di Antonino Buttitta [*]
Gli storici tendono a sottovalutare la presenza greca in Italia durante l’Età bizantina. È un errore che porta a non intendere esaustivamente la storia culturale del Paese. Quando, Desiderio, Abate di Montecassino, dopo contrastate e complesse vicende, alla fine contro la sua volontà accettò, il 9 maggio del 1087, di essere consacrato definitivamente Pontefice, il suo precedente interesse per l’arte religiosa bizantina non cessò. Nel 1071 Papa Alessandro, alla presenza di quasi tutti i capi longobardi e normanni dell’Italia meridionale aveva consacrato la Basilica. L’opera in modo chiaro rifletteva l’influenza dell’arte bizantina. Pur essendo andata perduta noi possiamo riconoscerne lo stile dalla Cattedrale di Salerno, fatta costruire da Roberto il Guiscardo. La sua forma è quella della basilica romana, le colonne provenivano da Paestum, ma tutti i mosaici, per quanto opera di artigiani italiani, erano di stile bizantino. Era stato proprio Desiderio, da Abate, che per rifare la Basilica, aveva fatto
«venire da luoghi lontani come Costantinopoli artigiani specializzati nell’arte del mosaico, degli affreschi e dell’opus alexandrinum (quel tipo di pavimento marmoreo che è ancora il vanto di innumerevoli chiese dell’Italia meridionale). Era diventato un mecenate ed esercitava un’influenza culturale unica per il suo Paese e la sua epoca» [1].
Basta osservare pavimenti e soffitti, di età medievale e anche oltre per capire quanto la cultura bizantina abbia influenzato l’arte soprattutto religiosa del Sud. In Sicilia che nei suoi monumenti ne è la prova, è sufficiente osservare il Soffitto della cattedrale di Caccamo [2]. Perché allora, è giusto chiedersi, si parla, e non solo per il Soffitto dello Steri, di arte islamica? Isaiah Berlin in Le radici del Romanticismo [3] ha scritto che a fronte di un bene artistico, come quello che osserviamo allo Steri, è superfluo andare alla ricerca degli autori: semmai delle similarità tematiche e stilistiche con altre opere. Dobbiamo quindi pertanto non dimenticare quanto diceva Herder: «ogni uomo che desideri esprimere se stesso usa delle parole. Queste parole non le ha inventate lui, ma gli sono state trasmesse all’interno di un flusso ereditato di immagini tradizionali» [4]. Herder non pensava a una comunità razziale o nazionale.
«La sua tesi grosso modo è questa: ciò che le persone che appartengono allo stesso gruppo hanno in comune è più direttamente responsabile del loro essere che non ciò che hanno in comune con uomini che vivono in altri luoghi […] Il valore di un’opera d’arte dovrà essere analizzato in termini del particolare gruppo di persone cui è rivolta […] Se non capisci che cosa erano i Greci, che cosa volevano, come vivevano se (come dice Herder, riecheggiando Vico in maniera stupefacente) non entri […] nei sentimenti di questo popolo […] non cerchi di immergerti nella loro forma di vita […] se dunque non cerchi di far questo, le tue probabilità di capire davvero la loro arte […] saranno assai scarse» [5].
Ciascuno di noi, quando pensa, parla o opera, è un soggetto plurale. La sintassi verbale e tecnica che usiamo prima di appartenerci è stata di altri. È un fatto sociale. È quello che chiamiamo: la tradizione. Se vogliamo realmente capire quanto intendono comunicarci le immagini dello Steri, dobbiamo quindi entrare, sta dicendo Herder, nel mondo culturale del Medioevo siciliano e europeo; in una cultura con una visione eroica del passato, che si alimentava a un leggendario animato da mostri e animali fantastici, da epici scontri tra cavalieri, da amori tra personaggi letterari antichi e contemporanei: un fantasioso immaginario che sublimava le proprie contraddizioni rivivendo miticamente il proprio passato.
Come abbiamo appreso da Vico, ancora prima di Herder, i miti non erano alterazione della realtà. «Erano maniere in cui gli esseri umani esprimono il loro senso dell’indefinibile, degli ineffabili misteri della natura» [6]. Volgevano e «comunicavano questo mistero in immagini artistiche, in simboli artistici che riescono, senza parole, a connettere l’uomo ai misteri della natura» [7]. Diciamo pure, a convertire l’immaginario in leggenda, la leggenda in epos, l’epos in storia. I protagonisti di questo mondo culturale, attivi in ambienti colti non dimentichi del proprio passato, ma anche popolari, erano i trovieri sicuramente presenti in tutta l’Europa [8]. Una presenza che in Sicilia è perdurata fino al secolo scorso [9].
Non è un caso che il Soffitto dello Steri venga riproposto e valorizzato nell’Ottocento romantico. Né è casuale che già a partire dall’esotismo di questo secolo si sia parlato per spiegarne le immagini di arte islamica. Nel secolo precedente l’idea che si aveva dell’arte medievale era del tutto opposta. Così ne dice la Tuzet rileggendo i viaggiatori del Settecento:
«La cattedrale di Messina: “La grossolanità e la pesantezza dell’edificio fanno capire che è stato costruito nei tempi più barbari” (Labat). Non presenta niente di interessante tranne l’altare maggiore, che è “un diamante nei capelli di una donna brutta e mal vestita” (Houël). Il duomo di Cefalù: “un vecchio monumento gotico mal costruito” (Bemerkungen). La cattedrale di Palermo: (ricordiamo che la Sicilia fu dominata dai Normanni fin dal 1072, mentre la cattedrale fu costruita nel 1185) “[...] è di un gusto gotico molto pesante” (Houël). Quella di Monreale: “è un campione piuttosto volgare del gusto gotico e, per completare l’opera i monaci imbecilli hanno fatto imbiancare la facciata” (Swinburne). La Cappella Palatina: “Non ha niente di particolare poiché i mosaici che vi si trovano non meritano alcuna attenzione” (Bemerkungen). “Il colpo d’occhio è grandioso e imponente – riconosce Bartels – ma vi si cerca invano la bellezza”. Riedesel scrive a Winckelmann: “Non mi soffermo sui mosaici gotici di cui i siciliani si vantano tanto, poiché non sono degni della vostra attenzione”. E Dolomieu gli fa coro: “Il mosaico antico, di cui si fa tanto conto, rileva il cattivo gusto del tempo e l’ignoranza assoluta delle regole del disegno: i personaggi sono sempre più grandi delle montagne e delle case”. “In quei tempi – spiega Houël – si spendevano somme enormi in mosaici perché questa specie di pittura parla agli occhi degli ignoranti”» [10].
Borch, dopo aver giudicato negativamente la Cappella Palatina, a dimostrazione di quanto possa accecare una ideologia
«si lancia in una avventurosa teoria sull’origine dello stile gotico, che si dovrebbe più correttamente chiamare stile arabo […] poiché la linea ellittica delle volte, l’agilità delle colonne provano che si è cercato d’imitare in questa architettura le tende, prime abitazioni di questo popolo vagabondo; un’idea che i Goti non potevano avere poiché, anche nel periodo in cui il gusto per la bella architettura greca e romana andò perduto presso di loro, essi continuarono sempre a costruire case» [11].
Questa idea dalla Tuzet è considerata giustamente “strabiliante”:
«È in virtù di un errore storico analogo – dice – che Hager si interessa ai monumenti di Palermo. Crede che la cattedrale sia stata costruita “nel XII secolo, quando gli Arabi dominavano la Sicilia” (ignoranza grave per un orientalista!). “Essa appare come le moschee e i caravanserragli arabi in India, resi famosi dai bei disegni di Hodges. Un gran numero di cupole ornano l’interno, come il grande Oschami a Costantinopoli, le quattro torri ricordano all’osservatore le grandi moschee del Levante”. La Cappella Palatina lo interessa perché è “ancora ornata di iscrizioni arabe che ricoprono i muri. L’azzurro ben conservato, i colori variegati e l’oro che abbelliscono l’interno, formano un bel monumento d’arte araba”[12]. Si noti che Hager è talmente accecato dal pregiudizio riguardo alla insistita e determinante presenza araba in Sicilia da vedere le pareti della Palatina ricoperte di iscrizioni arabe: fatto del tutto inesistente. “Solo il soffitto della navata in legno scolpito è ornato di caratteri arabi”» [13].
L’Ottocento romantico, ha ragione Berlin, costituisce una rivoluzione, pur se di fatto caratterizzata da clamorose contraddizioni. La più significativa è da un lato l’esaltazione spinta fino a un nazionalismo patologico della propria identità razziale e culturale (in genere solo immaginaria), dall’altro la predilezione del diverso.
«È lo strano, l’esotico, il grottesco, il misterioso, il soprannaturale, le rovine, il chiaro di luna, i castelli incantati, i corni da caccia, gli elfi, i giganti, i grifoni, le cascate d’acqua […] le tenebre e i poteri delle tenebre, i fantasmi, i vampiri, il terrore senza nome, l’irrazionale, l’inesprimibile […] È l’antico, lo storico, le cattedrali gotiche, le nebbie dell’antichità, le antiche radici […] È nostalgia, è fantasticheria […] il vagabondare in luoghi remoti specialmente in Oriente, e in tempi remoti, specialmente il Medioevo» [14].
L’Oriente appunto! Per quanto riguarda la Sicilia, trascurando i punti cardinali, l’Oriente assume i caratteri di una realtà fantasticata nella quale andare alla ricerca di forti emozioni. Tra i viaggiatori stranieri Hager non è il solo a interessarsi a una Sicilia proiettata in un mitico Oriente.
«Bartels descrive la Zisa più a lungo di qualsiasi chiesa: ammira le volte ardite, la solida semplicità dell’architettura, la grandezza e la magnificenza dell’insieme (ma trova le decorazioni troppo cariche, composite e prive di gusto). Le leggende sul fasto della corte saracena non mancano di sedurre l’austero scrittore di Amburgo. Anche il giovane Jacobi subisce una magia dell’Oriente, sogna bellezze invisibili che, dal balcone interno, si godono i freschi aliti della fontana, inebriandosi di profumi, il giovane si immagina trasportato in un palazzo di Bagdad» [15].
A differenza di Agostino Inveges, che nel 1651 esplorò il Soffitto dello Steri segnatamente attento alla mappa araldica del baronaggio siciliano, non diversamente dal Marchese di Villabianca anche egli interessato alla araldica, Gioacchino Di Marzo tra il 1858 e il 1864 pubblicò i quattro volumi Delle belle arti in Sicilia, il cui “merito” secondo Ferdinando Bologna è quello di avere dimostrato che «il carattere storico-artistico» delle tre parti del soffitto della Cappella Palatina è «schiettamente musulmano», anzi che esse «sono opera di artisti musulmani» [16]. Affermazione sicuramente ardita, Bologna infatti non ignora che i tre pittori del Soffitto dello Steri: Simone da Corleone, Cecco di Naro e Pellegrino Darena da Palermo erano siciliani e che quando fu dipinto di musulmani in Sicilia non ce ne erano più da tempo: dato da non dimenticare anche relativamente alla ipotizzata presenza di pittori musulmani negli anni di pittura del Soffitto della Palatina (1150).
Non è da dubitare che il successo dell’opinione di Di Marzo fu favorito dal prestigio che Amari si era conquistato nel mondo degli studiosi siciliani [17]. Un prestigio che è perdurato negli anni, coinvolgendo non solo Di Marzo. Da quest’ultimo muove Ettore Gabrici anni dopo [18] condividendone l’idea del carattere musulmano delle pitture e mettendole in rapporto con soffitti coevi della Spagna. Dello stesso parere a proposito di questo supposto rapporto, è Levi che non si lascia sfuggire, tuttavia il valore della iconografia europea del tempo [19]. Levi pensa anche a una possibile relazione con «le tradizioni popolari che da secoli forse perduravano inconsce nelle officine dell’isola» [20]. Una idea ripresa da Stefano Bottari nella recensione al libro di Gabrici e Levi e anche nel saggio Lo Steri e le sue pitture che si trova ne I miti della critica figurativa e altrove [21].
È da questa fantasiosa ipotesi che Giuseppe Capitò [22], e Vittorio Lanza, saltando secoli di storia [23] hanno ipotizzato la parentela del Soffitto con le pitture delle fiancate del carretto siciliano. Un’ipotesi suggestiva nella quale è inciampato perfino Gianfranco Folena [24]. Lo stesso errore ho condiviso inizialmente anche io [25], successivamente, come non ha mancato di notare Bologna, correttomi in Cultura figurativa popolare in Sicilia [26].
Giuseppe Cocchiara ha rimesso il problema nei suoi giusti termini: «se confrontiamo una pittura di Cecco di Naro con quella di una sponda di carretto d’un Cronio ci accorgiamo che fra le due pitture non c’è alcuna possibilità di confronto. Il fatto è che l’arte di Cecco di Naro si inserisce in una tradizione culta, di cui è riflesso; l’arte di Cronio in una tradizione diversa, in quella cioè dei “pittori venuti dal popolo” che hanno anche assorbito motivi diversissimi tra loro, e anche culti, ma li hanno rielaborati secondo una dimensione di gusto e di linguaggio diversa da quella culta» [27].
Tanto discorrere dei modelli originari dei dipinti dello Steri, per altro ostruito dalla loro forzata assimilazione al Soffitto della Palatina [28], dimenticando che tra quelli e questo c’è una distanza di 227 anni (1377-80, 1150), ha portato a trascurare, a vantaggio delle decorazioni aniconiche quelle iconiche, ignorando il rapporto dell’immaginario, presente nel Soffitto, con la società e la cultura siciliane del tempo. È quanto al contrario esemplarmente hanno fatto Henry Bresc e Francesco Bruni che, considerando la parte figurativa del soffitto, in particolare i temi mitici e leggendari, hanno mostrato il suo collegamento con la cultura europea medievale, perfino con le soluzioni stilistiche delle miniature dei romanzi cortesi [29].
Delle loro pagine appare evidente questa relazione, non solo tematica ma anche artistica. L’appartenenza a tradizioni pittoriche diverse della parte iconica e di quella aniconica non è eventualmente sostenibile. Sia l’una che l’altra, ha scritto Bologna:
«sono eseguite all’ingrosso, mediante la stesura corrente d’una stessa materia, che non si tarda a riconoscere per un tipo di tempera molto acquosa, simile a quella con cui, negli affreschi coevi, venivano completate le parti dove il colore aveva fatto presa sull’intonaco asciugatosi troppo presto; e tutte sono il prodotto di una collaborazione di una stessa “équipe” di pittori, presso i quali sarebbe stato inconcepibile – come fu sempre nel Medioevo – una distinta ripartizione dei compiti fra iconografi e aniconografi» [30].
Per altro, ancora più significativo per la tradizione artistica che stiamo discutendo, è che nell’Isola ritroviamo tanto nella Villa del Casale di Piazza Armerina quanto nella Villa Romana di Patti precise attestazioni di figurazioni iconiche e aniconiche risalenti ai sec. III e IV, anteriori di secoli all’arrivo degli Arabi. Un fatto estremamente importante per capire la persistenza dell’arte europea in Sicilia. Se si oppone la distanza temporale di questi documenti artistici, l’obiezione vale anche per la supposta filiazione del Soffitto dello Steri da quello della Cappella Palatina che, ripetiamo, diversamente dello Steri, realizzato nel 1377-80, risale al 1150. Opportunamente Bologna ha osservato che
«Duecento anni e più non possono trascorrere invano, né l’arte islamica si fermò al XII secolo. Qualora, infatti, si tenga conto [...] che nel mondo artistico musulmano si verificarono trasformazioni rilevanti durante tutto l’arco di tempo indicato, un punto dovrebbe risultare inoppugnabile: che, a meno di non appagarsi di somiglianze generiche, la fenomenologia specifica e determinata delle forme non consente serie possibilità di paragone fra il “tetto” dello Steri e il soffitto tripartito della Cappella Palatina» [31].
Un dato è dunque certo: tanto la figurazione iconica del Soffitto dello Steri quanto quella aniconica appartengono alla stessa cultura artistica dell’Occidente. Se ne avvede anche Bologna [32], pur suggestionato dalla strana idea di Gabrici che nel Soffitto si vedono «intrami e volute di lettere, tali da ricordare l’alfabeto arabo», nonché l’inclinazione «a piegare persino i più duri e angolosi caratteri gotici alla capricciosa sinuosità delle volute degli arabeschi»[33], «inclinazioni arabizzanti – commenta Bologna – che erano penetrate anche in Occidente» [34]. Egli stesso tuttavia, mostrando informazione e correttezza, scrive:
«Quanto agli altri elementi avvistati nel primo settore, si rivela subito che tanto le foglie naturalistiche agli angoli dei lacunari 9, quanto gli entrelacs vegetali di III-A-17 e IV-B172 appartengono invece alla cultura occidentale di estrazione gotica. [...] è manifesto che le prime hanno molto in comune con i temi analoghi ricorrenti nella scultura e nella pittura murale europea del XIII e del XIV secolo; ma si badi anche che foglie di viti assai simili a queste si vedono specialmente nell’Apocalisse ms. K 4.31 del Trinity College a Dublino, che è opera realizzata nell’Anglia orientale al principio del Trecento; e si ripetono in forma appena diversa nelle superbe pagine del coevo Salterio di Ormesby, alla Bodleyan Library di Oxford. I secondi hanno somiglianze strette con gli entrelacs francesanti [...] nello Speculum historiale appartenente alla Badia di Cava dei Tirreni» [35].
Si tratta di evidenze che Bologna stesso si affretta purtroppo a smentire, facendo una sorprendente confusione, per altro inattesa in uno studioso rigoroso:
«Riassumendo, – afferma – in questa prima porzione del Soffitto convivono: da una parte una maniera tradizionalistica di tipo neo-romanico, interessata retrospettivamente alle componenti islamiche presenti nei mosaici palermitani del secolo XII, ma attraverso la versione speciale attiva soprattutto negli affreschi anglo-iberici di Sigena; dall’altra una maniera gotica più aggiornata, commista ad elementi d’origine siro-mesopotamica o iraniana di data recentissima. A queste si aggiunge la maniera di tradizione giottesca» [36].
È evidente in quanto dice Bologna l’idea, non solo sua, della scontata influenza dell’arte islamica nell’Isola, sia pure filtrata da altre culture. L’enfatizzazione di una cultura siciliana fortemente arabizzata, alimentata dalla moda romantica dell’esotico e della sua persistenza, si fonda comunque su dati che la giustificano e che non è giusto trascurare. È pur vero che la Scuola dei poeti siciliani, si ispira alla poesia provenzale, prova decisiva insieme al Soffitto dello Steri dell’influenza nelle arti siciliane della cultura europea del tempo. Altrettanto vero è però che, grazie a Federico Il, alla Costituzione di Melfi 1231, da lui voluta, la presenza araba nell’Isola come quella ebraica, vennero legittimate. Da qui la fioritura delle scienze: matematica, algebra, astronomia, dialettica aristotelica. D’altra parte maestro di Federico era il Kadi di Palermo, una delle massime autorità culturali dell’Isola. Né è senza significato che l’Imperatore si sia fatto seppellire con la spada dal fodero saraceno e in un monumento con caratteri cufici.
Palermo si arrese ai Normanni nel 1072, ma non bisogna con questo pensare a una fine della presenza araba nell’Isola: sia perché restavano importanti città ancora non conquistate: Castrogiovanni, Enna, Agrigento, Taormina, sia perché ci furono da parte musulmana tentativi di riscossa: occupazione di Catania nel 1081. Siracusa capitolò nei 1086, Agrigento nel 1087 contemporaneamente a Castrogiovanni. Né venne meno quello che è stato chiamato “arabismo culturale”. Sopravvisse «dopo il tramonto nell’Isola del potere politico dell’Islam, con Normanni e Svevi, e tracce [ ... ] si colgono nelle fonti arabe [...] Ma testimonianze ancora più valide e più vive si hanno nelle pagine di Edrisi [...] nell’Itinerario di Ibn Giubair, negli interessi culturali di Federico II» [37]
Non cessa di sorprendere malgrado tutto che dalle suggestioni orientalistiche degli studiosi scompaia la cultura bizantina: la cui presenza in Sicilia non solo nelle arti, per ovvie ragioni religiose, è stata anche cronologicamente più estesa di quella musulmana [38]. Non bisogna dimenticare che la politica dei governanti arabi, o meglio saraceni, era tollerante verso la Chiesa bizantina. Né bisogna trascurare che lo era pure nei confronti di coloro che rappresentavano la Chiesa romana. D’altra parte «l’esercizio del culto cristiano in Sicilia non venne mai ostacolato [...] soprattutto in alcuni settori orientali dell’Isola [...] non si verificò mai la totale sparizione della fede cristiana e dell’attività monastica greco- bizantina, di cui continuò a essere geloso depositario il clero locale» [39].
Di fatto contrariamente a quanto avrebbe potuto accadere a seguito della dominazione araba, la presenza normanna determinò una “rinascita” dell’arte bizantina nell’Isola. La ragione era anche politica. Quanto aveva fatto Desiderio a Montecassino obbediva a
«un programma ideologico del potere di fronte a un Occidente che già conosceva gli splendori della grande stagione dell’affresco. La Sicilia decise di guardare all’Oriente come a un modello artistico capace di rappresentare lo splendore del potere regio. Trovandosi all’apice della potenza, il re Ruggero tentava in tutti i modi di somigliare agli imperatori bizantini e per questo si servì di maestranze giunte nell’Isola appositamente da Bisanzio» [40].
Le maestranze erano state portate nell’Isola dal fido e potente Grande Ammiraglio di Ruggero Il, Giorgio D’Antiochia. A questo sono da riferire forme e contenuti dell’arte ecclesiale del Medioevo siciliano. Per dare un’esaustiva spiegazione della sua complessità stilistica
«vanno estrapolate anzitutto le dominanti culturali, cioè le matrici fondamentali che possono da sole caratterizzare gran parte dell’architettura chiesastica del Medioevo palermitano. Il discorso sulle “matrici dominanti” e sulle “culture concorrenti” che hanno plasmato le sostanze e l’aspetto dell’architettura religiosa palermitana del Medioevo evidenzia due presenze dominanti: quella bizantina (monaci greci e funzionari regi di alto rango) e quella latino-benedettina (monaci benedettini sia italiani sia franco- normanni). La prima è stata del tutto misconosciuta se non addirittura confusa, nell’Ottocento, con quella saracena, mentre la seconda si era convenuto di chiamarla genericamente “normanna”. Gli altri apporti, per quanto a volte notevoli, non possono essere classificati che come “concorrenti secondari” rispetto alle “dominanti”» [41].
L’aspetto per noi più interessante della presenza artistica bizantina in Sicilia, che spiega indirettamente le pitture dello Steri, è costituito dalla sua estensione a contenuti laici, come ammiriamo nella Gioaria del Palazzo dei Normanni, probabilmente realizzata ai tempi di Guglielmo I «senza dubbio opera di maestri mosaicisti bisantini» [42]. Quest’ultima componente bizantina, più artistica e letteraria rispetto a quella politico-scientifica, ebbe il sopravvento nei regni dei due Guglielmi. All’epoca di Guglielmo I prevalse, sempre presso la corte, un’intensa attività nella traduzione di testi classici greci [43]. È grazie a questa attività che si diffuse in Occidente l’interesse per il Mondo Classico, determinando presso la corte di Palermo l’inizio dell’Umanesimo: «un Rinascimento culturale ante litteram che anticipa quello del Quattrocento toscano» [44].
È significativo che «attorno alle costruzioni sia fiorita una scultura rinnovata dove l’antico rivive in un preannuncio del Rinascimento nella ricerca di equilibri formali e di armonica composizione. Qui è la fonte dell’arte nuova di Nicola Pisano» [45].
«Occorre perciò mutare parere sul Soffitto dello Steri e risolversi a considerarlo se non un’opera dal prestigio dei grandi complessi normanni o dei castelli svevi, certo il frutto di uno sforzo colto, il quale intanto si rimette sulla via di quelli, in quanto non ne imita passivamente le forme date una volta per sempre, ma prosegue e aggiorna il momento diacronico del tipo di struttura culturale da cui quelli avevano preso figura. In altre parole, come i monumenti normanni e svevi erano nati da una vasta apertura sull’Europa settentrionale, sul Bosforo bizantino e sul mondo islamico dei secoli XII e XIII, così il Soffitto dello Steri [...] nacque da una pari apertura sull’arte del secondo Trecento incrociantesi nei mari dell’Isola» [46].
Per tirare le somme, bisogna precisare in termini più attenti quanto dallo stesso Bologna precedentemente detto.
«Quella complessa varietà di agganci – egli afferma – con i diversi momenti dell’arte islamica recente, ben visibile nel settore in esame, non può essere frutto di un affannoso inseguimento, ora qui ora lì, di temi da imitare. Pur dovendo supporre che i maestri addetti dell’opera avessero valutato il distinto potenziale decorativo di ciascun tema, e magari fossero in grado di riconoscerne la diversa derivazione di scuola, è non meno evidente che essi dovettero avere dimestichezza con un ambiente islamico determinato, in cui tutti quei temi e quelle tendenze, dalle persiane alle maghrebine, si trovassero immerse in un contesto sufficientemente unitario, sul filo di un nuovo registro di visione» [47].
Bologna, purtroppo non pensa a un filo ma un groviglio di fili. Considerata, come abbiamo sentito da lui, l’appartenenza dei pittori alla stessa “cerchia”, figurativi e non, ricordando Herder, è invece alla loro cultura che ci dobbiamo rifare. Ibn Giubair, che visitò la Sicilia nel 1184, osserva che alla corte di Guglielmo II molta gente, inservienti, paggi, ciambellani, era di fede musulmana. Scrive anche che il Re «si affida a loro nelle cose più gravi» [48], né manca di notare che un ricamatore (evidentemente un artigiano del laboratorio di tessitura istituito da Ruggero, il Tiraz [49]) è anche egli musulmano. È molto significativo che non noti pittori musulmani, considerato il suo interesse a valorizzare la presenza araba. Bisogna quindi dedurre che non ce ne erano.
Ha sicuramente un significato l’araldica presente nel Soffitto sulla quale ha insistito giustamente Ivenges, infastidendo stranamente Bologna, non intendendone il valore storico riguardo alla comprensione della committenza sociale e dunque etnica. Non dimenticando la consistenza della cultura islamica, pur limitata al settore delle scienze ai tempi di Federico II, per le arti sono al contrario da tenere dunque nel giusto conto i maestri bizantini a suo tempo chiamati da Desiderio. Né è il solo fatto ad averne determinato la presenza. Fu decisiva la proibizione assoluta, decretata nel 726, del culto delle immagini da parte dell’Imperatore di Bisanzio, Leone l’Isaurico, che provocò «la migrazione in massa dei pittori bizantini in Occidente» [50] favorendo la realizzazione dei grandi cicli musivi di Roma del VIII e del IX secolo, di Venezia, dall’XI al XII secolo, di Monreale e di Cefalù nel XII secolo. È in questo periodo che si ha nella Penisola quella che è stata detta “rigenerazione artistica”.
«Solo la pittura non subì un sostanziale e significativo mutamento delle forme di rappresentazione. Nei pochi cicli pittorici rimasti, e ancora più in quelli musivi, forte è ancora il legame con la cultura bizantina che si fonde con componenti nordiche» [51]. È bene ricordare che proprio a Montecassino Desiderio si servì, siamo a metà del XI secolo, «di pittori e mosaicisti fatti giungere appositamente da Bisanzio» [52].
Poiché la storia non è un fatto che è ma che diviene, parlare del Soffitto dello Steri, necessita dunque considerare la cultura artistica medievale quale era, successivamente alla presenza musulmana, presso gli ambienti colti in Sicilia. Già alla corte di Federico la cultura letteraria era in Volgare e tematicamente Settentrionale. È da notare, ed è stato giustamente notato, che
«in un periodo in cui la scelta dell’italiano come veicolo di poesia avrebbe potuto darsi assolutamente logica e anche tecnicamente possibile, i poeti dell’Italia del Nord optavano per una soluzione “esterofila” che li distacca in modo nettissimo dai praticamente coevi autori Siciliani (e poco dopo dai Siculi-Toscani). È possibile che le ragioni di questo distacco vadano cercate anche sul diverso status sociale e nella diversa ispirazione che caratterizza, almeno in certa misura, le due scuole» [53]. «La Scuola dei Siciliani è identificabile per la scelta di uno stile elevato e di una forma elaborata a imitazione della lirica fiorita nel secolo XII nella Francia del Sud, e per una lingua letteraria alta ricreata a partire da una base linguistica siciliana arricchita di calchi dal latino e dall’occitanico letterario» [54].
La cultura siciliana del tempo proprio perché fiorita alla corte di Federico II, non poteva essere che aulica e curiale. Non
«va dimenticata la presenza coeva, dentro l’ambito del regno, sia pure in un’area piuttosto chiusa e appartata, di poesia greco-bizantina: la cerchia dei poeti fioriti intorno al monastero di Casole, legati spesso a Federico, non estranei, pur nelle strettoie del più complicato manierismo bizantino, alle influenze della civiltà cortese dell’Occidente [...] E c’erano poi gli strati di cultura anteriori, l’arabo e il normanno. Di quello arabo solo pallide tracce restano nella tradizione popolare siciliana [...] i tentativi di riportare a tradizione araba alcune peculiarità metriche e tematiche dei Siciliani vanno oggi considerati del tutto fallaci. [...] Alla corte di Federico anche la cultura d’oil era presente e certo doveva essere favorita dalla tradizione di lingua normanna: sappiamo che il normanno era parlato a corte nei primi anni del regno di Federico, ed era la lingua materna di lui che, lettore infaticabile, conosciamo affezionato alla letteratura cortese di lingua d’oil» [55].
Per ritrovare le matrici culturali dei dipinti dello Steri non dobbiamo trascurare che nel Trecento in Sicilia esistevano testi francesi di contenuto epico-cavalleresco particolarmente privilegiati dagli ambienti aristocratici [56]. La dimostrazione più irrefutabile del carattere europeo delle pitture del Soffitto chiaromontano è data dalle storie dipinte, esaminate in maniera esemplare da Maria Bendinelli Predelli nel saggio: La storia di Alessandro Magno nel palazzo Chiaromonte di Palermo [57]. Questa studiosa, con notevole conoscenza della letteratura medievale occidentale, ha mostrato la parentela tra la Istoria di Alessandro e indirettamente con la Historia de Preliis in modo irrefutabile. Ha inoltre, grazie a quanto aveva scritto Bresc, provato la sicura relazione delle immagini del Soffitto con la miniaturistica dei codici di opere la cui presenza è accertata in Sicilia. Che Manfredi Chiaromonte, proprietario dello Steri, possedesse una copia di una delle tante traduzioni di un romanzo dello Pseudo Callistene noto come Historia de Preliis, alla Predelli pare molto probabile, pervenendo quindi a una prima conclusione:
«il ritrovamento di elementi bizantini e concordanze specifiche con il ms. D. di Venezia fanno pensare che il pittore del Soffitto dello Steri doveva avere visto un manoscritto miniato secondo lo stile bizantino e probabilmente imparentato con il ms. D., dunque un manoscritto del romanzo greco» [58].
Un ulteriore esame di tre immagini della Steri, convincono la Bendinelli che esse sono in modo “indiscutibile” connesse a tre manoscritti francesi tra di loro imparentati [59]. Il fatto tuttavia che l’ultima scena del dipinto indizii una sua derivazione probabile dal Novellino, come avverte la stessa Bendinelli, fa comunque dubitare di rapporti diretti. Per noi comunque il fatto è irrilevante. Anche se può dispiacere vedere nel Soffitto cavalieri cristiani che uccidono Saraceni, dobbiamo necessariamente dedurne la conferma della sua appartenenza alla cultura europea e non musulmana.
Grazie alla Bendinelli sappiamo anche di più ed è un di più decisivo, relativamente alla «connessione delle scene rappresentate nel Soffitto e quelle delle miniature palermitane della prima metà del ‘300» [60].
«Diventa – scrive giustamente la Studiosa – quasi commovente incontrare all’Archivio di Stato di Palermo, nei registri del notaio Pellegrino Salerno, la notizia che il 1° aprile 1338 un magister miniator palermitano Filippo di Nicolò, si impegnava verso Berardo di Ferro, cavaliere residente a Marsala, a disegnare e fare miniare “omnia capita et ystorias infra scriptorum guator libronum […] scilicet libri alexandri, martniam conquesta sicilie et troyani sue ystoriarum troie terre et legaliter in pace […]”» [61].
Il documento, trovato dalla Daneu Lattanzi, impone di valutare in termini meno negativi di Bologna l’opinione di Lanza [62] riguardo al carattere indigeno delle pitture dei soffitti siciliani compreso lo Steri. Una ulteriore conferma della matrice culturale settentrionale del Soffitto è data da quanto per il suo significato ideologico, possiamo considerare la sua immagine più singolare conclusiva della «sequenza degli episodi tratti dal Roman de Tristan»: Aristotele cavalcato da una donna [63]. Secondo questa Studiosa si tratta di una rappresentazione della «potenza della perfidia femminile». In realtà bisogna giudicare l’immagine in rapporto agli altri cicli figurativi del Soffitto, fatto dipingere, non dimentichiamolo, per il matrimonio di Manfredi Chiaromonte. Non c’è quindi da sorprendersi che nel bene come nel male la donna vi occupi un ruolo centrale. Piuttosto, a volere leggere correttamente le intenzioni del pittore, si tratta di una esaltazione del femminile sul maschile; dunque, secondo le idee del tempo, dell’irrazionale sul razionale; perfino arditamente possiamo pensare (anticipando la storia culturale europea di alcuni secoli) della fantasia sulla ragione, dunque dell’arte.
Siamo ideologicamente molto lontani dall’Oriente. Epperò l’Oriente c’entra come referente immaginario. Ne avvertiamo la presenza nel fantasioso bestiario del Soffitto. Fin dal Mondo Antico «l’Oriente è la patria dei mostri e Plinio il Vecchio, già nel I secolo della nostra era, scriveva che in India abbondano misteri e meraviglie, opinione che è sopravvissuta a lungo […] Grazie alla leggenda di Alessandro il Macedone l’Occidente conosce bene la fauna di questa regione in cui imperversa il “re del dente”, l’odontotyrannus, visione mitica del rinoceronte» [64]. Si tratta dell’unicorno che compare più di una volta nel Soffitto. Si diceva che solo una vergine potesse catturarlo. È appunto l’immagine di una fanciulla che tiene con la mano il corno dell’animale ancora visibile nel Soffitto [65].
Per concludere, anche ritornando a riflettere sulla committenza sociale e sulla sua provenienza etnica, dovrebbe essere scontata la matrice culturale non musulmana del Soffitto dello Steri e più in generale dell’arte siciliana del Medio Evo. Purtroppo, ha detto Albert Einstein, come abbiamo già ricordato, è più facile dissociare un atomo che distruggere un luogo comune. Sarebbe sufficiente dare tuttavia un’occhiata agli elenchi telefonici delle Province dell’Isola per liberarsi di alcuni luoghi comuni sulle nostre origini. Basterebbe considerare fra l’altro i nomi di città e paesi, assunti dagli Ebrei per sfuggire all’Inquisizione. Nel tempo dei cellulari e della invasione dei media non è comunque il caso di mettersi a sfogliare un elenco telefonico. È già preistoria!
Individuato il percorso storicoculturale delle immagini del Soffitto dello Steri, e le loro matrici archetipiche, resta tuttavia da spiegarne il perdurare nel tempo, essendo già arcaiche nel Medioevo quale preistoria del presente. Per capire bisogna liberarsi dal pregiudizio che l’immaginario è un insieme di vacanze della ragione; o peggio come dice Brunschvieg [66] un peccato contro lo spirito; oppure secondo Alain dei miti che sarebbero delle «idee allo stato nascente e l’immaginario l’infanzia della coscienza» [67]. Occorre di contro riconoscere la verità di quanto dice Durand:
«En résumé, comme il y a dix ans, l’Imaginaire – c’est-à-dire l’ensemble des images et des relations d’images qui constitue le capital pensé de l’homo sapiens – nous apparaît comme le grand dénominateur fondamental où viennent se ranger toutes les procédures de la pensée humaine» [68].
Il termine immagine ha una dimensione semantica troppo estesa. In riferimento ai dipinti dello Steri intendiamo per immagine
«una rappresentazione mentale di un determinato oggetto che si forma mediante la funzione di opinioni, impressioni, percezioni ed esperienze maturate nel tempo su tale oggetto, È dunque multidimensionale e molteplice e varia da persona a persona. Inoltre proprio in questa rappresentazione mentale ha una natura che è a un tempo individuale. È presente infatti nelle menti di tanti interlocutori singoli di una impresa, ma anche in quella dimensione interindividuale che è la cultura sociale» [69].
Se al termine oggetto sostituiamo quello di persona, le figure che vediamo nel Soffitto dello Steri assumono un preciso significato quale richiamo a valori, a idee di appartenenza collettiva. Funzionano come marchi, come marche, che sono “pura immagine” [70]. La loro forza consiste nel riflettere, e questo ne spiega l’iterazione in ogni tempo, le nostre “fantasie primarie” o meglio la nostra prima percezione della realtà. Appartengono, forse aveva ragione Freud, al «patrimonio filogenico genetico» dell’uomo [71].
Radicalizzando Freud, Jung e Lacan, sostengono che «le fantasie primarie sono un patrimonio filogenetico in cui l’individuo attinge all’esperienza della preistoria» [72]. Questo spiegherebbe il ricorrere dello stesso immaginario nei miti di tutti i popoli. Jung pensa infatti che le “fantasie primarie”, di cui parla Freud, sono degli archetipi universali ed ecco il perché del loro ripetersi [73]. È chiaro tuttavia che non si può trattare della appartenenza allo stesso patrimonio filogenetico, trattandosi di fatti culturali, dunque storici, ma dell’esito dei processi mentali analoghi che fanno sapiens l’uomo [74]. Oppure, diciamolo in maniera più semplice: del manifestarsi, attraverso donne e cavalieri, amore e conflitti, noto e ignoto, della opposizione logica primaria: vita vs morte, essere e non essere.
In ogni caso abbiamo parlato di immagini e le immagini, ha ragione Eliade, sono sempre «apertura verso un mondo trans-storico» [75]. Il fascino di quelle dello Steri consiste proprio nell’infrangere ogni barriera spaziale e temporale, iscrivendole nel presente della nostra memoria.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
[*] Per ricordare la figura di Antonino Buttitta a sette anni dalla sua scomparsa si pubblica un testo poco noto e in una versione parzialmente diversa da quella edita nell’opera collettanea: La dimensione antropologica: i “cavallier, l’arme, gli onori”, in Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo, a cura di Antonietta Iolanda Lima, 2 voll., 2015, Plumelia edizioni, Palermo: 135-144.
Note
[1] J.J. Norwich, I normanni nel Sud 1016-1130, Mursia, Milano 1971: 292.
[2] D. Campisi, M.C. Di Natale, Caccamo. Il Castello le Arti i Riti, Associazione Turistica ProLoco, Caccamo 2010.
[3] Adelphi, Milano 2001.
[4] Ivi: 104.
[5] Ivi: 105-107.
[6] Ivi, 89.
[7] Ibidem
[8] F. Benozzo, La tradizione smarrita. Le origini non scritte delle letterature romanze, Viella, Roma 2007.
[9] A. Buttitta, Morfologia e ideologia nelle storie dei cantastorie siciliani, in Semiotica e antropologia, Sellerio, Palermo 1979: 134 ss.
[10] H. Tuzet, Viaggiatori stranieri in Sicilia nel XVIII secolo, Sellerio, Palermo 2 ed. 1995: 230.
[11] Ivi: 231.
[12] Ivi: 231-232.
[13] Ivi: 232, n. 42.
[14] I. Berlin, cit.: 44-45.
[15] Tuzet, cit.: 233.
[16] Il Soffitto della Sala Magna allo Steri di Palermo, S.F. Flaccovio, Palermo 1975: 9. Cfr. G Di Marzo, Delle belle arti in Sicilia, Palermo 1899:78-84.
[17] Storia dei Musulmani in Sicilia, I, Paris, 1854, II 1872, 2 ed. (C.A. Nallino) Catania 1933-39.
[18] E. Gabrici – E. Levi, Lo Steri di Palermo e le sue pitture, Accademia di Scienze Lettere e Arti, suppl. Palermo 1932.
[19] Ivi, cap. X.
[20] Ivi: 151.
[21] S. Bottari, Lo Steri di Palermo, in Archivio Storico Siciliano, n. s. LIII, 1933, 321-25; Lo Steri e le sue pitture, in I miti della critica figurativa, Messina-Firenze 1936; La cultura figurativa in Sicilia, Messina-Firenze 1954, 26-27; L’arte in Sicilia, Messina-Firenze 1962: 36.
[22] Il carretto siciliano, Milano 1923.
[23] V. Lanza, Saggi sui soffitti siciliani dal sec. XII al XVII, in Atti dell’Accademia di Scienze, lettere ed Arti di Palermo, 1941, serie IV, vol. I, parte II: 178-224.
[24] Introduzione a La istoria di Eneas vulgarizzata per Angilu di Capua, Palermo 1956: XIV.
[25] Caratteri, momenti e motivi delle pitture del carro siciliano, Annali del Museo Pitré, V-VII: 1954-56.
[26] Flaccovio, Palermo 1961: 19-20, 156, 278, n. 377.
[27] G. Cocchiara, Popolare in Enciclopedia universale dell’arte, Venezia-Roma 1963, vol. X, ed.: 801.
[28] U. Monneret de Villard, Le pitture musulmane al soffitto della Cappella Palatina in Palermo, Roma 1950. Aa.Vv., L’arte siculo-normanna. La cultura islamica nella Sicilia medievale, Electa, Milano 2004: 129-132.
[29] H. Bresc, Livre et société en Sicile 1299-1499, Palermo 1971; F. Bruni, Introduzione al Libru di li vitii et di li virtuti, Palermo 1973.
[30] Bologna, cit.: 56.
[31] Bologna, cit.: 40.
[32] Ivi: 71.
[33] Gabrici, cit,: 59.
[34] Bologna, cit.: 95.
[35] Ivi: 71.
[36] Ivi: 72.
[37] U. Rizzitano, La conquista musulmana, in Storia della Sicilia, Editalia Domenico Sanfilippo Editore, 2 ed., Roma 1998, vol. III: 88.
[38] Cfr. A. Cilento, Bisanzio in Sicilia e nel Sud dell’Italia, Magnus, Luglio 2006: 29, passim; F. Burgarella, L’italia bizantina dall’esarcato di Ravenna al tema di Sicilia, Einaudi, Torino 1988; V. Von Falkenhausen, Aspetti storico economici dell’età di Roberto il Guiscardo, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo, Prime Giornate normanno-sveve (Bari 1973), Roma 1975: 115-134; V. Von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, La Terza, Bari 1978.
[39] Rizzitano, cit.: 87.
[40] Cilento, cit. 178. Cfr. V. Pace, La pittura, in I Normanni popolo d’Europa, (M. D’Onofrio cura), Marsilio, Venezia 1994: 250 ss. F. Aceto, Verso la cultura artistica federiciana, Ivi: 331 ss.
[41] R. Santoro, Bizantini a Palermo, “C’era una volta”, Palermo 1998: 50-51.
[42] Cilento, cit., 177.
[43] Santoro, cit.: 38.
[44] Ivi: 39.
[45] U. Mirabelli, Nella luce di Palermo, Sellerio, Palermo 1982: 29.
[46] Bologna, cit. 131.
[47] Bologna, cit.: 83-84.
[48] I. Giubair, Viaggio in Sicilia, in Delle cose di Sicilia, Sellerio, Palermo 1996, I: 102.
[49] Cfr. A. Buttitta, Cultura figurativa e popolare in Sicilia, cit.
[50] C. Leonardi, L’eredità medievale, in Storia della letteratura italiana, Il Sole 24 ore, Milano 1995: 118.
[51] Ivi: 121.
[52] Ibidem.
[53] M.L. Meneghetti, La nascita della letteratura romanza, in Storia, cit.: 223.
[54] G. Folena, Cultura e poesia dei Siciliani, in La letteratura italiana, Corriere della Sera, RCS Quotidiani, Milano 2005, I: 69.
[55] Ivi: 93-94.
[56] H. Bresc, cit.
[57] in Prospettiva. Rivista di storia dell’arte antica e moderna, Lugano 1986, n. 46: 13-21.
[58] Ivi: 16.
[59] Ivi: 17.
[60] Ivi: 71.
[61] Ivi: 19. Cfr. A. Daneu Lattanzi, Lineamenti di storia della miniatura in Sicilia, Olschki, Firenze 1966: 80.
[62] Cit., n. 22.
[63] Ivi: 20.
[64] M. Meslin, Il meraviglioso. Mostri e simboli dell’immaginario occidentale, Mursia, Milano 1988: 99.
[65] fig. 28 di Bologna, cit.
[66] L. Brunschvieg, Héritage de mots, héritage d’idées, P.U.F., Paris 1945: 98.
[67] E.C. Alain, Préliminaires à la mythologie, Hartman, Paris 1943: 89-90.
[68] G. Durand, Les structurs antropologiques de l’imaginaire, Bordas, Paris 1969, 8° ed: 11.
[69] V. Codeluppi, Immagine e immaginario delle merci e delle marche, in F. Carmagnola, V. Matera (cura), Genealogia dell’immaginario, UTET, Novara 2008: 267.
[70] Ivi: 270.
[71] M. Senoldi, Slavoj Žižek e l’immaginario, in Ivi: 208-209.
[72] Ivi: 209.
[73] Cfr. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere scelte, Bollati-Boringhieri, Torino 1999, I: 922; C.G. Jung, Sulla psicologia dell’inconscio, Astrolabio, Roma 1947.
[74] Cfr. C. Castilla Del Pino, Sujeto y mito: función ortopédica, in Mitos, Litocian, Zaragoza 1998, I: 21 ss.
[75] M. Eliade, Immagini e simboli, TEA, Milano 1993: 154.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
_____________________________________________________________
Antonino Buttitta (1933-2017), docente dell’Università di Palermo, dove ha insegnato Antropologia culturale e Semiotica. È stato preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1979 al 1992. Ha fondato e diretto numerose riviste, tra le quali: Uomo&Cultura, Nuove Effemeridi, Archivio Antropologico Mediterraneo. Tra le sue opere si segnalano: Cultura figurativa popolare in Sicilia (1961); Ideologia e folklore (1971); La pittura su vetro in Sicilia (1972); Pasqua in Sicilia (1978); Semiotica e antropologia (1979); Il Natale. Arte e tradizioni in Sicilia (1985); Percorsi simbolici (1989); L’effimero sfavillìo. Itinerari antropologici (1995); Dei segni e dei miti. Un’introduzione all’antropologia simbolica (1996); Il mosaico delle feste (2003); Orizzonti della memoria. Conversazioni con Antonino Cusumano (2015); Mito, fiaba, rito (2016). Postumi sono stati pubblicati: Antropologia e letteratura (2018), scritto con Emanuele Buttitta e Vincere il drago (2002).
______________________________________________________________