pace nazionale») merita un trattamento ‘alla Kiarostami’, fatto di inquadrature empatiche che ne catturano i desolati dettagli (includendovi – negli impietosi ritratti del ‘locatore seriale’ Torello Gasparri o del Magrin che «cova di nascosto» lo sfratto della figlia – le miserie padronali), e di controcampi (a volte affidati al corsivo) che ne proiettano il minaccioso sfondo. L’escomio diventa allora la «versione orrenda, latente, dell’esistenza che ciascuno paventa» saggiata in Inane: un «tempo di mezzo fra il fare e il disfare, dove si è in balia di forze che discreano», la «forma sociale d’un negativo che disfa. Una tempesta di niente che gira, imperversa attorno al mondo abitato, finché non trova chi apre. Allora s’infila, plasmandosi in sfratto, in regola sociale, divora un pezzo di mondo costruito».
Lo spazio sottratto attira acute meditazioni sullo spessore di vita che pure vi è racchiuso (una casa «è un astuccio porta tempo, ad uscirne si amputa dal tempo l’uomo, e dall’uomo il tempo»: dinanzi alla sua perdita, il toscano Fiorello Mungai rileva «l’implosione di quel cerchio dolce di abitudini, di lessico spaziale, per diventare un profugo incompreso nella sua propria città», il partenopeo Renato Gennaio rimira assorto «sta via che tene tre millenni, tempo con le radici, succhia ed emette, basta immergersi»). La solitudine homeless evidenzia il bisogno di «esplicitare la parentela latente di tutti gli uomini fra di loro con un calore che di fatto scioglie le distanze», accende la «forza di decifrare gli altri, innata e acquisita, da esperienza, da studio, da simili, che si confronti, si paragoni, si misuri, e coi suoi spessori impliciti di lacrime traduca per sé il pianto altrui». Ma anche qui l’indotto di riflessioni sullo stato del mondo e il ripudio del torto hanno poco di didascalico, si inseriscono con naturalezza in una vena genuinamente narrativa, in una generale affabilità sempre sintonizzata sulle frequenze dei vissuti: uno scorrevole flusso in cui risaltano i «presentimenti» e le «fisime» di Natale, il «purgatorio» di Alberta, Paolo che manda «la sua cartolina al giardino, a quella notte d’un quarto di secolo fa», il tristo Torello, che vede nel matrimonio «il raddoppio dei Bot» e nel lemma «legge» pronunciato dagli inquilini una «sfida», Giovanna che «versava l’angoscia come in forme di gesso per renderla visibile agli altri», il «movimento spirituale peristaltico di rifiuto della scena» prodotto dall’ufficiale giudiziario Ermete, Ivo Cioni che cerca asilo nel rudere occupato da albanesi, Rossana che vive il suo matrimonio come «una cosa radioattiva», come una «bomba interna che esplodeva in continuazione a scoppi ritardati, a devastarle le viscere», la Grazia sorpresa a perdere «maglie di vita, perché la vita le pareva proprio una calza che si sfilava», Renato Gennaio che sente di stare «in casa d’altri, nel salotto di qualcuno che non so chi è», e si arrende alla «grande confusione» (il «non so più dove finisci tu, dove comincio io, dove finisco io dove cominci tu»).
La stessa grazia fabulatoria (sempre variamente modulata e sempre colma di cordiale condivisione) alimenta l’altra, parallela, raccolta di racconti, anch’essa inclusiva di episodi con probabili quote autobiografiche. Nell’inaugurale Elegia di 1° maggio la defilata terza persona non fa venir meno il pensiero di un coinvolgimento diretto, diramato fra l’ardua elezione della bambina («Sino da piccola anche per le morti di sconosciuti sentiva un morsino dolente, come se lontane lontane le vite spente trovassero in lei una maniglia, e attaccandosi, trascinate un pochino, si lamentassero: bambina abbi pietà […]. Pietà per le vite passate, un’eco di vicende andate la investiva confusamente, dotandola di spessore e profondità, quasi ricordi, che quasi la invecchiavano senza far vedere, un’assunzione di nomi, di segmenti di destini»), la vivida figura della nonna (la sua «passione per il cinema» sarà conferita anche alla nonna Teresa del successivo Anonimo povero[6]), il «bel primo Maggio che non piovve, nel ’68, che era andata con altri studenti a festeggiare a Roma, a Piazza S. Giovanni», trovandovi «una porta, il suo passaggio dimensionale», la «gioia della sintonia e del riconoscimento» (motivo che sarà riorchestrato nello stesso Anonimo povero e quindi in Danze al buio), e il «percorso verso il sindacato», verso le «forme di aggregazione sociale e politica, democratica, tutti quei sistemi di accorrere a iscriversi a un pensiero, a un sogno di miglioramento, di creazione collettiva d’una società che idealmente accolga le istanze di tutti (compresi gatti e alberi)».
In La casa brucia il messaggio scritto dal padre dell’insegnante Clara quando era partigiano in Albania riporta ai lavori mossi dall’avventura albanese del padre dell’autrice, il tenente Pier Carlo Tosi [7], e al coevo epistolario con la moglie Pina [8]. Quanto alle storie ‘altrimenti coinvolte’, La prigioniera e i kapò. Mobbing scruta la parabola della statuaria «dottorissima», funzionaria tutta d’un pezzo, «bue» dallo «stile imperiale e gentile», perseguitata dai quei «berlusconiani all’assalto di enti locali di lunga (e speriamo eterna) tradizione rossa e democratica» che saranno un bersaglio fisso dei libri successivi. La comune di Sesto Fiorentino riunisce il «giacimento di soddisfazioni» garantito da Cosima (l’ex cuoca di scuola materna dalla «risata nutritiva, una dote di entrare col cibo in comunione e dar comunione»), la peripezia del nipote di Norma, che «ebbe un incidente laggiù alle cave» (salvato forse da «qualcuno che gli ha prestato le ali», e pronto a transitare nella conclusiva favola dei Pinocchi smarriti, dove sarà in trattative con un minuscolo angelo custode vestito da puffo), e le pillole proustiane disseminate da Angiolina («pensionata tipografa» e intellettuale del gruppo, «bidonata dal matrimonio e dal tramonto degli ideali cui aveva dato tanto»): «Lui si scalda, il tempo, alla base della memoria, gli mandi un richiamo (un’emozione, un empito di nostalgia) e lui si scalda, riprende forma, da puntino compresso illeggibile chiamato respira, si decomprime, riprende le sembianze umane; ed ecco le scene lontane, i collegamenti remoti». L’Antipovero e gli antipoveri prende di mira, sul diapason di una ‘profezia realizzata’ («Ho sognato il nonno che mi ha detto: sta attento, avverti tutti, sta per venire l’età dell’Antipovero; verrà e fonderà il partito degli adoratori dell’Antipovero. Non ho avuto il coraggio di dirgli nonno è già venuto e ha già fondato»), una ‘simpatica’ famigliola intrappolata nel berlusconismo. Il coro della linea ferroviaria Firenze-Viareggio si curva sul «dolore che si è scaricato sotto i nostri piedi, un qualcosa che ancora ce li tira, come vi si fosse aggrappato nell’addio. […] Un dolore, un grande dolore, si butta sotto e ferma, sospende, pretende il tempo di tutti». Le cose e le ore insegue la musica della strana «canzoncina» di nonno Vinicio Mozart («l’anima del cuoco è il pollo farcito, il tempo del sarto è il vestito») e del suo felicemente stralunato «Coro delle cose»: «cosa, nostra morte prematura, a te viene nostra umana natura. Profonda notte assale il ricordo di un legame e d’un corpo; desideri e memorie si sciolgono nel tuo stato cieco. Abbiamo vissuto, e chi lo sa? Chi di noi conserva una larva almeno di sogno, a chi avanza un’orma del nostro vivere? Che fummo? Che fu quel punto acerbo che di vita ebbe nome? Cosa arcana e stupenda è la vita al penser nostro, ma quale, con chi, dove, nessuno porta qui con sé la conoscenza».
Il poderoso motore avviato dai romanzi ‘sommersi’ e dai racconti ‘di servizio’ acquista la sua massima potenza nel grande oratorio di Anonimo povero, ripartito in cinque movimenti (Codice Pappus, Codice Graccus, Codice Venus, Il Valdo Vaticano, Anguipedes) e preceduto da una funambolica Nota dell’Editore che lo vuole «edizione aggiornata dei testi noti come Gioco dei Venusti» (impresa ascritta alle insonni cure del filologo Naevius Pepicus Gnei, meglio noto per aver ritrovato e decifrato i «settantasette frammenti del Poeta Perduto», e spinto alle ricerche «grazie ad una menzione nel compendio grammaticale del Memmio Marmorino, grammatico del XXVIII secolo, che citando quattro versi del Perduto, ad esemplificazione di un uso arcaico di allitterazione e asindeto, annotava di averli letti nei Codici Venusti»), dove il vieto artificio del manuscrit retrouvé (che conterrebbe «il ciclo frammentato popolaresco delle vite pistoriesi») viene messo in burla (e affrancato) da una cronologia ‘a fisarmonica’ (distesa fra un lontano futuro e il remoto passato cui arretra il libera lingua loquemur ludis liberalibus: il frammento dello scrittore latino Gneo Nevio che Naevius Pepicus Gnei assegna al suo «Poeta Perduto») in cui hanno allegramente posto i nomi di Ovidio, Dante e Mandel’štam (per la «tematica dell’esilio» che il potere di ogni epoca infligge ai poeti), il presunto poeta Frinchino, il suo «uomo pero» e il «leggendario, liso, stinto, consunto cappottaccio col cappuccio, o eskimo, color salvia» indossato dal nebuloso Naevius.
Se il difettivo compendio non può minimamente far onore a questa labirintica premessa, tantomeno può rendere adeguata giustizia delle circonvoluzioni che la seguono e che sono esplicitate, nella sua fase adulta, da Pio, il personaggio-emissario, quello che sembra assumere il punto di vista dell’autrice (e anche adombrarne, in vari punti, umani trascorsi): «Sono incapace di seguire il tracciato di un progetto, di non deviare, e da ogni volume è in agguato per il ricercatore la seduzione di un sentieruccio laterale che lo porta fuori pista, sentieri incantatori, piccoli disusati percorsi ammalianti che conducono a città di nessuno, a nessuna città, a nessuna radura, a grovigli di respiri passati, noticine cadute come foglie da uomini defoliati da secoli, orme di fisionomie che appena appena trasmettono oppure storie che ti assorbono lontano dai tuoi propositi, e l’immaginazione corre dietro a tutte le sirene». Lia Tosi è devota della Verbella del Valdo Vaticano, «driade dell’albero delle parole», fanciulla «tutta parlantina» e adepta di sogni sessantottini, che predice al dio Tiberinus (con linee di Georgiche II, 173-174) l’avvento di «uno Stato mamma, magna mater, magna parens frugum virumque». Il suo libro fa pensare a una maionese impazzita, ma un filo (o soccorso) rosso viene a garantirne le spericolate acrobazie, agganciando, dopo il vestibolo, ciascuno dei suoi «codici»: la disfida eskimo-pero, che condensa il dissidio fra l’anonimo povero che continua, nonostante tutto, ad attendere una società giusta e solidale e il dirigente del partito progressista che si è invece arreso alla barbarie del ‘ricco e famoso’. Nel Codice Pappus il derelitto Cencio scorge, tra gli abiti di un armadio padronale, «un cappotto giaccone col cappuccio, di tela color verde salvia, foderato di lanetta riccioluta che mimava la pecora, bellissimo, dal quale partì come una freccia di bellezza che gli ferì la mente»; e i suoi signori, «innamorati seguaci, pazzi di Valdo Peri» (considerato «l’inventore vero delle anime morte») amano «mettersi a fine giornata il vestaglione identico con gli stessi pizzi e gli stessi alamari che si era visto in televisione portare Valdo Peri in un’intervista domestica».
Gli intrecci di Graccus sono calamitati dal «giovane molto bruno, con cappotto e cappuccio verde salvia» («il più bell’eskimo del corteo»), e per Piera che se ne è innamorata il piccolo Pio giunge a desiderare «un cappottino come quello dei giovani in corteo, verde salvia, con dentro il ripieno d’una lanina riccioluta di finta pecora» (e il mantello della statua campofiorina di Giordano Bruno gli sembrerà «da allora e per sempre antico prototipo degli eskimo»). In Venus l’adolescente Pio (che si vede «cavaliere dell’eskimo riccioluto» e cerca di procurarsi «un cappotto o giaccone verde salvia col cappuccio, foderato di lana a ricciolini bianchi a imitazione del capretto») si spinge a definire «periana» l’intelligenza «da comuni fessi»; il ricco Guercioni possiede un ospedale «acquistato dall’Agenzia sanitaria PT2 di proprietà del Ministro della sanità Valdo Peri», e il «signor Fedi» afferma: «mi è capitato di sentire Valdo Peri in una trasmissione televisiva, i giapponesi lo portano nel palmo della mano».
Nel monografico Valdo Vaticano (dove incontriamo il davvero infernale «Son Valdo Peri e Pistoia mi fu degna tana» e uno scriba Vanni Ucci «ingaggiato da quel Valdo Peri per un’epopea in onor suo») il «piccolo Tacchi» chiede al giovane Pio: «vorrei anche vedere la tua collezione di oggetti e stampa del Sessantotto, favoloso il tuo eschimo color salvia, è proprio d’epoca?». In Anguipedes la signora «con la penna» si imbandiera «ragazza del Sessantotto», evocando i «ragazzi, belli com’erano, con gli umili eskimo color salvia», e Giuliano imperatore se ne va in giro avvolto in uno «strano cappotto, verde salvia, coi ricciolini di finta pecora dentro, che sarebbe, ma loro non lo sanno, da studente invecchiato neanche laureato, sessantottino stantio», laddove Valdo Peri (bollato per «quell’italiano venefico che usava lui, avanzante a livelli minimi e subgrammaticali, infilzante le forme più opache dell’ovvio, penetrante così nel sottobosco dell’amorfo presente in tutti, a organizzare in enunciato sostanze gassose e gelatinose, che altrimenti si vergognerebbero a mostrarsi allo stato parlato») è il primattore del romanzo «a due mani» L’imperatore degli sportelli, Principe di Pisdue vagheggiato da Pio e Franchino.
Passando ai singoli fogli del mahleriano spartito, vi è anzitutto da dire che il Codice Pappus (titolo forse da collegare alla «vecchia sola sfrattata» che, declinando a sua volta il tema di Via della casa effimera, ne sommuove la chiusa) conferma l’anomalia discussa nella capziosa Nota dell’Editore, quando mette, per così dire, in chiaro che la sua collocazione come «primo libro» è contestata «da gran parte della critica moderna che lo vuole come libro finale, a chiusura del ciclo, se non addirittura […] come frammento di un ciclo parallelo di epoca molto più tarda». Anche se non vi mancano tasselli condivisi con le altre parti (l’eskimo, Valdo Peri, lo ‘sportellista’, il «tavolo azzurro di fattura francese dell’Ottocento, con marmo», simbolo della comunità familiare di Codice Venus, un primo assaggio di quel romanesco che avrà ampio spazio nel Codice Graccus) o le ‘invarianti’ della vita aggrumata negli oggetti (l’armadio che porta a «considerare il lavoro manuale che lo aveva prodotto. Un richiamo, una stirpe d’uomini in relazione attraverso le mani col legno, un’ennesima caduta nei buchi del silenzio che chiama») e dell’onnipresenza dei Licio Gelli («l’anticamera del castello che mi ospitava in Transilvania era ogni mattina stracolma di capi di Stato, principi, ambasciatori…»), questa sezione ha una sua indipendenza, una peculiare atmosfera marcata da vari richiami alla letteratura russa già saldamente installata in Inane: il Gogol’ sotteso nel «servetto nostro della gleba, animuccia morta nostra», in «quel gioco lì delle Anime Morte, anche detto della Servitù della Gleba, o dello Sportello»; il Dostoevskij dei Demoni da cui è attinta la frase-chiave dell’epilogo («mettete una qualche infinita nullità alla vendita di certi miseri biglietti ferroviari, e questa nullità si sentirà in dovere di guardarvi con un’aria da Giove, e vi farà aspettare, non vi risponderà, semplicemente per mostrarvi il suo potere su di voi: e questo giunge in loro sino all’Entusiasmo Amministrativo»);[9] e, soprattutto (nella ‘metafora realizzata’ dalla gag del propagandista respinto «che grattava ancora di là dalla porta come fosse stato cane», e che poi si sente «guaire, andar via uggiolando»), l’evocazione della sua linea ‘hoffmanniana’, implicata con l’acceso teatralismo e con lo statuto ambiguo di personaggi e situazioni. L’antonomastico Cencio, servo segregato di due padroni (e perciò apparentabile al Dino Bini di Inane schiavizzato dalle Brigate Ficazze), crocifisso al nome comune che lo qualifica ultimo degli ultimi («e che c’era dopo il cencio?»), giunge a dubitare della metropoli da Notti bianche in cui abita («fuori non sapeva più se Roma c’era o non c’era»), e si ritrova alle prese con un inesplicabile residuo che ne incrina le certezze di «cencio unito» (cioè «tutto amorfo e bene bene neutro», «Senza età, senza anagrafe»): «Un pezzo, un organo, una parte d’organo, mobile, specializzata in solitudine, o sovraesposta a solitudine, a esilio in mezzo a sordi ostili, ombra in inferi di ombre alloglotte, fra ombre di Sarmati straniera».
Dei suoi pretesi «signori», sospettati di partecipare a un’«Organizzazione Occulta», si ignora «che facessero e chi fossero», «non si capiva bene agenti per conto di chi, di che grado, in che ramo», e al «palazzo antico in via Principessa Clotilde», condiviso «per economia», in cui risiedono (in realtà «una fetta di quel palazzo, quattro stanze disposte l’una sull’altra che da fuori potevano essere attribuite all’edificio che le stringeva da sinistra o a quello che le stringeva da destra»), «il numero civico mancava» (sparito forse come il «bilocale in Sardegna, in un residence a Porto Cervo, che usavano a turno, e un casolare nel Chianti, in società con un altro collega», posseduto in passato). Il parlante Malebranci sostiene di essere «colui che crea le creaturine della mediocrità nel suo pollaio. Le sperimentai con un mangime chimico di mia invenzione, nel pollaio di un castello in Transilvania, già nel 1713, quando eravamo diavoli seri…». Il suo armadio, insieme al fatidico eskimo, contempla una «vecchissima marsina nera, di raso», una «giacca di tweed, le spalle ricurve, i gomiti pronunciati, le tasche un po’ sformate dal passaggio di piccoli oggetti d’uso evaniti», e «tre giacche femminili, con gonna, di quei vestiti di foggia severa, da donna adulta o quasi anziana», che le fa assomigliare a «tre sorelle rassegnate, o dimentiche di se stesse, tuttavia con un filo di sorellanza, strette insieme», mentre l’attaccapanni risulta «ingombro di cappotti e cappelli di tutte le fogge, d’epoche diverse, molti passati di moda da decenni, decrepiti da sembrare più costumi teatrali che capi d’abbigliamento quotidiano», e le credenze della cucina danno ricovero a «uno strano vasellame, strane stoviglie, tazze di pregevole fattura, ognuna diversa dall’altra».
L’azione del Codice Graccus si svolge per intero in una Roma che, racchiusa nel triangolo Prati-Campo de’ Fiori-Trastevere e incarnata nel suo irriverente vernacolo, mal si accorda con la città elusiva e senza contorni di Pappus, in cui vigeva un unico toponimo e dove il dialetto era una vaga reminiscenza di Cencio («E nemmeno te sapeva dì perché ogne tanto pe’ destrasse je veniva da pensà romanesco»), ma ha molto in comune con lo scenario di Il Tevere infingardo, la prima parte di Danze al buio, ambientata fra Monti, Sapienza, Campo de’ Fiori e Trastevere: un’Urbe che guarda già – mediante i personaggi di Pio Mammoli (che è portato a Roma «di tanto in tanto», facendo «da ponte fra le due città») e dei suoi «ziastri o cuginastri» emigrati nella Capitale – alla sede delle sezioni successive, la Pistoia dove «i cugini romani erano un mito», mentre la Cristina che «era una schiava nata, un cencio» sembra al contrario echeggiare il milieu del tratto precedente. Mandato a «respirare l’alto panorama» per conto del ramo pistoiese della famiglia (distribuito fra «nonna, zia Lassax, le due figlie»), il novenne Pio (che accuserà paradossali ricordi di «giovinezza andata») riflette uno stadio ‘costituente’ della vita dell’autrice: gli anni universitari trascorsi nella Capitale a partire dal 1962,[10] che in Danze al buio saranno più congruamente addossati a quella giovane Clara con cui Pio condivide l’iniziazione politica, il talento narrativo (lo zio-cugino Tullio dice che «da grande farà al massimo il novellatore di gatti e pulci») e la passione per la storia romana (precocemente studiata «nel tempo libero»). I suoi decisivi battesimi sono infatti scanditi dagli incontri con il «tigrato con la pancia bianca, la faccia plebea e da tribuno della plebe, occhi espressivi, fiduciosi, di chi crede che nel mondo ci sia posto» (il «Gaio Gracco» che giustifica il combattivo titolo), con la «tavoletta di cioccolata, in carta stagnola luccicosa e strana, ’na cioccolata straniera, d’un paese che non se sa» (che «aveva dei poteri, prima di tutto quello di dare al corpo gagliardia e rendere allegria. Di dire alla vista, allargati allargati e vedi anche le cose che non ce so’»), con il «millennovecentosessantotto» (il «Tevere umano, composto di tantissime goccioline viventi», la marcia di «migliaia di ragazze e di ragazzi freschi» che cantano Contessa trasportando una «trasfusione di significato sconosciuto» e una «commozione comune anticipatrice, educatrice, plasmatrice»), e con la colonia di ‘compagni’ che nel «terrazzino, lassù in cima ai tetti, in fondo alla piazza, sull’angolo, sopra alla pizzeria», con vista sul monumento a Giordano Bruno (poi luogo deputato di Danze al buio) prefigura un «Focolare Domestico Universale».
La realistica resa della Roma piatta e borghese di Piazza Mazzini, di via Ferrari, del Liceo Mamiani, di via Cola di Rienzo – inverata da interpreti come la snobistica Alba (prestigiosa insegnante di latino e insieme infantile egotista che sembra aver ereditato dalla madre «l’amore materno verso se stessa» ed è abituata a prendere «il meglio tutto per sé»), da suo fratello (il compunto ingegner Tullio che le fa da tutore e «pagava tutto lui», il conformista che «gli ammiragli e ingegneri li pronunciava con un piacere del palato che la solennità del volto tentava ipocritamente di occultare», il «baciapile elegantemente vestito», il Barbariccia al quadrato che «scorreggiava anche dal cazzo, del cazzo anche faceva trombetta», forte di un «viso a palloncino, nonostante tutto simpatico come il culo»), dal suo viscido amante (un «ometto basso, ondulato, con occhi e labbra sporgenti»), dal corteggio delle «sole», e dal contorno popolaresco di Giuliana (la sua cameriera, «campofiorina, di trent’anni»), e di Evelina («vicina vedova e senza figli», già «bidella al liceo del quartiere dove fratello e sorella avevano brillantemente conseguito la licenza») – e la ‘presa diretta’ dei suoni e dei colori di Trastevere e di Campo de’ Fiori sottendono una lunga confidenza, un’assidua frequentazione che autorizza poi la zampata autoriale, lo scatto fantastico, il canto sollevato dalle contingenze, il volo della «bella penna d’oro», che in cima al cappuccio ha un «ragnetto, la pancia di perla, un capino lucente» (votato a tessere «il ragnatelo d’oro», la consegna di Pio/Lia «nominato da sorella penna suo scudiero, quasi fratello, suo cavaliere»): «Volando la danza leggera di gran contentezza, di penna lieta, di penna felice, piroettò al soffitto come una ballerina col tutù, sul pennino come sulle punte, il tetto si aprì, una gran luce la rapì, l’avvolse, in un valzer di dei, o una barcarola di soli di stelle di cieli gaudiosi, e lei piroettando spargeva polvere luminosa e dalla polvere microsciami di lettere, api di letizia dorata, d’alfabeti diversi, sciamavano con eleganza e scendevano a posarsi come baci qua e là sul volto e sulle mani di Pio».
Al cuore del libro, il Codice Venus risale sulle prime il versante pistoiese della storia di Pio (attratto dagli «assenti, o i futuri, o i lontani» come la bambina di Elegia di 1° maggio era appassionata di «vite spente»). Il ramo che il Graccus diceva composto da «nonna, zia Lassax, le due figlie» viene ora dettagliato nella nonna Clelia Speridi, nel nonno Zeno (la cui sorella, Ida, porta il soprannome di «zia Lassax»), nella zia Livia (maritata con un Fabio Guercioni, figlio di ricchi commercianti), nella cugina Paola (sposata con un Remo). Oltre che con questi familiari e con i parenti romani di Graccus, Pio è messo in rapporto con i suoi compagni di classe: il timido Poldo Merli che ne cerca la protezione e il temibile Alessio Spendel, araldo del ‘nuovo che avanza’, consanguineo del Patrizio Petrucci di Inane («Il nome da solo bastava a sostenere una leggenda. Colpiva la fantasia come un bang dell’olimpo visivo, da eroe di manifesti, di video, e persino conteneva in sé lo splendore di un dentifricio ai neutroni. Tutto, il nome Spendel conteneva tutto, la varietà, la freschezza, il profumo, la luminosità, dei prediletti della società»), leader predestinato di un trionfante consorzio da cui Pio si vede escluso («uniti, in sintonia, alleati, come membri di qualcosa che li associava, che dava loro tranquillità e sicurezza, qualcosa che per esempio non aveva mai cercato Pio per farlo socio della stessa cosa e ammetterlo alla stessa socievolezza e alla stessa serenità»).
L’alternativa a questo ‘sociale deviato’ è il senso di comunità calda e inclusiva che emana dal vuoto alveare della famiglia Anelli-Delfino, la mitica abitazione di via Tortora confinante con la residenza dei nonni, di cui Pio farà il modello di un agognato «villaggio di gente conservata nelle attitudini primitive di serenità e affetto, veglie, mutuo soccorso, sonate, mestieri», di un’utopica «Fratellanza artigiana d’Italia»: «Un rispetto curante, lodante, creante, era una funzione umana fondamentale e costitutiva degli Anelli, e c’era una dolcezza intorno a loro, una primavera morale che affascinava i bambini e agli adulti ammorbidiva la vita». Con le esplorazioni nel fatato «giardino degli Anelli», dove annota le «piccole giustizie da rendere», le «persone da resuscitare», maturando il suo «programma politico», Pio oltrepassa il confine che adduce al cuore del cuore, al nucleo pulsante di questa sezione e, si può dire, di tutto il racconto, fino a produrre, da «archivista», una serie di documenti (certificati, lettere, cartoline, fotografie, diplomi, contratti, ricevute, fatture, locandine), di joyciane ‘carte parlanti’ da «bilancio del 16 giugno 1904» che sembrano illuminare, nel «veicolarsi su identità di signori realmente vissuti a trasvolare in giorni veri e lontani», venture della stessa famiglia dell’autrice (i nomi di Pina, la figlia pianista di Osvaldo Anelli, e di suo marito «Pier Carlo T.», sono quelli dei genitori di Lia Tosi). Un’origine tradita anche da interlocuzioni stranianti (come il «Chi ti consola Teresa Delfino che insieme alla mamma perdi l’infanzia?»), da scorrerie che scombinano l’aplomb del ‘narratore oggettivo’ (vi prenderà parte il Pio sorpreso a fantasticare sul soggiorno pistoiese di Garibaldi: «l’orfano Mammoli vola coi suoi calzari e si para col suo corpo dinanzi al generale, muore al suo posto»).
Nel capitolo Le due Terese. Creature di Venere abbiamo così il «Tu» femminile che si allinea alle esperienze di Pio in Graccus («Tu la conoscesti che avevi già quattro anni, quando fosti portata a Roma per il primo anno santo del dopoguerra. Alloggiaste in piazza Mazzini dagli amici Fiore. La vastità di Roma ti invase per sempre il cuore»). In Musica di profondità l’attacco sulla nonna («Ma la nonna Teresa Delfino?») dà subito corso a note di alta intimità («Anche le zie ricordo di averle sentite non di rado attaccare a mezza voce fra sé e sé la Mattinata»; «Non posso fare a meno di pensare che quell’aria era venuta da Livorno»; «noi, tutte, senza saperlo, cantiamo la luce sul mare, quegli infiniti orizzonti che come un concentrato, che come un estratto, paesaggi introiettati e poi riemessi, ci ha trasmesso il canto della nonna alla macchina da cucire»), muove al recupero di un vissuto che, incorporando l’opera d’esordio, rimonta ai giorni della «rinascita dalla guerra» («sentivi in quei mesi le selve sonare e le città gioire»; «e credevo che questa fosse la vita, e nominai questo la vita, e questo me nominò viva»), si sporge sulla musica della pianista che era «la mia mamma», sulla nascita di una vocazione (lo zio Ugo che esclama «questa bambina diventerà scrittrice!»; il riconoscimento della «percezione continua e basilare che avevo di non finitezza del mio corpo, mi sentivo in ogni luogo di cui mi parlassero, mi sentivo dentro l’allegria altrui, e con memoria certo più vicina alla fonte gli altri con me mi parevano tutto un corpo in cui poter spaziare»), si rifugia nell’alveo che continua a dissetare vita e scrittura («La mia famiglia era una grande trama vivente; mi ci tuffavo, trasportata dagli avvenimenti, dagli eventi, i si dice, si spera, si sposa, non mi annoiavo mai, immessa in trama vitale, polifonica che si narrava da sola. E in simultanea con la nascita l’imparai a leggere»; «Riandando negli ultimi anni per queste stesse vie stravolte di contado baciato da democratico fetido cemento, avevo sentito il vuoto di passanti un tempo consueti, le altre maglie con cui facevo tessuto»): il numinoso spazio garantito da quella nonna (non per nulla mandataria della sentenza dostoevskiana sui ‘signori degli sportelli’) che «ci riempiva tutte talmente di quel suo vivo affetto, che il caldo ne sento tuttora che scrivo». In Gioca trilla vola nel bosco povero merlo povero fringuello avremo ancora lo struggente «uccellino che trovai nel bosco nella trappoletta del cacciatore. Il fragile collo spezzato, appeso come pinocchio nel bosco», e in Maschio in fieri il riferimento alla «Pasqua che tu eri strano, guardavi tutti in modo strano, e non volevi che mai ti toccassi» (dove il «tu» e l’«io» rimangono irrelati), mentre un’altra oscillazione diegetica, anch’essa probabilmente di marca autobiografica, è veicolata da Teresa Mirtilli (o Dormilla o Cobra dentuto) che, presentata come nipote del fratellastro del nonno Pietro, figlioccia di Alba e amica d’infanzia di Pio, a un certo punto «cambia nome, cambia volto, chiama Alba ciò che è suo». Un notevole contributo all’animazione, all’ottovolante di questo tracciato danno anche le proditorie citazioni da Eneide III, 699-706 («Costeggiano le rocche rupestri del Pachino» etc.) e I, 157 («Est in secessu longo locus»), il temerario brano in pseudo-esametri («Il fluido specchio turchese, grembo che fluttua e trema» etc), e il fiammeo lirismo delle altre variazioni marine che, guardando al capolavoro di Botticelli, rendono ragione del titolo («Memoria, Venere, creatrice. Ciò è il mediterraneo mare, culla di ciò che è stato e sarà. Per chi lo sa chiamare»; «Su ogni bella conchiglia trovata soffiava e sognava l’emergere della più fatata delle fate del suo olimpo fatato, la nuda, bagnatina, ancora increspata la pelle di rugiada marina»; «Perché te le porge, la mano di Venere, perché le estrae dalle acque profonde del grembo marino?»), chiudendosi nella meraviglia del dialogo fra Pio e la dea gioiosamente umanizzata: «Tu per ora va nel giardino degli Anelli, dove il glicine candido goccia su respiro di rose con fiori di salvia e di rosmarino, cogli goccia e respiro, mescola quattro tagliatelle, cuocile per via, spruzza con acqua di rio, che sappia amare come Callimaco, come Tibullo, come Catullo, come Ovidio il Mammoli Pio».
Nel Valdo Vaticano l’ambientazione slitta dal «giardino degli Anelli» al limitrofo «orto delle Speridi», da dove Clelia e Ida Speridi (la zia Lassax, ora Pizia Lassax, promossa da cognata a sorella di Clelia, e dotata di un «amante incorporeo») sorvegliano le mosse della ormai adulta Teresa Anelli (alias Mirtilli o Dormilla), «da un paio d’anni loro nuova vicina», fidanzata con un Franchino, e in rapporti di varia natura con il Pio divenuto intellettuale, il sedicente scrittore Vanni Ucci e il politicone Valdo Peri (che, dopo le rapide apparizioni nelle parti precedenti, si prende ora il primo piano). Una Teresa che, ancor più di quella di Venus, sembra assimilare caratteristiche dell’autrice: il suo ritratto di «bambina un po’ saccente fra i dottori seccati del tempio», il suo «lavoro a mezzo tempo a curare la cultura per il partito, con minimo compenso, quasi gratis», il suo spiegamento di «campi contro autostrade, famiglie allargate, quartieri villaggio», le sue ‘medaglie’ («nell’ultimo comizio che aveva fatto a Pistoia Berlinguer aveva baciato Teresa, sul palco, in piazza del Duomo, quando lei nel presentarlo aveva parlato di un paese che finalmente appartenesse alla semplicità e ai semplici, un mondo di cui la terra è incinta da tanto tempo»; «grazie a Teresa (Berlinguer non l’aveva dimenticata) Pistoia era rientrata nelle province dei piani sperimentali col denaro al nono posto della scala delle importanze, il cosiddetto piano Evandro»). Questi ragguagli vanno infatti a intrecciarsi con l’altrimenti incongrua mozione della prima persona alle prese con Vanni Ucci («Intervistò anche me… lo dovetti invitare a pranzo, mangiava come un bufalo quel diavolo») o arruolata nella grande manifestazione di S. Giovanni, dopo la storica vittoria elettorale del P.C.I. («anch’io, guarda, sentivo che là sarebbe avvenuto qualcosa di indispensabile e diverso, e ne avevo desiderio, mi affacciavo alla finestra e avvertivo come se dal corpo mi si staccasse una parte aerea e leggera, a Roma! a Roma! mi rimbombava dentro, mi rimbombava un invito alla fuga, da questo tuo letto e dalla casa paterna, da questa prigionia…»). Un’aura che lambisce le maniere di Pio (la sua «conferenza» sugli antichi scrittori pistoiesi ‘profetizza’ le ricerche storiche che avranno ampio impiego in Ispida stella;[11] il suo «disagio di quando parlava troppo, un vergognoso rimorso di aver forse ferito» e la sua spinta a «cantare il suo assolo nel cuore del coro» fanno pensare a mea culpa d’autore) e, tangenzialmente, quelle di Franchino, di Vanni Ucci e di Valdo Peri, che hanno l’aria di riassumere frequentazioni di lungo corso, in vario modo connesse con una genuina ‘militanza’ che ha dovuto scontare, come nella pellicola di Don Siegel, una vera ‘invasione degli ultracorpi’: le «oscure infiltrazioni di un quid inquietante, non si sa che, che lavorava sotto sotto, proprio come un tumore, che ti prende le cellule, dalla natura comandate a una certa funzione e forma, e te le volge ad altro, immalignite degenerate». Se Franchino è la sinistrorsa testa d’uovo perennemente frustrata e Vanni Ucci la penna ‘amorale’ pronta ad ogni uso, l’immaturamente invecchiato Valdo Peri («a trentasei anni ne dimostri cinquanta») – con la sua «chiostra dentale da chierico» e l’untuoso «professionismo» di chi smina «con amore tutto il cammino», mettendo «la sua sicurezza avanti a tutto» – impersona il ‘compagno in carriera’ (forse modellato sul noto dirigente comunista Vannino Chiti): «sarto di stoffe umane» e «cuoco di carni umane», fautore di una democrazia pervasiva («tutto un rigoglio di consigli, comitati, presidenze, segreterie»), di un avvolgente ‘sistema’ (terreno di una fantomatica «loggia dei cenci in carriera») in cui «ogni tre cittadini almeno due erano governanti e uno governato», e responsabile del gogoliano «Grande Abuso delle Anime morte», il tesseramento di defunti che simboleggia la mutazione genetica, l’«esponenziale crescita d’egoismi deserti e d’appetiti ciechi» che foggia l’«ordigno» di un futuro «incenerimento». L’impietosa radiografia della politica locale, segnacolo di uno sfacelo che attraversa l’intero paese, ha il suo apogeo nel lungo capitolo I dialoghi dell’Acheronte, dove il sapido racconto dei minuti, e spesso ignobili, meccanismi di potere si spinge fino al vieto pettegolezzo (indice, a sua volta, di una vasta ‘cognizione di causa’), ma il tanto di moralismo che la attraversa è riscattato dai semi di ‘meraviglioso’ introdotti dal trio Verbella-Tiberinus-Fauno (nunzi virgiliani di una nuova età dell’oro nel segno di Evandro, pronti a dare manforte, sia pure come «comparse» da film, a «li romani d’oggi», e agli italiani confluiti nel seguito dei «semplici», il «generativo collettivo» inviso ai Valdo Peri), da Meo Abbracciavacca («Un piede nella mercatura, uno nella poesia»), dai giullari Guidaloste e Paolo Lanfranchi (anime medievali i cui destini sono paragonati, con effervescente ironia e dispendio di dottrina, alle sorti dei pistoiesi presenti), dal Sonno che prende alloggio a Pistoia, dalle naiadi Nelle e dalle driadi Peppe (custodi sfrattate dell’antico Ospedale del Ceppo) e dai favolosi «Frammenti di dubbia attribuzione» che, con piglio ancora joyciano, tramandano la parallela leggenda del «ceppo fiorito».
Il titolo del quinto codice, Anguipedes, rimanda all’ubiquo, maligno profilo del «Conte Licio» (variante del «Licio malnato» di Inane, schifato persino dal diavolo «che ti ha cacato»), cui il deferente sodale Fabio Guercioni scrive: «le dita dei miei piedi si sono ridotte come attorcigliate dolgono di notte e di giorno, e Rolando mi dice che lo stesso è di lei» (la repulsiva immagine è poi quasi comicamente versata, durante una conversazione ferroviaria, dalla «signora con la penna» – che definisce «anguipedi» i «tecnici impreparati musoni e taciturni che ti scassano lavatrici e computers e ti rivendono i pezzi di ricambio a peso d’oro», quelli che «nei piedi al posto delle dita hanno serpentelli mozzi, verdi dentro le scarpe e con le loro testoline vive annusano tutto il giorno solo quattrini» – quando il suo fortuito interlocutore deve accusare «un sinuoso affacciarsi dalle cuciture delle sue splendide scarpe d’un paio di testoline squamose»). La maggior parte dei personaggi proviene (con la sola aggiunta di Dina e Pericle, genitori di Franchino, ed escludendo la coppia Alba-Tullio importata da Graccus e lo Spendel di Venus) da Il Valdo Vaticano (oltre al citato Guercioni, ricompaiono, a vario titolo, Franchino, Teresa, Pio, Poldo Merli, Vanni Ucci, e Verbella che, magicamente mutata in professoressa, ha un legame sentimentale con Pio), e la maggior parte del racconto (l’intera seconda porzione) è riservata (con la stessa procedura impiegata in Sonar le selve e le città gioire) alla serie di lettere che diffondono le Cronache della città di Pisdue. 937esimo episodio (lacerti del romanzo «a due mani» concepito da Pio e Franchino, L’imperatore degli sportelli, Principe di Pisdue, che prende di mira il ‘sistema’ – produttivo di «neoplasie nei tessuti urbani, nei collettivi umani» – edificato negli anni da Valdo Peri con l’ausilio di «quell’italiano venefico che usava lui, avanzante a livelli minimi e subgrammaticali, infilzante le forme più opache dell’ovvio, penetrante così nel sottobosco dell’amorfo presente in tutti, a organizzare in enunciato sostanze gassose e gelatinose, che altrimenti si vergognerebbero a mostrarsi allo stato parlato»): annali che annidano (nelle venti pagine di una lettera di Pio a Poldo) una nuova divagazione storica (la «polifonia dostoevskiana, appunti di un sottosuolo imperiale», preconizzata in esergo da escerti di Giuliano l’Apostata), che qui, sulla scia del romanzo di Gore Vidal, retrocede ai casi del controverso imperatore (curiosamente simili alle traversie di «tanti semplici anonimi con difficoltà di relazione spesso insormontabili che ti creano equivoci, che danno un’immagine distorta del tuo genuino desiderio di metterti a disposizione per il bene comune»), con un richiamo al titolo del libro che – precorso dal voto «di onesta povertà, di anonimità intensamente spesa in una dignità irriducibile, che non si fa pestare e non fa pestare», pronunciato dall’anonima ed enigmatica «signora con la penna», già «ragazza del Sessantotto», nel viaggio-fantasma tra Aversa, Baia, Bacoli, Cuma e i Campi Flegrei – sarà ribadito da Pio («anch’io partecipo di questo infinito d’anonimi con sogni dispersi, il cui contributo generale la realtà non ha raccolto, ha distorto, ha respinto, ha condannato a una damnatio memoriae di cui noi stessi siamo passivi seguaci»), riprendendo le piste di Il Valdo Vaticano (percorse dagli «anonimi, strappati all’orizzonte cittadino e al proprio continuum, piccole torme, gruppi familiari già decimati, singole unità sradicate», e dal Franchino fatto «povero Anonimo che era proprio alla frutta, e aveva un unico gruzzolo, unico risparmiuccio, unico fuochicino, due o tre versi che quello gli rapina»).
Il corpo ‘epistolare’ di questa aggrovigliata e allusiva orditura è racchiuso fra due brevi anelli: Donna libro, che, principiando da un aforisma in gara con il proverbiale incipit di Anna Karenina («Le famiglie sono pozzi fondi, vi si intersecano e addentrano grumi oscuri di passati plurimi in eredità inestricabile»), prospetta un’altra family story incentrata sul «trio annodato da lacci di ereditarie e inespresse malarie della memoria» (la Dina «simbiotica servetta di marito e di figlio», il Pericle «bell’uccellatore» e «rubacuori», il Franchino invischiato nel «magma indigerito dei genitori» e condannato a soddisfare le loro abnormi aspettative), e quindi sulla crisi, politica e matrimoniale, di Franchino, sul furto di una sua poesia (consumato dal ‘plagiatore seriale’ Vanni Ucci), e sulla sua morte («solo solo in un albergo a Volterra»); e Il ramo d’oro, fulgido saluto al libro (nella profezia di Teresa – sfrattata come l’anonima eroina di Il genio del luogo – che ne dice il senso sfociando nell’impegnativa prima persona: «vedrai le festuche dei potenti nel vitro del ghiaccio del sempre, del vuoto del sempre, compresi quelli ancora vivi attivi a nuocere, mentre a te un caldo profumo di pane t’invade e ti guida e la porta si apre, il fuoco nel camino, molta gente attorno al tavolo azzurro di fattura francese, un bimbo biondo gioca e ride, molti gatti lo attorniano, lo carezzano col naso, molti gatti che conosco io, di ognuno potrei dire il nome, molti che sono entrati nel mio cuore e ora so che da lì vanno là…») e insieme encomio della Biblioteca (il «plurimo testamento lanciato attraverso il tempo e il mondo, da scrittori a lettori, da scrittori a eredi che li resuscitano, ripercorrendo il loro experimentum mundi»), antidoto al tarlo del «cencio» (per la «sensazione di libertà sia pure parziale dal potere di sfratto, una coscienza leggera d’essere in parte imprendibile, per dono d’ubiquità incompleto ma salvifico») e, nell’ispirato explicit, al maleficio dell’io: «Ma se noi leggiamo lo stesso libro, in questo spazio ci incontriamo? e chi altri vi incontriamo che in questo momento lo legge, che in passato lo ha letto? Sssss, silenzio, il libro si è aperto, il libro ci legge, il cielo ci trova, amica mia, anima amica, in che pagina sei?».
L’espediente del manoscritto ritrovato si ripete nell’anepigrafa, corsiva e corriva premessa di Ispida stella (che parla di testi scritti «a occhio e croce nella prima metà degli anni ottanta […] perché non si nominano né badanti né extracomunitari», attribuiti, con beneficio d’inventario, a non meglio precisate «mamma» e «zia» che «hanno fatto la cosa di nascosto, come una seconda vita», nella gaia altalena di «una inventa una cosa, una ne inventa un’altra»), estendendosi ai cartigli interpolati nel racconto, rispettivamente tratti da un autografo ottocentesco (il «giornaletto domestico», l’«Epistola lunga settemila giorni» dell’«ingegnere scienziato» Giuseppe Potenti, pistoiese «noto e apprezzato in Europa per una sua carta che riproduceva la rete di tutte le diramazioni ferroviarie europee del tempo suo», membro della «grande famiglia europea del progresso, delle scoperte tecnologiche»), dalle effemeridi che il suo supposto esegeta secerne imitandone i tic, e dalle fantasiose Cronache segrete della Polizia Toscana, che ‘scoprono’ la fattoria filantropica e egualitaria di Sonnoli, promossa da un «nobiluomo gobbo», il «patrizio cuccagnese Niccolò Badini» (fratello di quei «veggenti contagiosi lasciati indisturbati a prevedere, che prevedendo instillano le voglie delle cose profetate mai da altri sospettate, aiutandole a farsi strada da un distante impossibile avvenire sino a noi», e dunque prossimo del conte Enea Silvio di Lampertico, accampato, con il suo Giardino dell’Armonia, nel film Domani accadrà di Daniele Luchetti). Ma il Leitmotiv del libro è enunciato dallo stesso titolo, rivendicazione del «diritto alla critica aspra e sincera», l’«ispida stella che ci accompagni nella notte» del verso scritto «a tre mani» da giovani idealisti che ne intonerà l’ultima preghiera («In cielo crescono ispide stelle. | Spinosa notte che intenerisci e buchi») e che si rapporta nel tempo con l’«ispida intelligenza», il «lume troppo ispido di ragione» esercitato dal Potenti fino al suicidio, «sotto un treno, a Firenze, a Santa Maria Novella», così parlando del dualismo etico-politico inscritto nel contrappunto di epoche diverse (che al suo polo negativo sfocerà in «uno spirito d’immedesimazione, di questi d’ora con quelli di allora, un fantasma collettivo, soddisfatto d’esser tornato, dopo essere stato a lungo nascosto fra incertezze e timori»).
L’ostinatamente probo toscano d’antan (pronto «a sottolineare errori, a raccomandare rimedi, ad annusare corruzioni, Ispettore Plenipotenziario delle Scienze, volontario e senza portafogli, inquisitore delle dighe non fatte, delle ferrovie mal progettate, dei ponti pericolosi») riepiloga infatti la «borghesia buona, studiosa e onesta», soverchiata (come il suo visionario, gibbuto confrère) dalla «consorella disonesta e faccendiera, corrotta e autrice del corso concreto del modello nazionale» di cui vaglia «l’inefficienza, l’abuso, l’arroganza, il mistero d’ufficio, la corruzione», mentre la quasi contemporanea «Cuccagnite nel 1980» vede contrapporsi l’«anima indipendente e irriducibile» di Miranda (archeologa e insegnante di Storia dell’arte al Liceo che «aveva la tessera del P.C.I. fino a tre anni addietro» e che, nel «deserto che ci tocca», praticando «l’arte d’essere debole, modesto, uguale, animale, vegetale, numero, concime», prova inutilmente a contrastare il «sordo sfilacciarsi dell’opera comune, l’ammalarsi inconsapevole dei cromosomi, il loro passare dalla salute al suo contrario convinti di aver fatto un salto nel nuovo») e il mondo di Walter Cai («W.C., per chi lo amava di meno»), sosia di Valdo Peri, «astro onnipotente della politica cittadina e ormai anche regionale, in futuro senz’altro nazionale», ormai ostaggio, con il suo «Partito Uno», del «Partito Due» manovrato dal «Nero Nascosto in Tenebrosa Loggia» (il «ratto che avesse fatto il salto di specie», il «Papa Ratto» «ben mascherato da cappello, sciarpa, occhialoni neri», il «ratto dall’anello quasi vescovile» che tira le fila dell’«affare “Nero e Società Anonima Ratti Ferrati”»), insomma dal Doppelgänger di «Licio malnato», che mostra il risvolto quasi metafisico di questi fenomeni. Se Giuseppe Potenti avvista «un’Italia trasformata in un paese straniero», Miranda soffrirà l’«occupazione di corpi terrestri da parte di esseri alieni» antiveduta in un «vecchissimo film» (l’incubo di «italiani in fieri che tra non molto balzeranno fuori a divorare per sé quello che piacerebbe a tutti lasciandoci paure e disgusto, impotenza e povertà, trasformandoci anche il prossimo che ora amiamo»), e Francesco, il suo figlio ‘putativo’, avvertirà la presenza di «un’antimateria, in cui non esistano passi in avanti, concatenazione e legami, dove ciò che è unito si disunisce, chi è nato disnasce, chi vive disvive» (Assunta vi opporrà la sua «catena dei giusti, immensa e imprendibile»).
Incrociando ugualmente la «spicciola vita e morte d’un secolo e mezzo fa» e le minute esistenze di un oggi retrodatato, questo sinistro background giustifica la coloritura ‘in giallo’ di una storiografia che sembra emanare dalla «chiacchiera passepartout», il ‘pravilegio’ dei «cronisti cuccagnesi», grimaldello universale per una città che «si spiava spontaneamente da sola», forte di una sua «agenzia di sorveglianza», maestra di «pedinamenti, di strumenti moderni di controllo sull’avversario, sia pure un marito», nutrice di un geometra Landi, «astronomo dilettante» consacrato allo studio dell’«astro sconosciuto», della «luna incompresa» del suo vicino. Il pettegolezzo ‘continuato e aggravato’ ruota intorno alle oscure manovre dei vari soggetti che vogliono appropriarsi dell’antico e cadente edificio abitato da Andrea Stinchi (aristocratico e «squattrinato» sognatore-perdigiorno congenere al Didaco Puccini di Inane, legittimo proprietario e solo cultore del voluminoso lascito di Giuseppe Potenti, da cui vuol ricavare una tesi di laurea, se non un saggio, un romanzo storico, un soggetto televisivo), toccando anche i misteriosi traffici nella villetta di Miranda (l’amica-amante, a sua volta apparentata, nei rovelli politico-esistenziali, alla Maria Rossi di Inane), l’inspiegabile sparizione del libretto di risparmio di Assunta (l’anziana governante), l’equivoca riunione nascostamente osservata da Francesco, le inquietanti epifanie di due ‘gobbi Badini’ nel ballo mascherato degli arricchiti Chiti (capofila «d’una piccola borghesia gigantesca che aveva superato l’alta borghesia d’una volta»), e contaminandone il ‘poliziesco’ con grasce da fescennino che – nella Cuccagnite ormai «priva del senso del divino», eletta «circo del dio fallico» e «vetrina di lussuria mercantile» – investono la «fantasia sporcacciona», la «Ludofica», il «cazzo apollineo», il Francesco alle prese con lo «sfratato dei suoi calzoni», la «Guernica erotica», il «Bordello Risvegliati», il «cosare, verbo etimologicamente derivato dal sostantivo coso, usato dalla zia Celeste per dire la cosa che fanno i cosi e le innominabili», il dentista Giacco «lasciato nudo dai ladri in casa dell’amante», i «famosi festini» dove «numerose compagnie, quaranta, anche cinquanta persone per volta, venivano a peccare di gola», le imbandigioni basate «su carne di cacciagione, fagiani quaglie passerotti lepri cinghiali, splendidamente arrostiti e intingolati dalle ottime cuoche Lenzini, dopo essere stati predisposti alla tavola dal fucile di un Lenzini predatore». In questa kermesse orientata al comico-grottesco (quando non al goliardico: quello, ad esempio, di un Rodolfo Addormentati fondatore dell’Accademia dei Risvegliati) fanno spicco i fulminei scarti diegetici, dissonanze in cui le bizzarre siluette conquistano un proprio spessore, diventano testimoni, direbbe Pizzuto, di una «vita nella vita». Accade quando chi narra si rivolge a Miranda con un «tu» che stabilisce di colpo una fervida, accorata intimità («Corri in camera»; «Risolvi il mistero da sola» etc.), per poi darle il microfono di un soliloquio rivolto all’amico Pino («Ma tu, Pino, non ci sei e non mi consigli»), nelle abusive ‘intromissioni’ di Silvia, nella lettera di Miranda ad Andrea, che attinge il sacro di un rapporto («Che senso ha l’amicizia se non è archivio dell’altro, anzi quasi il tabernacolo con l’ostia del suo significato»): impennate da associare ai sorprendenti scandagli, al limite del lirismo, nelle acque profonde dei personaggi, come quelli diretti alla Lisa che annaspa nel «metro cubo della sua disperazione» («cominciò a sentire il corpo come una macchina scomponibile, da lei divisa. La colpì l’impressione di non essere più dentro la propria anatomia»), a Silvia («avrebbe dovuto tenersi in petto il suo genio come un feto non nato, tutta la vita con le doglie acide di non partorirsi mai»), ad Andrea («tu le donne preferisci pensarle come esseri vegetali, fiori, non di carne, della loro carne vera non vuoi saper niente, per te fra le cosce hanno un’orchidea»), ai ‘compagni delusi’ («avevano visto insieme il presente come una pianura su cui le forze si disponevano, i movimenti ondeggiavano come spighe nel campo, e da là, ecco, arrivavano, a segare con la falce in mano»), a Miranda («sento male, male nella carnosità dell’anima, in quei pezzi d’anima più attaccati al corpo che poveracci ti generano la sensibilità»).
La ricchezza tonale di questa partitura si giova, sul piano stilistico, dei pregevoli cammei intagliati da voci rare («montura»; «zibedei»; «schiribizzo»; «rufolati»; «pispiglio»), da saporite filastrocche («Violino greco e latino son la ricchezza di questo bambino»; «disgrazia che dorme non morde»; «l’uomo da poco si vede al foco»), da estrosi calembour («Ma qualcosa richiamava il suo cuore di mamma di tutte le cose dei Risvegliati, come un pianto di cosa che avesse subito qualcosa»; «Dormirono uniti unita la notte»),[12] dall’ardito metaforismo dei chicchi di neve assembrati a «Pierrot dell’eterno circo del cielo», dalla fonologia felina di «un ao molto nasalizzato e pronunciato con l’erre alla francese», dai monelleschi riferimenti al Dante stilnovista («Dagli occhi passerà alla mente, desterà questo coso dormiente, che allora solo sarà sesso vivente»), a Cavalcanti/Poliziano («Unite dal filo del telefono per parlare fra loro in suo latino»; «I calici rosa delle magnolie parlano con l’aria pura in suo latino»), al Machiavelli della Mandragola («Tu senta tanto come un uom di legno»), al Leopardi della Ginestra (lungo il capitolo Falegnami profumati sul formidabil monte sterminator Vesevo), a un ‘santino’ della poesia di Blok («La sconosciuta tradita, mancanza presente, in nessun luogo e dovunque»; «Donna che non sei, di cui è solo la mancanza, che scaldi il gelo, che ti canti col gelo, con la distanza, con la notte…»), e persino a Giorgio Gaber («ma come è bella questa città»).
Danze al buio sta tutto sulle spalle di Clara (ennesimo degli «individui difficili, fuori dalle grazie della norma, fuorusciti palesi o nascosti, insofferenti dei canoni»), protagonista dell’epopea giovanile di Il Tevere infingardo e quindi, con una forte cesura temporale, delle tardive eroicomiche di Storie della strada della vedova Clara e Resurrezioni (le due dimensioni si incroceranno – al vento di una «memoria profetica», portatrice di «messaggi indelebili su carne capaci di muoversi e navigare lungo il tempo» – nella scena che la vede a Pistoia, alla vigilia della partenza per la sede dei suoi studi universitari, sospirata, come in Anonimo povero, all’insegna del cecoviano «a Roma, a Roma»: «Mi prese un lampo di panico, un rimprovero, la voce di una vecchia me che mi raggiungeva a ritroso. La mia vecchiaia scriveva un telegramma alla mia giovinezza»). Ma il suo monopolio è tutt’altro che pacifico. La prima persona che in principio ne rivendica i passi deve subito subire l’interferenza di un accento allotrio («Di chi è questa voce? Dopo te lo dico, continua»), di un ‘perturbante’ riconducibile sia alla fantomatica «giuria popolare» «autoconvocata e plenipotenziaria», al «ministero diffuso detto anche pubblico parlante» (il super-io collettivo, a volte censorio, a volte irridente e sbarazzino, che ne discute regolarmente i referti), sia all’ io-anima (l’«anima smemorata, sfibrata», «diversamente viva», «archivio che è oblio», «coscienza profonda, o precoscienza», «suo latino», «sua recondita lingua») che nelle altre due parti cerca di raccontarla: «io e le mie parole si sta quaggiù e non si produce più lingua di Clara. Anche se lei a volte origlia». Il vivace viavai di narratori e narratari – ancora movimentato da racconti interni (Cronaca di Orlandina; La pianista; Karopil’skie Usad’by), da passi epistolari e dalle carte riemerse (Spiritismi poetici) che, verso la fine, rimenano alla situazione iniziale, e ai suoi «esseri pelosi, bestini» – misura un percorso non rettilineo, una accidentata materia aperta dal Bildungsroman della giovane Clara, che, tornando sulle mappe romane del Pio di Anonimo povero (e dell’anonimo io narrante di Elegia del 1° maggio), sembra recuperare, per vie meno indirette (e, in certi punti, con impeto quasi documentario), una fase ‘fondativa’ della stessa vita dell’autrice. «Mi trasferii a Roma nel 1965, a studiare, senza programmi di fare chissà che».
L’avvio di Roma (l’esteso segmento che, dopo il prologo citato in precedenza, colonizza Il Tevere infingardo) rinvia infatti alla dichiarazione della curatrice di Il programma del pane (che, sappiamo, faceva iniziare il suo periodo universitario, e la frequenza del corso mandel’štamiano tenuto da Angelo Maria Ripellino, nell’anno accademico 1962-1963). Se anche posticipata di un triennio,[13] l’avventura romana di Clara sembra ripetere quelle orme, denunciando la propria fonte (dentro le quindici pagine dell’altro racconto interno che ospita, con malizia intertestuale, la sagoma, e il «diario», dell’«ingegnere italiano in giro a piedi per l’Europa a studiarvi le strade ferrate», col suo «futuro vuoto, un isolamento che lo attendeva anche nella sua terra», ossia una controfigura del Potenti di Ispida stella) soprattutto nel trasversale omaggio al Maestro commesso alla maschera multistrato di «Jiři il boemo» («bevitore abituale» e mentita «spia», figlio di «un’ebrea praghese e di un violinista polacco», vecchio «di qualche secolo» e possessore della pietra filosofale, detto anche «Gigi il boemo», «Gigi il mago» e – con allusione alla Obščestvo izučenija poetičeskogo jazyka, la Società per lo studio del linguaggio poetico, molto presente nei saggi di Ripellino – «Jiři Opojazi»): un ritratto anamorfico (doppiato dall’accenno alla «affittacamere signora Hlochovà» in cui celiosamente risuona il cognome della moglie di Ripellino) che basta a fulminare, insieme all’aspetto fisico del ‘professore’ («Un corto naso a becco, occhi color oliva che artigliavano da sotto un tetto di sopracciglia nerissime e folte, baffi ancora più neri su un sorriso beffardo e un ciuffo di tenebrosi capelli dritti e brillantinati»), l’incantagione di «quelle ore di racconti, di poesie e poeti a noi ignoti, letti in lingua originale e per noi tradotti nel suo linguaggio meticcio che era italiano tutto suo e solo in parte nostro», il fascino del poeta-slavista che «ci instillò il desiderio di Praga», del suo ineguagliabile stile (‘imitato’ nella ‘gigioneria’ della città «inquietante, ora fumosa, torbida e cupa, ora dorata, maliosa»). Questo lontano germe raggiungerà anche i luoghi emblematici del soggiorno romano di Clara, poli della sua maturazione: il «collegio di suore francesi domenicane, a via S. Agata dei Goti, il Rosario» e l’appartamento studentesco «all’ultimo piano a Campo de’ Fiori, sopra il cinemino Farnese» (teatro degli intrighi che precorrono l’episodio-chiave della seconda parte). Nelle fotografie illustrative della «Casa per ferie» in cui il primo è stato nel frattempo trasformato si possono ancora ammirare i «giardini terrazzati interni al complesso, pieno di alberi d’arancio e loto», e persino gli «stretti corridoi» convocati da Clara, mentre la consuetudine con l’altro («una piattaforma in cielo, in una scheggia di edificio in bilico, una punta di mattoni in equilibrio sul vuoto») ha un’attendibile controprova nella sua pronunciata somiglianza con il «sottotetto di via del Pellegrino 9, col terrazzino che ti lanciava sulla piazza» (quello «lassù in cima ai tetti, in fondo alla piazza, sull’angolo, sopra alla pizzeria», con «l’idea di volo e di sospensione che ti dava in un minuto solo all’arrivo»), dove il Pio bambino di Anonimo povero viene ricoverato al termine dell’inebriante sfilata in cui si è perso (ma il sapore di cose vissute si trasmette all’intera topografia di Roma, e in particolare al Farnese infestato da «film di argomento greco romano, Ercole, Troia, Ulisse», all’altro «cinemino», il Rialto, «dove magari proiettavano il mio prediletto Aleksander Nievskij», allo «studio di un Turchiaro dove vidi quegli insetti metallici»). Roma è quindi, in primo luogo, l’addio alla location della giovinezza, teatro di un apprendistato che non si finisce di rimpiangere (con appelli alla Roma «nostra, presessantottina, l’aria, i suoni, la leggerezza, i canti all’osteria», al «travolgente transito umano sulla piazza della mia vita», alle «polle cristalline e senza livrea che scaturivano liberamente e si producevano senza lucro», alle «recite permanenti di popolo pasquinante e giovani ribelli col mondo sulla punta delle dita da rifare con forza d’immaginazione»), anche quando se ne deve lamentare l’inattesa eclissi (la «strana previsione di vita che sfuggiva, che svoltava in direzioni indesiderate e irreversibili, dove tramonta il divenire», o l’attimo «che pareva irradiarsi alla vita intera, in realtà si chiudeva lì»).
Quanto ai personaggi, molti danno l’impressione di essere ispirati a modelli ben precisi, di cui si potrebbe, volendo, rintracciare l’anagrafe. Parlo della suora francese che «cantava giuliva qualche laude sacra come fosse Azzurro di Celentano, con le maniche sempre rimboccate e la tonaca sollevata, i piedi nelle grandi scarpe nere che ne uscivano da sotto e parevano salutare di qua e di là», di Berto Pertinari, «piemontese, saltuario critico cinematografico, che non si sa di preciso come campasse», della donna «di quasi ottant’anni, con un corpo bello sodo, bei seni eretti», di Dario, «bello e corteggiato», della vedova Taverna, «piccola e tozza, i capelli bianco grigi tutti crespi», della fatale Nanà che «pareva Nefertiti», di Tigellino, «spietato nei suoi giudizi su tutti», del gruppo coinvolto in «un film verità finto» (la Concita «di ritorno dalla mescita in piazza dove ha ben schiccherato i suoi quartini», Umberto Gracchi, possente «scaricatore ai Mercati Generali» e ‘marito’ di «un sarto magrolino e pallido, la faccina a pretino»), delle principesse Juliani (di «famiglia antica», ma «conosciute alla madama»), del concupito Memo (con il suo annichilente «senti, ma tu» fatto «talismano» di un amore mancato), e dello stesso Arrigo/Callo, il «Principe Celestino» di Clara, deuteragonista che par essere il prototipo, l’‘edizione giovanile’ del Franchino di Anonimo povero e del Marcello di Inane (similmente una pratica di Clara – l’«esplorazione delle emergenze presenti dell’antico», «l’arte della sintesi temporale, che concentrava i millenni nel nostro minuto» – sembra arieggiare un’esperienza radicale dell’autrice). Le verosimili ragioni private non riescono comunque a prevalere sulla libido narrativa che spesso e volentieri dà luogo a irresistibili pezzi di bravura: quelli, ad esempio, adibiti all’inseguimento della Superiora («Un furore indiavolato mi sollevò da terra, infiammata volai come un arcangelo vendicatore a inseguirla piano dietro piano»), alla facinorosa ‘giurata’ «signora Diesira dalla Ciociaria» («Date un microfono alla signora Diesira, vuol dire qualcosa signora Diesira? Buongiorno signora, vedo che si è fatta la dentiera nuova»), alla lacrimevole storia dell’uomo attempato che torna dalla donna, ormai vecchia, che lo ha «corrotto bambino in casino».
Come si è detto, le Storie della strada della vedova Clara sono allogate nel medesimo territorio di Il genio del luogo, sostituendo l’anonima e ribelle inquilina sotto perpetua minaccia di sgombero con la non meno reattiva Clara anziana (posta tra le «orfanelle del sessantotto» e spalleggiata dall’eterea hospes comesque che ne dice e chiosa le gesta), e il suo generico villino in affitto sulla collina con la residenza del Poderino («una volta rifugio campagnolo della famiglia di Clara»), e concedendo uno spazio più esteso all’antica magione sul fondovalle (ora caduta «nel baratro della parcellizzazione in condominio presuntuoso» e assediata dalle «excoloniche», le umili costruzioni promosse, con speculare processo, «in orrendo grado di ville e moltiplicate in porzioncelle, infittite, imprigionate in scampoli di prati e praticelli inglesi, in recinti senza respiri di larghi orizzonti, murate vive dentro linee civettose di stili rurali») e all’impettita dama di compagnia «che visse una vita non sua in un nido di nobili», nell’incantesimo del castello da fiaba (le cui «enormi sale, la dismisura dei soffitti, gli ori funerei dell’impero, le armi, le uniformi quasi vice cadaveri davano l’impressione di un mondo border line, in bilico sui morti») esplorato da «Adelaide, la fatina».
Uno spazio che si dispone ad accogliere – insieme al nuovo ‘lamento’ sul paesaggio offeso, all’interno della nuova cogitazione sulle capsule temporali incistate nelle cose – un’altro rinvio al titolo del libro, e alle sue multiple ragioni («Se prendere l’oggetto finito. Se percorrere l’oggetto a ritroso, nel suo cammino fino al bruco per la seta, fino alla pecora per le lane, passando per l’ago e il filo e il telaio e l’arcolaio trovavi una natura di potenze diverse, latente e trasportata all’oggi entro quei sarcofagi armadio. Ore di lavoro, di pensieri, di occhi, di respiro ignoti e tumulati in fragili trame di tessuti non più viventi. Tante ore, tante danze al buio»), e un’altra obliqua professione di poetica: «mi scuso se la fo lunga, ma ho queste manie represse d’una vocazione precocissima a raccontare robe lunghe, piene di diverticoli e spirali e divagazioni che vanno per conto loro». Nelle trame che subentrano all’ariosa presentazione della ‘scena del crimine’ si possono intanto isolare i due personaggi ‘di raccordo’ (quell’Augusto Ghieri, l’insolente «vicino di casa» di Clara che sarà letteralmente ostaggio della terza parte e Nicola Patanè che, viceversa, in quanto figlio di Nanà/Nefertiti, si riallaccia alla prima, dove già figurava in qualità di «testimone», ereditandone anche il leggendario sidecar) e le due associazioni cui Clara si trova in vario modo affiliata, ossia i VCS (i «Vecchi Comunisti Sciolti» che «alla S potevano diventare sbatacchiati, sbaragliati, sfigati, sfibrati, ma anche santi, sonnolenti soporiferi e via di seguito», e che prevedono una sezione femminile di «Valchirie Cadenti Scaldaletti» o «Vecchie Cornacchie Scribacchine») e il sedicente «collettivo del gas» (detto anche «club filologico del gas» e «circolo del gas»), costruito per risparmio e compagnia da una manciata di donne d’età: sodalizi responsabili di un ‘traffico intenso’ intersecato da sentieri laterali che esibiscono la molto provinciale presentazione di un libro («qui non c’è donna sensibile che non rileghi un volumetto sulle Pentole del Sesso Stracotto»), una tardiva avventura erotica di Clara, la indipendente Cronaca di Orlandina, e tratti di sapore più strettamente autobiografico, come quello che fotografa la foto di «un gruppo della primavera di un millennio fa» («All’estremità dell’ultima fila, tra chi gli erano toccati i posti in piedi, una Clara che le piacque tanto e anche a me, come piacciono alle vecchie le immagini giovani di se stesse. […] Tigellino era sdraiato davanti a tutti, la testa appoggiata su un braccio, l’altro braccio lungo un fianco, giulivo in quel pieno di allegria»), o la pagina di La pianista (sembianza «che una volta in città molti conoscevano, per la bellezza e l’indubbio talento», i cui «grandi occhi neri non venivano toccati dal velo latteo della cecità»), che rimanda alla Pina di Anonimo povero. Nel folto di questo bailamme (il cui fil rouge sarà l’agnizione della sorprendente genitura di Nicola/Nicò) brillano l’impagabile mimica di Berta in coda alla sua perorazione sul libro dell’amica Flora («sentì di non riuscire a trattenere il riso: lo congelò all’inizio in un sorriso larghissimo, spalancato, poi sull’orlo del baratro cercò una battuta che le permettesse di svilupparlo nella risata che le scappava, come raccontò, “più forte d’una pisciata”. Tanti e vivi questi personaggi che mi vien voglia di reintitolare il libro di Flora (e già rideva): Flora e la sua fauna»), e soprattutto l’aureo frammento che officia (sul modello della trance di Vilda in Inane) una specie di levitazione chagalliana: «Clara le vedeva, e con loro se stessa e già erano più in alto del tetto e oscillando come in walzer parvero volersi dirigere verso l’Appennino. Contemporaneamente Clara da lassù vedeva la casa sempre più piccolina e il giardino e i giardini degli altri e la città in miniatura, e se stessa in fondo in fondo a bocca aperta che salutava, e volò in walzer sul campanile di San Jacopo da dove imboccarono lievi lievi una rapida ascesa».
Il plot di Resurrezioni (quelle di Ovidio, «gatto diciottenne con insufficienza renale» già dato per morto, e del Pippo già seppellito fra i Sarmati) è relativamente più lineare, diretto da una neutrale terza persona e tutto indirizzato alla notte di tregenda da Arsenico e vecchi merletti che consegue alla notizia data in apertura da una delle veterane («esiliate dalla vita balenata e abortita») del circolo/club/collettivo di energie solidali: Clara «ha catturato il vicino». Ma i fuochi d’artificio di una hitchcockiana commedia-thriller orchestrata sul rapimento, la prigionia e l’avventurosa riconsegna del protervo Augusto Ghieri (e su un non meno esilarante intermezzo: l’affaire – narrato da una Zina Gorelikova il cui cognome sembra salutare a distanza il Gorie/Dolore di Inane – della tenuta russa gremita di ostaggi letterari come il principe Andrej, la principessa Bolkonskaja, «un certo Onegin», «un certo signor Pečorin», «una damigella di nome Tatjana», il «sindaco di Mosca, gospodin Svidrigajlov», e acquistata dall’affarista mafioso Cirino Caropilo con la stessa flemma del turista italo-americano fatto proprietario della Fontana di Trevi in Totòtruffa ’62) festeggiano anche il riscatto di una vita e della generazione che ne ha accompagnato il cammino. La vendetta corale della ‘banda Clara’ sdogana una «notte italiana tornata da dove era al confino» (e con essa l’«infinito di affini incamerati nella vita, allontanatisi per vie ignote, e che a volte, volte come questa, tac! Ti si convocano tutti insieme a frotte e ti riparlano in suo e mio latino…»), regredendo a «quella sfera volante che ti abbraccia dall’infanzia alla prima adolescenza, indistinta e densa, sintetica forse anche di tutto il suo futuro, che ti si mescola la gioia e il tremore», e che prelude all’intera «accumulazione dell’anima»: «Ti pare come se tutto vi debba essere entrato, tutto depositato, come un’immensa biblioteca, un archivio interiore che cura e contempla tutti i certificati emessi dai tuoi sensi, e acquisito dai sensi altrui che t’abbiano coinvolto, toccato, natura compresa, le sue luci, foglie, odori, e piogge e terre intrise di pioggia, o il profumo della salvia che cresce in quell’angolo assolato dell’orto, d’un orto che non c’è più e c’era cinquanta sessanta anni fa… e la salvia con l’orto ora nella tua anima, il suo orto è la tua anima». Per quanto precario, questo calore di fiati contigui e di sguardi che si riconoscono (se non la «compartecipazione all’ultimo estremo contatto di tante bestiole con la vita, che non sai se ti vedono in quel momento, che cosa vedono quando l’occhio s’allarga e si fa vitreo, forse impaurito prima di sprofondare nell’incognita assoluta solitudine…») è il solo antidoto al «grande lontano», al gelo cosmico e alla segregazione sociale documentati dall’antico diario che, nelle ultime battute, Clara ‘aggiusta’ per annettervi l’allora assente Pippo, come a dire che l’assurdo della giovanile speranza di futuro compete con l’altrettanto insensata fede nell’evanescente passato.
«Già piccolissima appartenevo a quel genere di bambine che accanto alla stufa raccontano fiabe alle nonne. Ciò che scrivevo è rimasto però per anni cosa privata, non perché non volessi pubblicare». Queste dichiarazioni, offerte nell’intervista «Ispida Stella», Lia Tosi racconta nel suo libro cento anni di Pistoia, raccolta da Riccardo Bruni («La Nazione», pagina on line del 2 agosto 2013), danno forse la duplice chiave di un’opera che si configura come una vera ‘danza al buio’, dove il primo termine ritaglia la felicità di una disposizione allevata nel tepore del grembo domestico e potenziata da un magico scambio di ruolo (la nipote favolista della nonna) e il secondo la sorte ‘diversamente felice’ del non negoziabile esercizio letterario che ne è derivato.
La produzione adulta di Lia Tosi sembra conservare il compulsivo fervore delle sue immaginabili esternazioni infantili, si nutre, per dirla con il nostro Ripellino, di una «gioia saltimbanca» in grado di animare qualsiasi soggetto, fosse anche la lista della spesa (non a caso Danze al buio presenta diversi brani disposti ad elenco, ad esempio quello dei pesci esposti al «Rybnyj Magazin in ulica Malaja Gruzinskaja»: «carpe, carassi, sogliole, trote, storioni, salmoni norvegesi e siberiani, siluri, cefali ippoglossi, perche»), e di locupletarlo con slavine di digressioni; ma sembra ugualmente fare tesoro del suo endemico isolamento, ottenendone tutta la libertà che ogni genere di committenza porta a limitare (lo stesso binomio si manifesta, a livello tematico, nelle costanti adibite al consolante miraggio di un cerchio comunitario che rinnovi l’universo premurosamente solidale dell’infanzia e al corrispettivo risarcimento delle esistenze neglette che la sua perdita ha moltiplicato). Questo inscindibile plesso di radici genera una vegetazione narrativa che rammenta il selvaggio rigoglio del giardino di Bruno Schulz (in Agosto), un proliferare di storie autarchiche, maleducate e ribelli, refrattarie a ogni prevedibile schema, di ansimanti ‘prese dirette’ che tolgono il fiato, che ci invitano a entrare nel pieno di una furibonda mischia: un ‘prendi o lascia’ che mette fuori causa il compassato contegno di chi era venuto ‘solo per dare un’occhiata’. Lia Tosi è l’esatto contrario dello scrittore ‘come si deve’, con i numeri a posto, tutto equilibrio, precisione, economia espressiva (quello dei ‘racconti perfetti’ alla Stoner), ma ha l’immenso pregio di trascinarci di peso nelle sue folate, nei suoi entusiasmi, di indurci a una elettrizzante pereživanie che fa plenariamente perdonare le parole di troppo, le ripetizioni, le lungaggini: le scorie che un’autentica passione si lascia dietro.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] Così rivendicati nella quarta di copertina di In via della casa effimera (La Meridiana, 1999), la singolare raccolta di racconti che vi fa seguito (preceduta dall’esergo «Sono frammenti di deportazione, piccola, astorica, per questo visibile solo a chi la vive»).
[2] Vd. Milva Cappellini, Passione civile, valore inattuale, «Il sottoscritto», 1° dicembre 2008.
[3] Molto utilizzati anche in Danze al buio: «una grinza me la faccia la giubba, non la pancia»; «Fior di coperta marito d’inverno, fiorin di vino marito d’inferno»; «povertà non è vergogna che alle volte lusso sogna»; «fiore appassito, dente che duole mancato marito»; «fior di lattuga a chi la vita è dolce a chi acciuga»; «fiorin morello marito sempre quello, amante l’amore è fringuello»; «fiorin d’inghippo ci mancherebbe solo il dottor Pippo».
[4] Insieme agli inserti di tessere toscane (a quelle appena citate fanno ad esempio seguito, in Inane, «pesi» [pesanti], «loffi», «biroldi», in In via della casa effimera «radicolette», schiavacciare», «golaia», «duino», «salcigna», in Da maggio a maggio «spenge», «pille», in Anonimo povero «sdrucinava», «scarcassato», «rufolava», «scarfagnate», «ugnelletti», «berci», in Ispida stella «sbuzzata», «berlingozzi», «buzzo», in Danze al buio «bischero», «ganzava», «caldano», «piattaia», «bazzino», «biroldo») questo uso linguistico costituisce una cifra della scrittura di Lia Tosi: Inane offrirà «v’inseguite nel superlativo», in In via della casa effimera «un immenso di lavandini», Anonimo povero «Le sole di Alba», «telefonate dal fatato», «gli altri soli degli orti», «il primaverile», «l’interiore», «incarnazione col fulgido dentro», «lo identificavano col maschile», «nel minimale», Danze al buio «un grande lontano».
[5] Giudizio citato nel foglio editoriale che accompagna la ricordata riedizione di Polistampa.
[6] Vd. Lia Tosi, Anonimo povero, S. Cesario di Lecce, Manni, 2008: 196 («Curiosa veniva a guardare l’America sulle pellicole dei musicals e delle favole spensierate, le avventure del West, i buoni di Frank Capra. Senza sospettarlo io bambina andavo al cinema con mia nonna bambina, che in me trovava la compagna ideale per la sua ludica resurrezione»).
[7] Caro nemico, Soldati pistoiesi e toscani nella resistenza in Albania e Montenegro, 1943-1945. Atti delle giornate di studi, Pistoia, 8 novembre 2014, 17 ottobre, 11 marzo, a cura di Lia Tosi, Pisa ETS 2018; Se fossi inchiostro, 1945 dall’Italia all’Albania. Lettere ai soldati redivivi, a cura di Lia Tosi, 2020.
[8] Lia Tosi, Il tenente T e il dottor K, Pisa, ETS, 2019.
[9] La massima ‘decifra’ i larvati richiami di Inane (la Russia «dai mille sportelli, telefonici, postali, teatrali, dove nidificavano gli infimi tiranni esercitanti il potere d’abuso sui più piccoli di loro») e di Via della casa effimera (il proprietario-impiegato che «ritirava gli affitti delle sue due case alla sua scrivania nell’atrio di un Ente Pubblico» e che «faceva stare in coda gli inquilini anche se non c’era nessuno»).
[10] Vd. Osip Mandel’štam, Il programma del pane. Come lievita la poesia, a cura di Lia Tosi, Milano, Jouvence, 2021, p. 227, n. 35, dove la curatrice ricorda la sua frequenza, nell’anno accademico 1962-1963, a «19 anni», del corso di Angelo Maria Ripellino sulla poesia di Mandel’štam.
[11] Lia Tosi, Ispida stella, Villorba (TV), EdizioniAnordest, 2013.
[12] Massicciamente adoperati anche nel successivo Danze al buio: «Un abbandonarli al loro destino di carcerati in un destino?»; «cassi tuoi, dicevo spavalda, e cassate tue»; «E se nudo come un verme si accorge che sono un verme?»; «padroni dei vizi dei padroni»; «che fatica il dovere di essere l’essere differente»; «gelando il gelido stambugio»; «Rideva di noi, io ridevo di Callo, Callo rideva di sé, io poi ridevo anche di me, Callo rideva allora anche lui di me, Dario rideva dello zabaione»; «l’oblio che son’io»; «me li so proprio rotti i miei rincoglioniti zibedei!»; «se pare strana non è strano, è sempre strana!»; «Tutti? Tutti chi? Siete in tanti? chiese interessata Marfisa, ma interessate e sorprese dei tutti erano tutte»; «Marfisa attratta dagli argomenti che la respingevano»; «una persona rimasta senza famiglia si rifaceva famiglia affamigliandosi badante e parenti della badante»; «Se Pippo s’impiglia e la vigilanza lo piglia?»; «si sentì la preferita, ignara che il preferito era il cappotto».
[13] A costo di una flagrante contraddizione interna. La «morte di Paolo Rossi» (avvenuta il 27 aprile 1966) è collocata in un «27 aprile» che però segue l’arrivo di Callo/Arrigo, implicitamente datato 1968 («Rividi Callo i primi di ottobre. Era il mio terzo anno romano»).
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, Giacomo Debenedetti, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto, sono parzialmente raccolti in Il leggibile Pizzuto (Polistampa, 1999). Ha, inoltre, dato alle stampe le raccolte poetiche Rime (1985), Petrarchista penultimo (1986), Dei verdi giardini d’infanzia (2001). Fra i suoi lavori più recenti, i commenti integrali a Testamento e Sinfonia di Antonio Pizzuto (Polistampa, 2009 e 2012), i saggi Notizie dal carteggio Ripellino-Einaudi (1945-1977) (in «Annali di Studi Umanistici», 7, 2019), Bibliografia degli scritti di Angelo Maria Ripellino (in «Russica Romana», xxvii, 2020), Per Simone Ciani: un ricordo nel giorno della laurea (in «Annali di Studi Umanistici», IX, 2021) e la cura di volumi di Angelo Maria Ripellino (Lettere e schede editoriali (1954-1977), Einaudi, 2018; Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), Aragno, 2020; Fantocci di legno e di suono, Aragno, 2021; L’arte della prefazione, Pacini, 2022) e di Antonio Pizzuto (Sullo scetticismo di Hume, Palermo University Press, 2020).
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