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Le due crisi demografiche della Sardegna

Stato di malessere demografico (spopolamento) dei Comuni della Sardegna al 2011. Fonte: CRP, Comuni in estinzione…, cit.

Stato di spopolamento dei Comuni della Sardegna al 2011. Fonte: CRP, Comuni in estinzione…, cit.

di Gianfranco Bottazzi [*] 

Il calo della natalità 

Nell’evoluzione storica di lungo periodo della Sardegna, la demografia appare come un fattore rilevante, tanto da rappresentarne un condizionamento. In passato, la scarsità e la densità della popolazione, nonché le modalità dell’insediamento, hanno rappresentato uno dei vincoli che, assieme alle modalità di insediamento (accentramento e addensamento nelle zone interne), hanno fatto sì che la regione «sia vissuta per così dire ai margini delle vicende italiane ed europee», come scriveva nel 1960 la SVIMEZ in uno studio dedicato alla Sardegna [1]. Anche all’inizio del terzo millennio l’Isola si ritrova a fare i conti con fattori demografici che rappresentano comunque un elemento centrale per le sue prospettive di crescita e di coesione sociale.

Qualche cenno di richiamo. Dalla metà dell’Ottocento, la popolazione sarda cresce costantemente, come risultato di un saldo naturale costantemente positivo, senza quei bruschi crolli che in passato avevano fatto seguito a eventi catastrofici come epidemie e carestie. Da 600 mila abitanti circa nel 1861 si è passati a 1 milione 200 mila nel 1951, a 1 milione 600mila circa del 2020. La Sardegna è cresciuta più dell’Italia nel suo complesso, più del Mezzogiorno e un po’ meno del Centro-Nord.

Se osserviamo le serie storiche lunghe, generalmente abbastanza affidabili per i fenomeni demografici, la crescita della popolazione non è stata frenata da fenomeni migratori in uscita di consistenza particolarmente rilevante. Contrariamente all’immaginario collettivo sardo, «la Sardegna è tra le regioni meridionali quella di minore emigrazione sia verso l’estero che verso altre regioni italiane» [2]. Fino agli anni Venti del Novecento in Sardegna ci si muoveva pochissimo, pochissime erano le nuove iscrizioni anagrafiche e pochissime le cancellazioni.

Dagli anni Venti del Novecento, si può dire che la Sardegna si apre al mondo. È probabilmente l’attività mineraria, la nascita di Carbonia e le bonifiche agricole ad attirare immigrati – ché di questo si tratta – in contemporanea ai primi flussi di emigrazione dei Sardi. Il periodo nel quale l’emigrazione sarda diventa rilevante è quello che va dalla metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, nel quale si registra un saldo negativo di circa 140 mila persone, pari a circa il 9 per cento della popolazione media del periodo. Le destinazioni dell’emigrazione sarda di questi anni sono soprattutto alcuni Paesi europei (Belgio, Germania e Svizzera soprattutto) e altre regioni italiane, nel Nord-Ovest industriale, in Toscana (l’emigrazione pastorale) e la zona di Roma. Nei primi anni Settanta si è registrato un massiccio rientro di emigrati sardi, che in molti casi hanno dinamizzato il tessuto economico con nuove competenze professionali e alimentato una diffusa piccola imprenditorialità.

Dagli anni Cinquanta, per un quarantennio, la Sardegna è stata una delle regioni italiane a maggiore crescita demografica, molto più del Mezzogiorno, e l’emorragia migratoria, pur importante, non ha limitato in maniera significativa la crescita della popolazione. Dai primi anni Settanta ad oggi, il saldo migratorio è sostanzialmente nullo, ossia le uscite pareggiano le entrate: assistiamo ad un apparente paradosso: se ancora vi sono Sardi che si spostano alla ricerca di condizioni di vita e di lavoro migliori si registra tuttavia un flusso costante (ma in diminuzione negli ultimi anni) di immigrati extra-comunitari. Da notare, a questo proposito che le notizie di stampa che, facendo leva sull’immaginario cui abbiamo più sopra alluso, rilanciano una presunta ripresa della emigrazione sarda, sono destituite di fondamento. Il fenomeno certamente esiste (e va indagato e compreso), ma il confronto con altre realtà regionali mostra che, negli ultimi dieci anni, il saldo migratorio della Sardegna, pur negativo in media, è un ottavo di quello medio del Mezzogiorno. Anche le statistiche dell’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), confermano valori che, per la Sardegna, sono molto più bassi di quelli di altre regioni, e non soltanto di quelle meridionali, se è vero che la percentuale di Sardi iscritti all’AIRE in rapporto alla popolazione dell’Isola è minore di quella analoga del Piemonte, della Liguria, delle Marche, del Friuli e del Trentino. In sostanza, non è l’emigrazione che può spiegare il declino rapido della popolazione.  

L’evoluzione demografica che ha caratterizzato la Sardegna è quello tipico di tutte le società che hanno sperimentato quel processo di profonda trasformazione delle strutture sociali ed economiche che va comunemente sotto il nome di “modernizzazione”, che riguarda non solo il lavoro, l’economia, il reddito, ma anche comportamenti ed aspettative, stili di vita, condizione e collocazione della donna, famiglia, eccetera.

Il calo della natalità è il portato di questi cambiamenti strutturali e succede, in una scansione temporale, a una precedente, rapida diminuzione della mortalità. Questa, in seguito, riprende leggermente a crescere in conseguenza dell’invecchiamento progressivo di una popolazione che vive mediamente molto più a lungo. Ma anche la natalità riprende moderatamente a salire. Negli anni Novanta, uno sguardo superficiale sembrava indicare che la Sardegna avesse raggiunto il punto di equilibrio di una popolazione che si stabilizza, non cresce più, il numero dei nati pareggiando più o meno i decessi. Fin qui, quindi, le dinamiche della Sardegna sono del tutto simili a quelle che hanno operato altrove. Quello però che appare meno normale è che, a partire dai primi anni Duemila, si palesa chiaramente una vera e propria crisi demografica, non vi è nessuna stabilizzazione della componente natalità, anzi si assiste a un vero e proprio crollo della fecondità. Detto altrimenti, nascono sempre meno bambini e la decrescente natalità si accompagna ad una mortalità in crescita seppur leggera. Il risultato è un calo della popolazione e un suo veloce invecchiamento, mentre l’arrivo di immigrati compensa solo in parte lo squilibrio del saldo naturale nati-morti. 

il-calo-demografico-in-sardegnaL’inverno demografico non è un problema solo sardo, è anche un problema rilevante per l’Europa e per l’Italia. Negli ultimi decenni, abbiamo assistito ovunque in Europa a un brusco calo dei tassi di fecondità, con conseguente calo della natalità e diminuzione della popolazione, diminuzione peraltro parzialmente compensata da una immigrazione importante quantitativamente [3]. Se consideriamo che il tasso di fecondità necessario per riprodurre una popolazione è uguale a 2,1 (ossia poco più di 2 figli per ogni donna in età feconda), nessun Paese in Europa raggiunge quel valore. Paesi che attuano da anni politiche sociali generose a sostegno della natalità (come Francia, Irlanda, Regno Unito e Svezia) raggiungono valori attorno a 1,8-1,9, l’Italia si ferma a 1,2, la Sardegna a 0,90. Nell’Isola gli immigrati rappresentano nel 2019 poco più del 3 per cento, una percentuale molto più bassa di quella di altre regioni italiane ed europee. Per qualche anno, il flusso migratorio ha compensato il saldo naturale negativo. Negli ultimi anni, tuttavia, anche per un rallentamento negli arrivi, il risultato netto è stato una diminuzione del numero di abitanti [4]. 

I numeri sono impietosi. La Sardegna ha il tasso di fecondità più basso d’Europa, e tra i più bassi al mondo. Non è necessario insistere sugli effetti devastanti, a breve e soprattutto a lungo termine, di una crisi demografica che, una volta innestata, rischia di autoalimentarsi e perpetuarsi nel tempo. Secondo le previsioni della popolazione messe a punto dall’Istat [5], da qui a trent’anni, nel 2050, la Sardegna perderebbe più di 250 mila abitanti, più della popolazione di Cagliari e Sassari assieme, pari a circa il 16 per cento della popolazione attuale. Probabilmente, in ragione di un previsto minore apporto migratorio, la Sardegna avrebbe un quadro più negativo sia dell’Italia nel suo complesso che del Mezzogiorno. Di conseguenza, l’invecchiamento della popolazione risulterà ancora più marcato di quello dell’Italia e del Mezzogiorno: nel 2050, oltre il 40 per cento della popolazione sarda avrà più di 65 anni. Ci saranno inoltre 41 mila ragazzi in età della scuola dell’obbligo in meno; come dire circa 2700 classi scolastiche in meno.

Come osservano i demografi [6], dobbiamo preoccuparci della crisi demografica non solo e non tanto per la quantità della popolazione, ma piuttosto per lo squilibrio che il brusco calo della natalità determina nel rapporto tra le classi di età. Antonio Golini [7], parla di «una sorta di legge dell’invecchiamento», secondo la quale se un Paese (o una regione) arriva ad avere una quota di ultrasessantenni superiore al 30 per cento è ad un punto di «non ritorno demografico», a meno che non ricorra massicciamente all’immigrazione. Che, evidentemente, forse risolve il problema di qualche indicatore, ma ne apre più di uno per quanto riguarda la tenuta del tessuto sociale. La crisi demografica non è dunque soltanto un problema di calo della popolazione, ma piuttosto una questione di «degiovanimento», i cui effetti negativi si faranno sentire anche se, per qualche intervento miracoloso, recuperassimo rapidamente livelli di fecondità più adeguati. E la situazione sarà ancora più pesante se, invece, la bassa natalità continuerà nei prossimi anni, come è fin troppo facile prevedere.

Poiché invecchiamento e degiovanimento non sono più una prospettiva futura ma una realtà attuale, e poiché hanno effetti rilevanti e certi sull’economia, sui servizi sanitari, sul sistema pensionistico, sui conti pubblici, eccetera, bisognerà pensare per tempo ai rimedi, alle azioni da compiere, alle misure da prendere. Sembra però che l’opinione pubblica, forse perché risente ancora dei discorsi malthusiani dei decenni passati, quando era l’eccesso di popolazione a creare allarme, si limiti allo sgomento, quando non all’indifferenza. Stupisce ancor di più che la politica sia, per usare un eufemismo, scarsamente consapevole della rilevanza della crisi demografica, se è vero che, ad esempio nell’ultima campagna elettorale per i vertici regionali, nessuna forza politica ha posto la crisi demografica al centro delle emergenze regionali. Si continua così a oscillare tra incredulità frastornata e paralizzante rassegnazione.  

ca3f5d3f7866d8d26c92a025b7722650Una regione popolata «a ciambella». Lo spopolamento delle zone interne 

A fianco della generale crisi demografica, la Sardegna soffre anche per un pesante squilibrio nella distribuzione interna della propria popolazione. Già dagli anni Sessanta del Novecento era emersa all’evidenza la questione delle «zone interne», quelle che maggiormente incarnavano la dominante tradizione agro-pastorale del territorio sardo. Che però era fatta anche di attività artigianali e proto-industriali. La lettura dominante in quegli anni era quella della ineluttabilità della «modernizzazione». Si dava dunque per scontato che fosse inevitabile, addirittura necessario, un ridimensionamento del settore agricolo, un movimento verso le zone urbane in via di industrializzazione e verso le coste in via di «turistizzazione». Ed è così che si è avviato un processo di svuotamento dell’interno, inizialmente caratterizzato dall’emigrazione (verso l’esterno della Sardegna o verso le zone urbane soprattutto costiere) e, successivamente, alimentato dal circolo vizioso dalla riduzione della natalità e dall’invecchiamento della popolazione.

Già negli anni Novanta, si percepiva chiaramente che il processo rischiava di andare fuori controllo e trasformarsi in vera e propria desertificazione demografica.  In quegli anni Bachisio Porru (allora sindaco di Olzai) e Paolo Pisu (allora sindaco di Laconi) furono gli animatori di una «Consulta dei piccoli Comuni», che animò dibattiti e convegni affollati sul rischio della vera e propria «sparizione» dei Comuni più piccoli e marginali. C’era insomma la consapevolezza della gravità sociale ed economica del fenomeno. La stessa Regione ha attivato processi di analisi del fenomeno, ma – certamente anche per la complessità dello stesso – non ci sono stati, a tutt’oggi, interventi sistematici.

Nell’arco di un cinquantennio, una tendenza millenaria nelle modalità di insediamento della popolazione sarda si è completamente rovesciata, quella che vedeva la prevalente concentrazione della popolazione nelle zone interne montane e collinari, più sicure rispetto alla malaria endemica che mieteva vittime nelle pianure costiere, spesso paludose, e più protette rispetto alle invasioni «dal mare». Dal secondo dopo-guerra, sono le pianure costiere – dopo l’eradicazione della malaria e lo sviluppo del turismo balneare – ad attrarre la popolazione, con un effetto appunto «ciambella»: il centro si svuota e si popolano intensivamente le coste.  

8Secondo alcune documentate ricerche [8], i centri abitati che si qualificavano per una condizione di salute demografica grave o gravissima erano quasi la metà dei 377 comuni sardi, per il 38 per cento della superficie regionale. Se vi aggiungiamo i comuni la cui salute demografica era precaria, raggiungiamo una superficie di circa il 54 per cento. Sono passati pochi anni da queste analisi dettagliate: le tendenze individuate continuano ineluttabili e lo spettro della vera e propria sparizione di molti dei comuni più piccoli è sempre più vicino. 

I comuni che si spopolano, si distribuiscono, quasi senza soluzione di continuità, lungo un’ampia fascia orientata secondo una quasi diagonale in direzione Ovest-Sud, che investe le regioni centrali dell’Isola e giunge fino alle colline della Trexenta, del Flumendosa e Flumineddu. Si tratta di un’area molto vasta che occupa circa un terzo dell’intera superficie dell’Isola e che si caratterizza, se si eccettua la Trexenta, per una economia prevalentemente pastorale, basata sul tradizionale allevamento brado del bestiame ovino, caprino e suino. I comuni che invece si caratterizzavano per uno stato di salute buona o discreta (nel frattempo essi stessi interessati dal calo demografico) si trovano nella parte meridionale dell’Isola, e sono la città metropolitana di Cagliari; quelli localizzati lungo il tracciato della statale Carlo Felice fino a Oristano; infine, le zone a forte vocazione turistica, che partendo da Dorgali interessano tutti i centri costieri del versante nord-occidentale e quelli che si affacciano sulle Bocche di Bonifacio comprendendo verso Sud anche le città di Sassari e di Alghero. Ma ormai anche le città, Cagliari, Sassari-Alghero, Oristano, Nuoro, perdono regolarmente abitanti. Solo Olbia registra un sostanziale equilibrio, che dipende esclusivamente dal fatto che il saldo migratorio compensa un saldo naturale comunque negativo. 

Un problema di non facile soluzione 

Lo spopolamento dell’interno della Sardegna, delle zone collinari e montane non è un fenomeno specifico della regione. Altre aree europee e mondiali hanno conosciuto processi analoghi, a partire dalle zone alpine e appenniniche italiane. Le quali, peraltro, sono spesso state in grado di modernizzare le tradizionali economie agro-pastorali e di rilanciare una valorizzazione turistica che ha se non altro rallentato quello che appariva come un declino demografico inesorabile. Come per altre realtà, lo spopolamento è uno dei frutti avvelenati della modernizzazione fordista: l’agricoltura vi ha una funzione di «esercito industriale di riserva», è la manodopera necessaria allo sviluppo dell’industria e deve essere razionalizzata per produrre sempre più derrate necessarie alle città che si sviluppano. Il modello culturale dominante è quello della città e della sua presente «civiltà» contrapposta alla arretratezza delle campagne, l’individuo «moderno» è quello della città, della libertà dei costumi, dei consumi a portata di mano e della vita frenetica, delle opportunità che offre la città. E questo modello, malgrado tutto, resta quello dominante. Chi si trasferisce in città per gli studi universitari, difficilmente torna indietro, anche perché i lavori più qualificati sono concentrati nei centri urbani maggiori. Ma anche perché, chi parte da Austis, da Bitti o da Armungia lo fa non solo (e forse non tanto) perché non c’è lavoro, perché chiudono le scuole elementari e la farmacia, eccetera, ma per una pulsione di libertà, per sfuggire alla noia, all’immobilità e al controllo sociale occhiuto, per avvicinarsi alle “luci della città” e allo stile di vita, alle opportunità che l’ambiente urbano offre quotidianamente.

10Non vi è dubbio che, per combattere lo spopolamento, per provare almeno a rallentarlo, la dotazione di servizi, dai trasporti alla sanità alla scuola, è certamente un aspetto da considerare attentamente: quando chiude l’ambulatorio medico o il laboratorio di analisi cliniche, quando chiude lo sportello bancario o l’ufficio postale apre a singhiozzo qualche giorno a settimana, quando chiudono le scuole primarie e chi vuole continuare a studiare deve sobbarcarsi un lungo e faticoso pendolarismo verso paesi e città vicine, si pongono le condizioni per le quali chiunque possa cerchi scampo nella fuga, con ciò alimentando senza fine una spirale di ulteriore spopolamento. I servizi, tuttavia, sono una condizione necessaria, ma non sufficiente. Chi resta, o chi resterà, nei paesi dell’interno, avrà bisogno di sentirsi a parte intera «cittadino» e di avere condizioni che lo spingano a restare. Per questo ci vuole una coraggiosa consapevolezza e risorse certamente più importanti di quelle che, in modo peraltro estemporaneo, alcuni comuni (lasciati completamente soli) mettono coraggiosamente a disposizione, come le ormai famose «case a 1 euro». Ci vogliono politiche coraggiose e innovative. Il ripopolamento richiede potenti fattori attrattivi, programmi a medio termine, investimenti. Tali possono essere, residenze per anziani e turisti-pensionati che non siano luoghi di eremitaggio, ma circondati da servizi sanitari, assistenziali, culturali, di trasporto, moderni ed efficienti. O anche insediamento di immigrati anche extra-comunitari, ma mettendo a disposizione accoglienza, case, assistenza, formazione, terreni agricoli da coltivare.

È necessario, in primo luogo, avere la consapevolezza della rilevanza strategica, “regionale”, del degrado delle zone interne. Non solo perché i paesi, le «bidde», contengono un portato storico e identitario assolutamente centrale per la Sardegna, ma perché non è pensabile che più della metà del territorio regionale sia lasciato nell’incuria e condannato, nella migliore delle ipotesi, a dare scarsi o nulli contributi all’economia e all’occupazione regionale e, nella peggiore, a rappresentare un costo, perché un territorio spopolato, con un alto tasso di invecchiamento, rappresenta una spesa assistenziale e sociale inevitabilmente crescente. Infine, e soprattutto, l’abbandono della montagna e della collina aumenta di molto il rischio per gli assetti idro-geologici complessivi delle pianure costiere, già sotto stress per i mutamenti climatici.

Purtroppo, il peso elettorale delle zone interne è in continua diminuzione e questo non facilita né l’attenzione vera, né il reperimento delle risorse necessarie. Risorse che sono necessariamente consistenti. Esiste, a questo proposito, sia un problema di quantità che di qualità. Non si può dire che almeno in termini di intenzioni, non si sia guardato alle zone interne. Ormai da decenni l’enfasi sugli interventi per favorire lo “sviluppo locale” è una costante delle politiche regionali, nazionali, europee. Dai Programmi LEADER finanziati dall’Europa, alla stagione quasi trentennale degli interventi dal basso concentrato su territori intercomunali (dai Patti Territoriali, ai PIA-Piani Integrati d’Area, dai Contratti d’Area agli Accordi di programma, alla più recente SNAI-Strategia Nazionale per le Aree Interne e ai Piani di Sviluppo Rurale), si sono spesi miliardi, con risultati a dir poco scarsi.

Il fatto è che, al di là dei limiti burocratici e gestionali e delle lentezze nell’erogazione dei fondi, lo sviluppo locale come è stato inteso dalle politiche regionali ed europee partiva dal presupposto che la creazione di occasioni di occupazione e di crescita del reddito fosse condizione necessaria e sufficiente per rallentare l’emorragia demografica. In realtà era forse necessaria, ma certamente non sufficiente. Lo spopolamento ha creato situazioni non solo di disagio economico, ma anche e soprattutto di disagio sociale, con effetti sulle istituzioni locali, sul tessuto delle relazioni sociali, sull’intraprendenza e sulla fiducia nel futuro [9]. In un contesto di pessimismo e rassegnazione non è facile reperire le risorse di energia e voglia di fare che è la base per una società dinamica e prospera.

Vi sono ormai numerose esperienze, in Italia e nel mondo, che ci raccontano come l’«innovazione sociale» [10] è una strada interessante per recuperare quelle zone e quelle comunità tagliate fuori dallo sviluppo globalizzato: dalle «cooperative di comunità» alle imprese recuperate, dalle monete complementari alle forme di credito e fondi di investimento locali, eccetera, bisogna tentare tutte le strade per recuperare ciò che soprattutto bisogna ricostruire, la coesione sociale. 

6E se si tratta di un male dell’«anima»? 

Sono ormai anni che, a ogni uscita dei dati annuali dell’Istat che testimoniano del calo impressionante della natalità, si moltiplicano sui mezzi di comunicazione i commenti, alla ricerca delle cause e dei possibili rimedi al declino demografico. La quasi totalità degli interventi, più o meno documentati e approfonditi, dà una lettura in chiave economicista. La mancanza di occupazione o la precarietà della stessa, la difficoltà di trovare alloggi adeguati, l’insicurezza economica, la crisi, l’assenza di misure di sostegno per le famiglie, le debolezze dei servizi per la prima infanzia, e così via, sono i fattori maggiormente evocati. Non c’è dubbio che si tratta di elementi che possono limitare o spostare nel tempo la decisione di avere un figlio. È noto, infatti, che rispetto ad altri Paesi europei spesso citati ad esempio, come la Svezia o la Francia, in Italia e in Sardegna sono particolarmente carenti proprio le infrastrutture di sostegno alla maternità e alla famiglia. Si osservi, tuttavia, che all’interno dell’Italia, la Sardegna si colloca, per la dotazione di asili nido, in una posizione intermedia, comunque più in alto della media italiana. E non possiamo non rilevare che quando, negli anni Cinquanta, la natalità era alta, le condizioni di sicurezza dell’occupazione, della casa e delle prospettive di vita erano molto meno presenti di quanto accade attualmente. D’altra parte, numerose ricerche sollevano più che un dubbio sul fatto che le politiche pubbliche per favorire la natalità producano effetti certi e positivi [11]. In ogni modo, sembrerebbero necessari interventi molto consistenti – evidentemente problematici nei Paesi con un alto debito pubblico – per spostare di pochi decimali il valore del tasso di fecondità. In sostanza, le misure di sostegno alla famiglia sono una condizione necessaria, ma non sufficiente, allo stesso modo del mantenimento dei servizi essenziali per rallentare lo spopolamento delle zone interne. Certo, meglio fare qualcosa, anche con risultati scarsi, piuttosto che niente, ma occorre cercare altrove per capire e cercare di intervenire.

Nella consapevolezza che la spiegazione della denatalità va cercata altrove, non si sfugge peraltro dalla necessità di considerare fattori diversi, tra loro correlati, per capire le cause dell’attuale inverno demografico. È vero che qualche studio pioneristico [12] avanza l’ipotesi che lo sviluppo riproduttivo sia pesantemente messo in pericolo dalle numerose sostanze chimiche che la nostra società industriale e consumista mette in circolo. Ma è più probabile che le ragioni del calo della fecondità vadano piuttosto cercate in una complessa dimensione antropologica, in una «malattia dell’anima» che sta inceppando il meccanismo biologico della riproduzione della specie. Molti studiosi mettono l’accento sulla perdita di importanza del sesso e del desiderio sessuale. La psicologa statunitense Alexandra Solomon, ad esempio, molto popolare e autrice di numerosi libri di successo [13], afferma che se le prospettive per il futuro sono incerte e la competizione aumenta, «il desiderio erotico si rattrappisce e si sviluppa una mentalità antiromantica, individualista, in cui la sessualità recede in secondo piano». In Italia, Mauro Magatti [14], sociologo, scrive: «i ragazzi crescono in un ambiente fortemente competitivo e performante, in cui bisogna essere all’altezza non solo sul lavoro, ma nella vita, nell’aspetto fisico, nelle relazioni e perfino nel sesso». Ciò genera ansia e senso di inadeguatezza che porta a chiudersi in sé stessi. 

11Bisogna fare qualche ragionamento a partire dal periodo davvero straordinario che ha fatto seguito alla fine della Seconda Guerra mondiale, periodo caratterizzato da un aumento rapido e senza precedenti delle libertà individuali (intesi come spazi lasciati – di diritto – alle aspirazioni, volontà, decisioni della singola persona). Sia il benessere materiale e gli accresciuti consumi che i progressi tumultuosi della tecnologia hanno rappresentato il presupposto di questo cambiamento. Che si inserisce nel solco del costante rafforzarsi dell’individualismo tipico della modernità. Pensiamo qui, per limitarci alla sfera riproduttiva, al divorzio, all’aborto, all’evoluzione dei metodi anticoncezionali, agli straordinari avanzamenti delle tecniche di procreazione assistita, alla «liberazione» della donna – per quanto ancora incompleta – mutamenti che hanno cambiato tempi e orizzonti della vita individuale di miliardi di persone.

Nel caso della fecondità si fa sentire soprattutto la crisi della istituzione famiglia: in un riferimento proprio alla Sardegna, Roberto Volpi sul Corriere della Sera [15] osserva che questa istituzione sociale, «un volta perno della natalità», è quella che ha subìto i più violenti contraccolpi di una nuova sensibilità e una nuova morale in fatto di genere, sesso, diritti. «L’illusione è stata quella di credere che il discredito che si abbatteva sulla famiglia centrata sulla coppia eterosessuale … avrebbe risparmiato i figli. Non è stato affatto così». La Sardegna è la regione d’Italia con il più basso tasso di nuzialità, quella in cui le spose hanno l’età media al matrimonio più alta e quella in cui le dimensioni delle famiglie sono le più striminzite, 2,5 componenti in media. E le previsioni a vent’anni danno un’ampiezza media delle famiglie di 1,94 unità, contro il 2,08 a livello nazionale. 

Difficile dare una cornice unitaria alla miriade di segni di malessere che appaiono nelle società contemporanee. Ma possiamo osservare che lo spazio dei diritti individuali, si collega a una più generale tensione verso la «realizzazione» individuale. Per quanto questa rimandi all’idea, così tipica della civiltà occidentale, del diritto di ogni essere umano a perseguire la propria felicità in questa vita terrena, in epoca neoliberista essa si misura in termini quasi esclusivamente materiali, di consumo. E, per la stragrande maggioranza delle persone, è soltanto una fonte di frustrazione, perché solo in pochi hanno gli strumenti per competere adeguatamente. Da una parte, l’avanzamento senza limiti dei «diritti» dei quali ciascuno sarebbe naturalmente titolare trova un limite nella società, la cui stessa esistenza presuppone un temperamento delle libertà individuali con il «dovere» di rispettare gli spazi di libertà degli altri. D’altra parte, è sempre più diffusa la consapevolezza che l’onnipotenza dell’uomo, della sua scienza e della sua tecnica, è «impotente» di fronte ai guasti che la stessa ha prodotto, dall’emergenza ambientale – somma di ferite più generali inferte alla natura – al (ri)scoprire tutta la vulnerabilità umana – come il Covid ci ha drammaticamente insegnato.

Si combinano così le paure per i rischi, veri o presunti non fa differenza, e un ripiegamento egoistico insofferente a ogni limitazione, ad ogni responsabilità, fosse anche solo un obbligo morale, ad ogni impegno a medio-lungo termine. Non credo si tratti di un processo concluso, generale e definitivo, se mai lo sarà. Ma nel mondo opulento e sazio, le persone sono impaurite e frustrate, con la solitudine dell’egoismo, senza fratelli e sorelle, senza cugini e zii [16]. Soffrono di un malessere che sfocia facilmente in depressione, di una malattia «dell’anima» che è la vera responsabile del crollo della natalità. In questo, la Sardegna non è diversa da altre realtà, italiane o europee. È parte dell’Europa e dell’Occidente. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
[*] Lo scritto riprende con qualche modifica, senza tabelle e grafici, il cap. 6 (La crisi demografica e lo spopolamento della Sardegna), del libro E l’Isola va. La Sardegna nella seconda modernizzazione, Il Maestrale, Nuoro 2022. 
Note
[1] Svimez, Aspetti sociali e culturali dello sviluppo economico della Sardegna, Giuffré Editore, Roma 1960. Si veda anche Paola M. Arcari, nel cap. I (“Fattori demografici e storici della struttura demografica ed economica sarda”), degli Atti della commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Disoccupazione, Vol. 3, Tomo 4, Roma 1953.
[2] Cfr. Svimez, cit., che prosegue: «Questa circostanza ha avuto non poca importanza nel determinare la condizione di insularità culturale della Sardegna».
[3] Si prevede che, nei prossimi 30 anni, l’Europa perda circa 10 milioni di abitanti e questo nonostante un saldo migratorio netto positivo di 40 milioni di immigrati.
[4] Gli «stranieri» residenti in Sardegna sono poco più di 50 mila, di circa 150 nazionalità diverse. Di questi, gli immigrati veri e propri sono verosimilmente circa l’80 per cento, e comprendono anche cittadini comunitari, come ad esempio i rumeni. Le comunità più presenti sono quella, appunto, rumena (25 per cento), senegalese (9 per cento), marocchina (8 per cento), cinese (6 per cento), ucraina (5 per cento) e filippina (4 per cento). Oltre la metà degli immigrati sono donne. Per alcune nazionalità la quota femminile è assolutamente prevalente (Ucraina, Polonia, Bielorussia ed altri Paesi dell’Est europeo) in ragione della occupazione svolta da queste immigrate, ossia la cura della persona o della casa. Gli immigrati sono concentrati, come prevedibile, nelle aree urbane, ma sono anche sparsi sul territorio fino ai più piccoli comuni. Sia pure con piccoli numeri, si può dire che ognuno dei 377 comuni della Sardegna ha i suoi (o le sue) immigrati/e. 
[5] Le previsioni della popolazione, in ragione della notevole «inerzia» dei fenomeni demografici (ossia del fatto che il mutamento è sempre abbastanza lento), sono, nelle scienze sociali, l’esercizio previsivo che ha maggiori probabilità di essere esatto. Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che si tratta comunque di previsioni, basate sull’ipotesi che le tendenze in corso nel momento dal quale si fanno partire le previsioni stesse proseguiranno nel tempo e quindi tanto meno certe quanto più ci si allontana dal tempo di inizio. Il dato che riportiamo è lo scenario «mediano» tra le previsioni di minima e quelle di massima.
[6] Vedi i vari interventi di Alessandro Rosina, tra i quali segnalo L’Italia che non cresce, Laterza, Roma-Bari 2013, e Il futuro non invecchia, Vita e Pensiero, Milano 2018. Vedi inoltre: Antonio Golini, Italiani poca gente. Il paese al tempo del malessere demografico, Luiss, Roma 2019.
[7] Antonio Golini, Italiani…, cit.
[8] Una prima ricerca è del 2006 (CRP, Dinamiche e tendenze dello spopolamento in Sardegna), seguita da un aggiornamento nel 2013 (CRP, Comuni in estinzione. Gli scenari dello spopolamento in Sardegna). Sulla metodologia, in particolare, si veda Gianfranco Bottazzi e Giuseppe Puggioni, «Lo spopolamento in Sardegna come tendenza di lungo periodo», in: Marco Breschi (a cura di), Dinamiche demografiche in Sardegna tra passato e futuro, FORUM, Udine 2012. 
[9] Si veda G. Bottazzi, «Variabili demografiche e sviluppo locale. Considerazioni sullo spopolamento in Sardegna.», in Benedetto Meloni (a cura di), Aree interne e progetti d’area, Rosenberg & Sellier, Torino 2013.
[10] Vedi il bel libro di Filippo Barbera e Tania Parisi, Innovatori sociali. La sindrome di Prometeo nell’Italia che cambia, Il Mulino, Bologna 2019.
[11] Si veda Edoardo Frattola (a cura di), Come arginare il crollo demografico: l’efficacia dei sostegni alle famiglie, Osservatorio CPI, Università Cattolica di Milano, febbraio 2019. Ricca la bibliografia.
[12] Vedi Shanna H. Swan e Stakey Colino, Count Down. How Our Modern World is Threatening Sperm Counts, Altering Male and Female Reproductive Development and Imperiling the Future of the Human Race, Simon & Schuster, New York 2021. In particolare, sarebbero sostanze nocive come gli ftalati o il bisfenolo – usati entrambi per ammorbidire la plastica – che interferiscono con la produzione di testosterone, passando dal prodotto al cibo e all’acqua e, di conseguenza, al circolo sanguigno della madre e del feto.
[13] Cfr. Alexandra Solomon, Love Every Day, Pesì Publishing, NY 2023.
[14] Cfr. Mauro Magatti, “La sindrome del «ritiro» che dilaga tra i ragazzi”, Corriere della Sera, 21 dicembre 2021.
[15] Cfr. Roberto Volpi, “Vuoto Sardegna. L’isola senza figli”, Corriere della Sera, La lettura, 17 novembre 2024.
[16] L’economista Noreena Hertz (The Lonely Century. Coming Together in a World that’s Pulling Apart, Sceptre, London 2020) racconta, con sconcerto, come nelle città degli Stati Uniti, vi sono ormai persone che vengono ingaggiate e pagate per “interpretare” il ruolo di nonni, zii, cugini, parenti vari, in feste familiari nelle quali queste figure sono completamente scomparse.

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Gianfranco Bottazzi, ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Cagliari, ha svolto attività di ricerca in Italia e all’estero. A Cagliari è stato Preside della Facoltà di Scienze politiche per dieci anni e poi Direttore del Dipartimento di Scienze sociali e delle Istituzioni. Nel quadro di un interesse centrato sulle tematiche dello sviluppo e del sottosviluppo, ha svolto esperienze di ricerca in Angola e altri Paesi africani; è stato consulente della Commissione Europea, professore invitato presso l’Università di Grenoble e la Chuo University di Tokyo. È stato Presidente (2008- 2012) della SFIRS, la Società Finanziaria della Regione Sardegna. È stato infine coordinatore scientifico della Sezione Economia, Lavoro e Organizzazione dell’Associazione Italiana di Sociologia. Tra le sue pubblicazioni, La dimensione locale (1992); Eppur si muove! Saggio sulle peculiarità del processo di modernizzazione in Sardegna (1999); E l’isola va. La Sardegna nella seconda modernizzazione (2022).

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