di Antonio Pane
Nato a Legnano, ma residente da molti anni a Pavia (dove ha compiuto gli studi universitari), Dario Bertini conta al suo attivo cinque raccolte di versi: Distilleria di contrabbando (Cardano, 2009); Frequenze clandestine (Sigismundus Editrice, 2012); Prove di nuoto nella birra scura (Edizioni del Foglio Clandestino, 2015); Il caffè della sala infermieri (in XV Quaderno di poesia italiana contemporanea, Marcos y Marcos, 2020); Il fiato mentolato delle farmaciste (Bohumil Edizioni, 2023) [1]. In una mail del 24 settembre 2023, che accompagna il premuroso invio (in PDF) dell’introvabile Frequenze clandestine, l’autore mi scrive di volerlo considerare «il punto di partenza della mia produzione poetica», escludendo dunque dal proprio ‘canone’ il titolo che lo precede, che pure è sempre menzionato nelle notizie bio-bibliografiche diffuse nei suoi libri successivi e che, come vedremo, gli ha dato una prima notorietà. Un interdetto, dunque, discutibile, che ho buoni motivi per trasgredire, e che mi induce anzi a ricordare, per completezza di informazione e senza metterli al rischio della lettura, i davvero primaverili Immersioni (2004) e Il rifugio dei sospiri (2006), elencati (dopo il perplesso «Dario Bertini, in prestito alla vita dal 1988», a riprova di un’«intensa attività poetica» premiata anche da allori fra cui spicca il «Giovanni da Legnano» conseguito nel 2001) nella quarta di copertina di Distilleria di contrabbando (che leggo nel PDF di un esemplare, con dedica dell’autore «Al Prof. Alberto Bertoni», posseduto dal Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna) [2].
Distilleria di contrabbando (un marchio registrato da Mario Venditti, per un suo libello di massime amorose, apparso a Napoli, da Morano, nel 1927) è una compagine per molti versi acerba [3]. Confortata da una prefazione del compianto Claudio Lolli (Le parole e il corpo nell’ora di nessuno) – che ne individua con delicatezza, e non senza affettuosa complicità, i nodi cruciali (le coppie luce/ombra, giorno/notte, suono/silenzio [4] e la «zona neutra», il «tempo di nessuno» che ne è profilato), vedendovi il dissidio fra «la tendenza ad “angelicare” il mondo» e «l’intensità impossibile del sentire», e collocando così l’autore nel «punto biforcuto della immensa ipsilon della sua vita» –, l’operina presenta infatti materiali eterogenei, suddivisi nei 23 componimenti di Promesse sottovoce e nei 17 della parte eponima. Ai molteplici riverberi, per dirla con Fabrizio De André, dell’«amore perduto» (se non dell’«amor de lonh» alla Jaufré Rudel) si uniscono, nella prima sezione, il sommesso epicedio consacrato a Giorgio Rota, poeta e amico e la prosa poetica che la conclude (La mano, fermata sulla nota gozzaniana del «Di tutte le carezze che ho pensato, la più vera è senza dubbio quella che mai riceverò»), mentre nella seconda si radunano frammenti spesso aggruppati in serie (accade in Oltre la catabasi, Altra casa, Viaggiatore in fuga, Pegni d’amore, Il lavandino in fiore, Lampi d’insonnia, Di un passo avanti): un coacervo che tradisce insieme la non negoziabile vocazione e la sudata questua dei temi e delle parole per darvi corso.
Fra effusioni un po’ ‘fuori controllo’ e cadute in un ‘poetichese’ spesso appoggiato su classici endecasillabi – quello che inficia, per fare qualche esempio, la chiusa della poesia incipitaria («Se sei lontana io gravito | nell’ombra di una notte senza luna; | ma quando parli, sottovoce, | la mia poesia ti brilla sulle labbra: | ed io vengo alla luce come cento farfalle || si librano nel sole»), o versi come «la luce è un dono mistico del sole» (La vita dello scriba), «un’altra luce di docile dolcezza» (incontro) –, si lasciano intravedere pagliuzze dorate, indizi incoraggianti. Penso all’efficacia aforistica di Anche oggi («Ti aspetterò. | Come ogni giorno si aspetta il caffè. | In un bar chiuso per ferie»), alle felici sortite metaletterarie di «il libro, che tu leggi | non è un libro» («la casa è vuota – vuota | la speranza – come immobile || ed io non sono in grado | di colmare questo inciso»), La vita dello scriba («la vita dello scriba si misura ad ogni verso | scritto, ad ogni accento inciso al proprio | cielo. Un foglio bianco»), ma sottovoce, e piano («non c’è | più sintassi nei tuoi sogni di porte | spalancate, finestre, corridoi, mai | spazi aperti, niente cielo»), Pegni d’amore («a piedi nudi, per un istante | o un’ora, ancora analfabeta | nel sorriso»), Il lavandino in fiore («forse la vita ci è divenuta pagina, | cancellatura di varianti non accolte, | nel torto di rimediare un alibi | ad ogni punto non fermato»; «in punta di bellezza fra la parentesi | e l’istante, mi troverai sospeso | dove la pausa insegna l’equilibrio | al mio silenzio»): incursioni ‘in punta di malizia’ associabili alla ‘similitudine incongrua’ (che produce, cioè, sfagli di senso, slitta dalla contingenza che promette di illustrare) saggiata nei versicoli ‘ungarettiani’ di Altra casa («scintillerà l’autunno | come un fiammifero alla porta»).
Ma in queste ‘prove di trasmissione’ si distinguono altresì, sul piano tematico, la dominante dell’insonnia, delle veglie notturne commemorate in Epifania in una notte d’estate («Sospeso | nell’ultimo respiro | prima del sonno, in cui più niente | accade se non un caro | buio e il volo dei pensieri oltre | la soglia del mistero»), Annuncio postumo (con il «buio che ci congiunge i polsi, bacia | gli occhi, (li sommerge)»), Lampi d’insonnia (per la professione di estetica «il poeta è soltanto un insonne | che sogna»), Di un passo avanti (dove, invece, «non serve al sonno scrivere | versi»), e i tratti paralleli che assediano la squallidezza e la vacuità della vita urbana, toccando «il vaso | che si è rotto senza lasciare | cocci al pavimento» (Ancora guerra), le «nuove lampadine fulminate, vetri rotti» (nel vento), la «mano pronta nel vuoto della stanza, o meglio, nel vuoto senza stanza, che non aveva una parete fissa, perché quella parete gli ero io, oramai» (La mano) e, in ‘esterno giorno’, Verso il ritorno («spesso, quando l’alba si sveglia | nel riflesso dei vuoti di bottiglia | abbandonati ai marciapiedi, col | primo giro dei netturbini, la vita | si nasconde nel suono capovolto | di quei vetri – la musica indifesa | di un addio») e Treni, capolavoro della raccolta [5], sospeso fra il «binario più esatto dell’addio», i «volti al finestrino, indifferenti», e il commiato che «ti si ferma | addosso, in sosta, sulla pelle».
Oltre che per queste ‘promesse’, la semi-denegata prova importa in quanto annuncia il lato ‘performativo’ della produzione poetica di Dario Bertini, inaugurato dalla collaborazione con il cantautore Renato Franchi, che, ispirandosi al libro, e rilevandone il titolo, realizzò nel 2010 – con l’Orchestrina del Suonatore Jones, per l’etichetta Storie di note – un progetto discografico che combinava l’auto-recita di sette poesie (Come grilli, Treni, se sei lontana, Epifania in una notte d’estate, Il lavandino in fiore, Annuncio postumo, aspettando Godot) e l’esecuzione di songs dello stesso Franchi e di altri (nonché della canzone Addio che musicava un testo fornito da Bertini), prolungandosi in una tournée che, dopo le registrazioni effettuate in studio, esponeva quei testi (e il loro autore) al palpitante battesimo del pubblico [6]. Questa esperienza è uno snodo cruciale: rappresenta per il suo protagonista, come avrà modo di dire a distanza di anni (nel dicembre 2022, in occasione dell’uscita del disco sulle piattaforme digitali promossa dalla casa discografica Latlantide), l’incontro della «strada polverosa che conduce le parole verso il suono, il canto, la condivisione».
Pur addebitandola alla «febbrile incoscienza dei vent’anni», il poeta vi vede «il punto di inizio di un percorso che, in direzione ostinata e contraria, provo a portare avanti con gratitudine nei confronti di chi ha voluto esserci e ascoltare, a testa bassa, cercando sempre di andare un po’ più in là», mentre il musicista ricorda che «il recitato di Dario scivola tra quelle ritmiche e fra le note come l’acqua di un torrente sulla roccia» [7]. Il singolare itinerario è ripercorso in una illuminante conversazione con Daniele Lo Vetere [8], dove, dichiarando i suoi variegati ‘fari’ (i poeti della Beat Generation, Frank O’Hara e Kenneth Rexroth, André Breton e Benjamin Peret, Adrian Henri e Brian Patten, Dario Villa, Adriano Spatola, Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Piero Ciampi e, last but not least, Ferruccio Benzoni [9]), Bertini parla segnatamente di «una scrittura pensata per la lettura ad alta voce. La voce non viene dopo, non è un’aggiunta, un surplus di interpretazione per accattivarsi il pubblico, ma accompagna e sottolinea le scelte stilistiche e ritmiche del poeta. Un testo deve arrivare al lettore, deve provocare una reazione, positiva o negativa, non importa, ma deve suscitarla. La reazione di chi legge o ascolta è parte integrante della poesia. La poesia ha bisogno di divertimento, non nel senso che debba cercare di arruffianarsi il pubblico come se fosse cabaret, ma nel senso dello sforzo di coinvolgere le persone alle quali si rivolge. Il primo nemico della poesia è la noia» [10].
Il primo risultato del nuovo tragitto e la prima ‘dimostrazione’ della poetica che vi si innerva (riassunti, nel secondo risvolto di copertina di Prove di nuoto nella birra scura, dalla consentanea immagine del «contrabbandiere» che «introduce clandestinamente poesia in pub, bar, piazze e camere d’affitto») è Frequenze clandestine, raccolta che si può pertanto considerare, come vuole l’autore, un autentico esordio (Prima del reading ne ridarà lo specifico ‘batticuore’): un nuovo inizio subito segnalato dall’accorta architettura che contempla due paritetiche sezioni racchiuse fra le ali di un Inizio trasmissioni e di un Congedo (Una parvenza di felicità, che aggiunge a 13 poesie – una delle quali, Ricognizione articolata in 3 segmenti – il poemetto eponimo del libro, diramato in 6 parti; A dispetto del buio, che comprende 14 poesie, suddivise in due gruppi, rispettivamente di 9 e di 5) e ribadito dalla compattezza dei 28 testi, che convergono su motivi privilegiati, avvalendosi di un linguaggio altrettanto selettivo.
Intermesse le morbide e vaghe ruminazioni, la grammatica di una sensiblerie ancora per certi aspetti adolescenziale, il discorso di Bertini comincia qui a misurarsi con la spoglia verità delle cose, attingendo la dimensione feriale e quotidiana che la prima raccolta faceva baluginare, e associandovi un linguaggio dimesso e affabile metricamente volto nel regime ‘arritmico’ e ‘antimelodico’ di allocuzioni ansimanti e spezzate a controparti in fuga. Un passaggio che, messo a nudo nella terza poesia («Ecco, non c’è molto di più, in fondo | basta la vita, sentirla scorrere | dentro le vene, attraversare il tempo | così com’è: penso a una macchina | in corsa sull’asfalto, coi finestrini | aperti, sotto il sole, la radio accesa, | fendere il vuoto un giorno qualunque | di una qualunque estate»), contagia, si può dire, ogni linea. Per farne un minimo catalogo basterà ricordare «le polveri sottili che restano nell’aria» e i «clochard | addormentati sulle panchine» di Ricognizione, «il cestello | delle lavatrici, che gira rapidissimo | durante la centrifuga» di Lavanderia 24/7, la «fermata d’autobus | con la tettoia di lamiera e vetri ricoperti di manifesti elettorali» di Frequenze clandestine, la «coda troppo lenta al casello dell’autostrada» di Invettiva del dopocena, o la paradigmatica figura di «chi porta la tua posta», che ‘suona più di due volte’, transitando da Ricognizione a Frequenze («i postini tornano a casa | col peso sulle spalle di tutti | i baci ed i saluti da un qualcuno | a un qualcuno in fotocopia») a Congedo, con la sua tombale «lettera di sfratto»: «la porterà un postino, | come sempre, per pochi soldi | ad affrontare il freddo nelle strade, | e come sempre scenderò le scale, lentamente, | controllerò la posta | e resterò seduto a ridere | pensando così di avere un po’ di carta | per scrivere poesie dall’aldilà».
Questa figura, con il carico di fato che porta a tracolla, ci riconduce al radicale disagio (che verrebbe da definire una variante ‘generazionale’ del montaliano «male di vivere») subito accusato in quel «progettare un ritorno | senza sapere di essere partiti» di Inizio trasmissioni: un distintivo smarrimento, uno stato fluido che si combina con il motivo tradizionale della precarietà e della finitudine dei giorni declinato (con una chiusa che arieggia l’esse est percipi di Berkeley: «anche una casa scompare | quando si volta l’angolo») in Il dono degli opposti («non che sfamarsi basti a non precipitare, | un po’ come le foglie tocca a tutti | prima o poi, ma si dimentica | ogni istante, col fiato corto, asciutto; | e lentamente, molto lentamente, si scompare»), a Frank O ’Hara («non c’è tempo di sfuggire al tempo»), Frequenze clandestine («il tempo non si ferma per nessuno»; «anche oggi cadrò | come cade ogni singolo minuto»), Invettiva del dopocena («il giorno, | un nuovo giorno si dissolve in una sottrazione | d’occhi per uno schermo acceso»), e che ha malcerta contromisura in Parlando dei sassi, dove «le striature, i punti stravaganti, irregolari, | dei sassi che ora tieni in mano e che conservi | fra le cose più preziose» sono pegno di sopravvivenza: «qualcosa resta, sedimenta».
Ma il ‘proprio’ di questa, per dirla con Ripellino, condizione «assurdale» [11] vissuta da spettatore silenzioso e assorto (diresti dal ridotto ritagliato in Residenza: «Abiterò una cabina telefonica | dalle pareti di vetro rosso e acciaio | da cui guardare fuori | inosservato») è il nomadismo (l’«andare un po’ | più in là, comunque, più lontano» ancora della programmatica terza poesia) che suggerisce, a spese del congiuntivo, il ritratto-augurio di Erica Gazzoldi («spero che non lo “prenderanno” mai, per incarcerarlo in un ufficio o impiccarlo a una cravatta») [12], il senso di esclusione e di esilio che prepara a «riconoscersi | brina sui parabrezza delle auto, sui vetri | delle case, d’inverno, presto, molto presto la mattina» (Inizio trasmissioni), che adotta «il freddo delle case abbandonate, | coi muri screpolati e le finestre rotte, dopo gli incroci» («Non basterà il silenzio delle periferie»), che muove le fantasie adombrate in «Tutta la notte avrei vegliato una caldaia spenta» («seguire il passaggio del gas dietro i muri») o in Residenza («ci si potrebbe perdere, | fra tutta questa gente – | per ritrovarsi altrove, affidati a una voce | sotterranea in cavi di metallo | o leggerissima per l’aria, | quasi identica alla tua»); che prefigura evenienze come quella di «Scrivo poesie per arginare» («e mi ritrovo prima dell’alba | a spiegare un sonetto a un fabbro»; «e mi spingo verso casa quando il sole | fa le prove per la sua luce migliore»), Frequenze clandestine («è la notte stessa che è stata | abbandonata e si è smarrita per le strade»; «il buio si rifugia | dentro ai bar, vecchi cinema, stazioni sottotetti»; «io sono fuori come il vento | col suo passo randagio»), Qualche volta («aspettando l’autobus sbagliato | con un piede nella neve | ed il pensiero andato chissà dove, | senza nemmeno validare il biglietto | che non controlla più nessuno»), Congedo («Riceverò una lettera di sfratto, | un giorno o l’altro, | dal misero monolocale del mio corpo | con le finestre da lavare – il tetto rotto – | e libri e fogli e polvere, dovunque»).
Il suo antidoto, la predestinata via di scampo non può che risalire ai «fogli come strade per fuggire» di Frequenze clandestine, al nome che smaschera l’albagia degli oggetti facendoli «catalizzatori per istanti quasi epifanici» [13], all’immagine che scarta, destriero imbizzarrito, dal suo termine di paragone. In Frequenze il sole torna «nuovo | come un vestito rilavato, sempre alla moda» (forse con un ricordo dell’aria «azzurra come il fagottino della biancheria | di colui che è dimesso dall’ospedale» della celebre Primavera pasternakiana). «La pioggia, cadere, sa farlo bene» sfocia nel primissimo piano della bambina «coi semi neri fra i denti bianchi | affilati come la prima grandine della stagione». La poesia successiva è inaugurata da un «Comincerò a sentire la bellezza come una buccia di limone | sulla camicia di un netturbino, | come un biglietto non vincente della lotteria» (che duplica l’infrazione), per confluire sul «metro quadrato di cemento fra le case | dove la luce è un vecchio amico che ti parla»); a Frank O ’Hara vede l’estate «schiantata all’improvviso come un vagone merci» e il poeta errabondo «più o meno da vent’anni | come un filmato in bianco e nero con pochi spettatori», mentre «Non basterà il silenzio delle periferie» promuove un finale da horror movie: «la bellezza resta in agguato | come un vestito sul pavimento». «Tutta la notte avrei vegliato una caldaia spenta» è tutto sporto sulla «scritta | semplice, quanto inaspettata | per ogni volta che si nasce | come la corsa del metrò fuori dal tunnel». In Residenza «il neon riflette quasi azzurro | come gli occhi di una ragazza | che ha saltato la scuola in un giorno di neve». In Frequenze clandestine (che esorta a «rovesciare | la ragione del nulla | come una tasca sempre vuota, | o forse troppo piena») «il silenzio è un tronco d’albero | segato da un operaio». Altro mondiale contempla cuori «sbriciolati come il gesso segnalinea | su un campo di trasferta».
Simboli di questo necessario, vitale stravolgimento saranno l’ostentazione ‘alcolica’ (recita alla Bukowski, vezzo da maudit) [14] che, già impressa nel titolo della precedente raccolta, raggiunge Frequenze («anche stanotte berrò, cantando, | come una pianta secca, avidamente, | nel mezzo dell’estate»), «Non basterà il silenzio delle periferie» («chiedo da bere perché la gola si fa secca | in tutto questo buio di lampadine diventate acquari | per pesci piccoli»), Frequenze clandestine («sono in pub, stasera»; «Potrei stare seduto tutto il giorno | a fumare la pipa, bere»), e le bislacche rêveries cosmiche erogate in «Ecco, non c’è molto di più, in fondo» («eppure ci scordiamo che ogni anno | siamo sottratti al corpo millenario della luna | per la distanza idiota di un centimetro»), Ricognizione (mediante «le borse della spesa | abbandonate come meduse | per impigliarsi, infine, a qualche ramo | quasi a sembrare costellazioni, forse pianeti, | su cui fuggire un giorno»), a Frank O ’Hara (per la macchina che «si scontra con un’altra generando una cometa | e migliaia di stelle a illuminare il grigio dell’asfalto»), Frequenze clandestine (che offre «lettere lanciate nello spazio per un mittente ignoto»). Ne saranno raffinato risvolto i mercuriali commerci, i funambolici scambi fra vita e scrittura consumati in Frequenze clandestine («io scrivo la parola fuoco | fino a sentire che mi bruciano le dita»; «un verso è solo un uomo | che ti viene incontro | e tu ne riconosci da lontano l’andatura, | il passo incerto di chi ritorna | troppo tardi»), Filologia di un passo incerto («era scritto in un libro, | ma non ricordo quale, a quale pagina, | il segno esatto, l’ora e il modo in cui | la voce, forse la mia (la tua), si è fatta corpo, | si è smarrita, cantando ancora, tracciando muta | l’ultimo passo privo di note, verso la fine»), Ricognizione («sprinta, a testa bassa, un ciclista | in maglia blu cobalto | e solo il vento sembra fargli cronaca»).
Il «ciclista | in maglia blu cobalto» segna anche l’epifania del colore ‘jazzistico’ che sarà subito ribattuto nella «donna vestita di blu sopra una lunga | macchina nera» di Frequenze clandestine, portabandiera della chiassosa policromia che annovera «ombrelli gialli, rossi, a scacchi», «pareti di vetro rosso» e il sangue «più rosso poco di più che acceso», quasi condotta a contrastare la minaccia del non colore, l’orientale colore del lutto che, quando non meramente denotativo («l’albero bianco, una betulla»), conserva un che di sinistro (ai ricordati «denti bianchi | affilati come la prima grandine della stagione» si aggiungono il «filmato in bianco e nero con pochi spettatori», il «bianco in un elenco degli abbonati», la donna «bianca, così bianca, | come al primo assaggio di zucchero | che si scioglie sulla lingua» e, tutti in Distilleria di contrabbando, un «foglio bianco», i «bianchi fazzoletti» sconosciuti agli aborigeni australiani, la «stanza bianca […] chiusa a chiave», l’«abito bianco, | perché nel bianco non c’è folla»).
A uno sguardo d’insieme, questa rivendicata ripartenza continua ad aggirarsi nel «punto biforcuto» intravisto da Claudio Lolli: nel nuovo slancio incerta ora tra l’incursione nel mondo attuata con il desultorio e convulso ‘monologo esteriore’, il «metallo incandescente | delle parole forgiate nel respiro» di «Scrivo poesie per arginare» (il deliquio spazio-temporale, il subbuglio ‘alla Kerouac’ che domina la prima sezione, sfociando nell’infiammato vaniloquio, nella rapsodia di Frequenze clandestine: un ‘manifesto’, una summa, la cui colonna sonora, preceduta, in a Frank O ’Hara, dall’«assolo di john coltrane», sarà il dylaniano Subterranean Homesick Blues citato in epigrafe), e l’invito al raccoglimento, la ricerca di limiti (quasi confessata in «Traccio un solco per terra e lo chiamo confine») che sembra orientare vari testi della seconda (penso in particolare a Parlando dei sassi, Filologia di un passo incerto, Una stanza, Congedo, e soprattutto a Cantiere [15], per l’istantanea che ferma, per sempre, l’attimo, sbaragliando la tirannia del tempo: «qui | nell’angolo sarà uno spiffero | la causa di un abbraccio | tra lui che in piedi osserva l’orizzonte | e lei che tutta stretta alle sue spalle | dice ho freddo, non si muove»), configurando la possibile alternativa di una poesia pura e semplice, il rifugio in una disadorna ‘pace del canto’.
Prove di nuoto nella birra scura sembra imboccare con decisione la prima via: quella del «ragionato randagio», del «bastardo che vince (o almeno ci prova) la strada»[16], se non del «lasciarsi andare, essere un po’ così senza pretese, in balia degli eventi» [17] che rimanda al viavai accertato nell’epilogo della prima poesia («ogni tanto c’è qualcuno che arriva, qualcuno che parte») e nella quindicesima («le donne vanno | su e giù per le strade, continuamente»), alla cieca erranza prospettata nella terza e nella quarta («Ci sono viaggi che non conducono in nessun luogo»; «la gente si muove come per caso | senza sapere il motivo»), per ribaltarsi nel cauto «potrebbe essere pericoloso, | molto pericoloso, | sapere da che parte si sta andando» della venticinquesima.
Una strada baciata dal successo. Partendo da una sede editoriale piuttosto periferica (e con la clandestinità scolpita nel nome), il nuovo, ben coeso libretto (equamente suddiviso fra le 21 poesie di La mattina non esiste e le 23 di Prove di nuoto nella birra scura, e sigillato da un Ultimo giro (congedo)) ha raggiunto, nell’ottobre 2021, la quarta edizione. Un successo dovuto in gran parte alla natura ormai interamente performativa di testi concepiti per la recitazione ad alta voce di cui le prime due poesie sembrano trasversalmente mimare la preparazione («Una buona soluzione è continuare a respirare, | mantenere costante la frequenza cardiaca, | insediare le stanze dei polmoni | col fiato necessario a rimanere in piedi»; «allora mi avvicino al microfono | e comincio a parlare»), rivolti allo spettatore reattivo che «afferra la radio | e me la tira dietro», fruibili come ‘numeri’ da cabaret surrealista, dada o ubuesco, come gags circensi e giochi di destrezza: un’arena di prodigi, dove «i ventilatori | affileranno i denti | delle scimmie che mi vivono in testa» e «d’autunno le foglie inizieranno | a fare marcia indietro dai marciapiedi ai rami», dove «il frigorifero mi fa discorsi strani» e la lavatrice «non la smette mai di parlare di new york», dove «i formaggi brillavano al buio» e la morte «non porta le mutande», e dove la lingua (battuta su un ‘sincopato’ che sconfessa ogni pretesa di metrica tradizionale, e che ha fatto parlare di un «surrealismo a ritmo di jazz» [18]) si spinge alla trivialità del «vaffanculo» (forse implicato con lo scurrile adagio che Piero Ciampi schiera in Adius), e della «carta igienica» che nel Congedo ospita i versi da buttare nel cesso e da lasciar «annegare al posto mio».
L’immaginario che presiede a queste sventagliate di fatti fuori norma, a questa fiera di sorprese ed effetti speciali, recupera in parte l’attrezzeria adoperata in Frequenze clandestine, in primo luogo la vocazione denunciata nel titolo [19], che origina versi come «La birra è una promessa | che finisce troppo in fretta» (Interno 34), «dividiamo l’ultima birra rimasta», «la birra non è mai abbastanza», «non è vero che da ubriaco non ti succhiano il sangue, […] e che le stelle si bevono champagne millesimato secco | perché bevono birra calda sgasata | anche nel giorno della fine del mondo» (Verità), «e una mezza dozzina di birre | a farmi compagnia» (Ottomila conigli), «una poesia finisce | quando finisce il vino, non quando chiude il bar», «preservami così, più o meno come sono, | dalla birra analcolica, dal cibo vegano, | dai bar con troppa luce e musica da schifo, | preservami dal gin cattivo e da troppa acqua». Allo stesso modo, riaffiora il motivo dell’insonnia: nel «non riesco a dormire» del bambino e nel «colpo di stato che porta a termine ogni sera | dopo l’aperitivo delle 19 fino alle 5 e 30 del mattino». E ritornano in gioco le fantasie astronomiche: per evocare «un pianeta al centro del cosmo», «la voce da qualche parte al di sotto della luna», alieni che «invadono il pianeta», formaggi «migliori perfino della luna»; per chiedersi se «ogni cosa potrebbe proseguire migliaia di anni luce», «se sulle stelle suonano un blues migliore», se «potrebbe | essere anche il movimento che tiene in vita | l’universo, questo andare ridenti | o scontrose verso la fine di una via»; per misurare la «distanza fra la terra e la luna» e «quante strisce pedonali | occorrono a riempire l’universo»; per rimettere il sole «dove stava, al centro | dell’Universo»; per sognare il viaggio dei viaggi: «ormai sono fuori dall’orbita terrestre | gli aerei sono luci lontane, fra le nuvole, | la terra è un pianeta bellissimo».
Le solfe sentimentali o moderatamente erotiche che punteggiavano Distilleria di contrabbando e che in Frequenze clandestine si condensavano nel piglio madrigalesco, nell’ arcadica e acquerellata galanteria della terzultima lirica, non a caso impreziosita dall’hapax di un accusativo alla greca («Sotto un albero bianco, una betulla | forse, ti ho vista riposare | con la testa sulla corteccia | e i piedi spogli sulla terra, morbida | di foglie, fra le radici, sorridendo | alle carezze delle formiche | a cui dicevi con un filo di voce | se state buone vi faccio un quadro»), riprendono lena per integrarsi nei vagabondaggi, negli spettacoli da strada, negli scherzi (a volte goliardici) che costellano il libro. Le dichiarazioni d’amore prendono così una forma viatoria, o comicamente acrobatica: «Ho attraversato la città da parte a parte | soltanto per vederti»; «Vieni da me sopra una bicicletta viola, una scopa, | un triciclo da circo a pedali, un aereo di carta»; «così segretamente aspetto che una qualche legge | di gravità faccia accadere all’improvviso | che tu mi cada fra le braccia»; «Ma chiedetemi del primo istante | in cui il respiro si ferma negli occhi di una donna | (provate voi a non saltare in aria) | e vi dirò che scrivere poesie | sarà restare al buio, sopra una gamba sola, | cercando di pisciare». Il corteggiamento vira sulla battuta beffarda: «sarebbe stata facilmente una regina | a forza di sorridere e salutare | ma per fortuna non è così, io le regine | non le ho mai potute soffrire»; «La notte che la tua tazza vuota ha cominciato | a dirmi che mi mancavi, io non sapevo che fare […]. Per questo, amore mio, la prossima volta | che bevi il caffè | fai tutto il possibile per lavare la tazza». Ma il frutto più succoso di questo ramo viene dai versi che aggiornano al trafficato presente la celeberrima Ode della Gelosia di Saffo («Tutte le volte che ti incontro sbando come un tir | sull’asfalto bagnato, tutte le volte | perdo l’equilibrio, | mi manca il fiato, la gola si fa secca»), innescando la buffa ascensione («vedo il bancone del bar dall’alto in basso») che condurrà «fuori dall’orbita terrestre».
Un tal genere di astuzia, di larvata riscrittura, ha poi modo di dispiegarsi, a certificare a suo modo la sofisticazione sottesa all’esibito platealismo, nei molti luoghi che ‘smorfiano’ l’operazione stessa dello scrivere e che, lo abbiamo visto, costituiscono una chiave delle partiture di Bertini. Si va dall’umoristico «qualcuno sempre cerca il bagno, | così il prossimo verso sarà | di un chiarissimo giallo», al quasi pornografico «scrivo una poesia su una bellissima ragazza nuda», allo scettico «questa, del resto, non è vera poesia», all’inquietante «se il primo verso scivola col buio nell’odore di gas», ai problematici «a questo punto, lo so | che ti aspetti un finale» e «Come finisce una poesia?», per giungere alle evasioni incrociate dei versi che «fuggiranno via dal foglio» e della donna che «non esiste, non è mai esistita, ma forse esisterà, lei | che pensava di farla franca, cercando rifugio in questa poesia», a loro modo riconducibili alla vulgata sequenza di The Purple Rose of Cairo che vede Tom uscire dallo schermo per proiettarsi nella ‘realtà’ (simile a quella del keatoniano Sherlock Jr., dove il giovane proiezionista si avventura nella sua proiezione, e all’altra, anteriore, del cinescenario di Majakovskij Incatenata dal film, con la ballerina che scende dalla pellicola per avvicinarsi al pittore e accompagnarlo all’uscita).
In questo ambiente surriscaldato, tenuto costantemente ‘sopra le righe’, si intensifica anche l’uso dei colori chiamati ad accrescerne per così dire la temperatura. Scorrendone lo spettro, incontriamo la «radio dipinta di rosso laccato», il «vestito rosso», l’allarmante Interno 34, dove «il pavimento è rosso» e «tutto intorno è rosso rosso rosso», le «passerelle rosse», la «pelliccia rossa», il sangue che «scorreva nero su rosso», il «naso rosso», le «nane da giardino | con i capelli rosso fuoco», gli «elefanti rosa», le «pantofole rosa», la «bicicletta viola», il «cerchio viola che le circonda la testa», la «cannuccia viola, e soprattutto le macchie di strategico blu che punteggiavano le raccolte antecedenti, ora spalmate fra gli alberi che «diventeranno blu per farti ridere», il «cielo anche d’inverno | blu come le tute degli operai | che rompono la fila a protestare» e il vento «con la sua voce quasi blu», il buco nell’ozono da rammendare «con una toppa blu», «una risata blu | nel silenzio del cielo», la «bottiglia blu», «che potrebbe benissimo essere verde come tutte le bottiglie, | ma invece è proprio blu, senza motivo», la «carta da parati rossa e blu con grappoli d’uva», il «cigno blu cobalto, un cigno punk», che scompare «nel blu più blu di tutti i cieli», l’«elmo con un pennacchio blu», le settantadue persone che «hanno la faccia dipinta di verde, | ma solo una di blu cobalto»; le «balene blu», mentre il bianco continua in genere ad avere connotazioni negative, a marcare zone di inquietudine: è il caso della donna che «aveva lunghe calze scure, i denti bianchi | la voce da qualche parte al di sotto della luna», dell’ipnotico «bianco dei vestiti» di una lavatrice, del «cigno uguale a tutti i cigni, ma che era stanco | di essere semplicemente bianco», del muro «troppo bianco».
Il compito di seminare disordine, di portare scompiglio nella monotonia del mondo, è spesso affidato, ed è la vera novità del libro, a un serraglio di animali stilizzati. E se i gatti che «dormono indisturbati, | sopra le auto posteggiate», il cane che «le balla attorno, facendo cerchi imperfetti, nell’aria fredda» e quello «più abile a nuotare» conservano un certo timbro realistico, la consorteria dei ‘teppisti zoomorfi’ mostra volentieri movenze da fiaba o da cartoon, comprendendo una «scimmia canguro [che] perde la guerra | con il topo-giaguaro», «un topo, una giraffa, una mandria di zebre, uno zoo» («la foto | di una rana toro del borneo»), i «grandi elefanti rosa» che passeggiano tranquillamente sui tetti, «una foca che parla svedese», un cigno imboscato in una lavatrice, le scimmie che iniziano a «parlare latino» e mettono in crisi l’Accademia, «un drago per la strada», «un drago sputa fiamme»; gli «ottomila conigli bianchi» stampati su una maglietta che si materializzano dandoci «dentro come pazzi», «una carica di struzzi selvatici | che correvano a rotta di collo per tutta la cucina», i «pappagalli albini», «un cesto di vipere | sopra una bomba atomica», i ragni che «prendono ancora il tram numero dieci», il «cammello che ti attraversa la strada | mentre guidi nel buio, contromano».
La risposta dei lettori, esercitata in massima parte sul web, non ha mancato di sottolineare la briosa vitalità di queste manovre, la forza espressiva della centrifuga addetta allo sconfinamento e al caos. Giorgio Linguaglossa parla di una «poesia frizzante, effervescente, modernamente ditirambica, scritta con la mano sinistra e in punta di penna, un po’ contro voglia, un po’ di pessimo umore»,[20] Gianni Montieri di «struggenti ballate, che fanno pensare a certi posti dell’America, a certi suoi poeti», di «un sogno che può aiutare, se non a sopportare, a confondere la realtà», di «un libro dove contano le cucine e comandano gli elettrodomestici» [21]. Ricordando come il lavoro trasudi dell’«amore per i grandi americani, per Irving Stettner, per esempio», Frank Iodice ne valorizza opportunamente, con un suggestivo profilo che fulmina il personaggio dell’autore, la linea dell’improvvisazione: «Se sei poeta e hai raggiunto la consapevolezza di esserlo, prendi la penna, prendi la birra, un sigaro, ti abbassi un po’ la visiera della coppola, e scrivi» [22]. In questo coro unanime, Davide Castiglione sposta invece i riflettori sul piccolo blocco costituito da Interno I, Interno 22 e Interno 34, ossia sui «ritratti enigmatici e sensuali di donne sole in casa», nei quali «il focus descrittivo dapprima indugia su parti anatomiche o sul vestiario, per poi approfondirsi psicologicamente in azioni o atteggiamenti che oscillano fra il quotidiano e ciò che da questo esorbita, con effetti di realismo magico che investono l’ambiente domestico circostante, e dove Bertini assume la «posizione partecipe ma defilata del narratore» che cerca di catturare la «natura sfuggente e appunto quasi ‘magica’ o incantatoria dell’evento» [23]. In altri termini qui, rinunciando alle panoramiche volte a stringere in simultanea una ressa di eventi, ad accerchiare con una danza da ‘Cani Pazzi’ il bailamme della vita contemporanea, il poeta seleziona una singola storia, a rubarne, di là da ogni pretesa imitativa (e su un modulo sperimentato con successo, nelle due precedenti raccolte, in prove come Treni e Cantiere), il canto e l’incanto, la stilla di poesia. Vi si può scorgere un richiamo alla disciplina, l’esigenza di governare una materia che rischia a ogni passo di sfuggire di mano. Una disposizione che, a ben guardare, si trasmette ai testi ‘eccentrici’ che cercano in qualche modo di ‘chiudere’, di darsi dei margini, di tendere a un ‘soggetto’ e a una ‘sceneggiatura’. Mi riferisco ai dispositivi di «scrivo una poesia per una bellissima ragazza nuda» (ben bilanciato, sul falsetto dell’Autore che guida il ballo, fra la ragazza che ‘esce’ dalla poesia e quella che è invitata ad entrarvi), «Se davvero si vuole parlare della gente» (calamitato dallo sgomento della finitudine e ingioiellato in chiusa dai meravigliosi occhi «che brillano come bicchieri rotti» e dal testamentario «voglio fare il concime, fare ridere i fiori» che ‘riscrive’ il popolare adagio di Via del Campo), «Vieni da me sopra una bicicletta viola, una scopa» e «Non parlate al conducente: è scritto» (giocati sull’efficacia dell’iterazione che ne scandisce il climax), Deposizione (per la coerenza del monologo in cui il testimone sembra ammiccare allo ‘stile giudiziario’ di un noto segmento dell’Ulysses), «Tutto ciò che devo fare è mantenere la calma» e «Sul fondo dell’armadio c’è una foca che parla svedese» (le invenzioni più convincenti di una serie da Manuale di zoologia fantastica – controcanto al Borges richiamato nella «storia universale degli elefanti rosa» – che, alla lunga, risulta ripetitiva), l’irresistibile siluette di L’uomo che era nato per fare pipì (una biografia fantastica che mette fuori causa ogni pretesa di ‘carriera’, ogni supposta ‘vocazione’), «Ma dio preservami da violiniste lesbiche» (laicissima e disperata ‘preghiera’ che si consegna alla infinita desolazione di quel «bicchiere vuoto, a fine sera, | da mettere a lavare, senza nemmeno farci caso»), «scriverò i miei prossimi versi sulla carta igienica», in cui l’euforia da bateau ivre lascia luogo a uno squallido viaggio dei versi nei fetidi cunicoli del mondo, fino al sacrificale suicidio: «e arriveranno al mare, | sentendo il sole brillare forte | lasciandosi annegare al posto mio».
Da questo simbolico affogamento le rime di Bertini riemergeranno cinque anni più tardi, approdando alla terraferma di Il caffè della sala infermieri, silloge che disegna una ‘svolta’, che prende il sentiero centripeto in cui il sogno lascia il passo alla realtà, il diorama al ritratto, il ‘fuori’ al ‘dentro’, la versificazione ‘selvaggia’ a un dettato più sobrio e conchiuso. Una svolta a suo modo annunciata dal prologo, che riproduce l’emblematico «Se davvero si vuole parlare della gente» di Prove di nuoto nella birra scura (dove la vita era assimilata a «una stanza vuota con un tappeto grigio | bruttissimo a cui tutti cercano di dare fuoco», e un bambino si chiedeva «cosa farai da grande?»), istituendo con la produzione pregressa un raccordo che sarà completato dal recupero degli altrettanto emblematici Interno 34 (sempre da Prove di nuoto nella birra scura) e Cantiere (da Frequenze clandestine). Ripartita in cinque proporzionate sezioni tutte ‘a tema’ (vale a dire, fra le 8 poesie di Donne con molta sete, le 9 di Gattile di Via dei Matti, le 10 di Una decina di bambini o alcune piccole fatalità, le 6 di I manichini della Scuola Infermieri, le 9 di Il caffè della sala infermieri) e munita dell’immancabile Congedo (fermato sull’autoironico «buona notte, niente poesie, coglione»), la raccolta costituisce così una nuova ripartenza che, sempre sull’alea di incessanti peregrinazioni, si porta ora sulla corsia alternativa varie volte incrociata nel cammino: il ‘disegno dal vero’ che sostituisce, senza del tutto sconfessarle, le pennellate surrealiste e le tinte psichedeliche delle due opere precedenti. Nella sua complice prefazione (La profondità dell’abitare di Dario Bertini) Andrea De Alberti scrive che Gattile di Via dei Matti «altro non è che tutta la tua Infanzia», e parla poi di «persone che hai incontrato e descritto» e in particolare dei «tuoi pazienti», alludendo a un tratto biografico che mi è stato chiarito in un messaggio WhatsAp (17 agosto 2023) di Marco Ceriani: «Bertini ha effettivamente lavorato come infermiere, la mamma – che ho conosciuto – è tuttora infermiera, forse alla soglia della pensione, e il papà è medico di famiglia». A questa esperienza sono certo da ricondurre le due ultime sezioni, ma si può pensare che vi sia in qualche modo implicata la serie inaugurale di Donne con molta sete.
Tutte avvinte a una solitudine senza scampo, tutte protese a una vita in vario modo ‘sottratta’, le figure femminili che vi si accampano si possono dividere fra quelle di cui si privilegia la ‘posa’, il gesto definitivo ed eternante (parlo di Interno 3 dove «la schiena | è bianca come un cielo polare; scrive col dito | sullo specchio una parola che scomparirà», di Interno 5, dove «lei raccontava barzellette alle blatte per non farle soffrire», di Interno 7, dove «mentre due barellieri la trasportavano per la testa e per i piedi, | sembrava per davvero una regina, | in quel giorno giallo come le pareti all’obitorio», di L’autopsia dell’angelo, dove «lei sorrideva, sopra il lenzuolo, splendida, | molto più giovane della morte») e quelle restituite, con scatti da fantasista, a una deriva riconducibile alla temperie di Frequenze clandestine e Prove di nuoto nella birra scura (che influenzerà anche l’acceso cromatismo di interno 5 e Interno 7, rispettivamente inondati di bianco e di giallo): la «ragazza con il cuore di legno» che cerca «l’amore in un ragazzo con gli occhi | di estintore» e che avrà «una fine sublime per autocombustione» e la cameriera che «assomigliava a una stufa a gas: | con le sue piccole fiammelle blu | sorrideva ai clienti».
Gattile di Via dei Matti porta una nota inedita nella poesia di Bertini. È un crepuscolare album di ricordi (siglato da un «Noi ritorneremo qui» che sembra un omaggio ai gozzaniani Sonetti del ritorno), una piccola mostra di fotografie color seppia su un luogo che compendia, con parole insolitamente piane e con un fraseggio elementare, il tempo fatato dell’infanzia, prodigiosamente ‘ritrovato’ nel melograno che «pungeva l’aria | coi suoi frutti rotondi», negli «acini a terra dopo i temporali», nel «plotone di merli, | dediti al banchetto delle nespole», nell’«odore del marsiglia sulla pietra, | di acqua mista a cenere», nella «sigaretta furtiva subito | prima di risciacquare», nel ciliegio dai «piccoli fiori | bianchi, come un desiderio», e prodigiosamente riscattato negli ultimi versi dai bambini che «giocheranno agli indiani, | abbatteranno il lavatoio a colpi di pallone».
Una decina di bambini o alcune piccole fatalità presenta invece una galleria di fanciulli ‘anomali’ che alterna, con eccessiva disinvoltura, momenti pseudolirici, trovate da fumetto e vere e proprie barzellette, passando dal neonato che ammira «il bellissimo azzurro del cielo», all’incendiario che «amava le scintille», all’acquatico «nato da un geyser», al canterino frustrato che «finisce nel commercio di cibi per cani», al lupo mannaro che ‘infetta’ ostetrica e infermieri, al colibrì che se ne vola via «lasciando tutti a bocca asciutta», al santone che «benedisse il medico | con un gesto sicuro nell’aria», al re Mida che «trasformava le cose in oro», al profeta (che «quando nacque | pianse in ostrogoto o forse in aramaico antico», dicendo «Vi amo tutti»), all’autobiografico scriba che nasce con «una matita nella mano sinistra» e «per questo scrive ancora, | lascia qualcosa per chi non è cresciuto».
Dopo questa improvvida ‘ricreazione’, le sei poesie di I manichini della Scuola Infermieri (un titolo che sarebbe piaciuto a Ripellino, titolare del magico Manichinia, il secondo dei quattro racconti di Storie del bosco boemo) trovano il giusto equilibrio tra le ragioni del reale e i diritti della fantasia. Qui Bertini ‘si limita’ a interrogare una sua sofferta esperienza, presentandone dapprima lo scenario – simmetricamente diviso fra i manichini («due lui | e una lei, stesi sui lettini, quasi vivi, | ad aspettare») e gli allievi («Da metà maggio a giugno, organizzati | a squadre, intorno, a due | a due, proprio come formiche»), e sorvegliato dall’onniveggenza di un truce pantocrator («dalla parete in fondo | la foto della suora-caposala | inceneriva il desiderio di ogni tregua») – e proseguendo, nella terza poesia, con il felicemente prosastico diario di una giornata-tipo: «Noi si apriva la porta, si entrava nella stanza, | per prima cosa dire di sé, identificarsi: | Buon giorno signorina, ha riposato bene?, | tirare il paravento, avvicinarsi, i denti | da lavare con lo spazzolino. Bene, lo sa | che fuori è quasi estate? nel giardino | ci sono già le viole. Tenere a mente tutto, | non dimenticare, preparare il carrello degli aghi, | immaginare l’acqua come sangue e soprattutto | non tremare». Questi tratti denotativi preparano il terreno (sul diapason della prima poesia, dove «la luce verde del giardino riordinava le ere, | dava al giorno un criterio incrollabile») alla levitazione che smuove l’inerzia dell’oggetto, sollevando la ‘bellezza’ che, corteggiata in preterizione («alle mani mancava soltanto lo smalto | il rosso innamorevole sull’unghia»), «talvolta si faceva la gara a curarla | o perfino arrossire al pensiero di farle il bidet», quindi l’intero gruppo dei fantocci («Di notte, nei sogni, capitava che prendessero | vita, se andassero fuori in giardino | per una sigaretta a parlare di noi, raccontarsi | gli errori, immaginarsi liberi sopra una spiaggia | tropicale, proiettarsi più in là di ogni male, | diventare la cura, unica gioia fino a perfezione») e infine la «torre alta come una madre muta» che ne testimonia.
Questa fortunata armonia si propaga alle nove poesie di Il caffè della sala infermieri. Rammentando le strofe di un poemetto o, meglio, le lasse di un cantare, ognuna delle otto «stanze» che vi si susseguono attira un proprio ‘correlativo climatico’, specchio del peculiare destino della vita ferita che la abita. Così la camera del dolore diverrà di volta in volta un acquario con «due donne nel letto | ciascuna da sola, ognuna che nuotava per sé | e c’era un caldo che sembravano i tropici», un deserto (dove «lui stava sempre alla finestra, col braccio teso | sul tavolino, guardava fuori, un po’ più in là; | se poi diceva – ho sete – gli si dava da bere»), una chiesa (dove «ogni volta che entravi si faceva il segno di croce»), una guerra del Vietnam con «un rumore di elicotteri nell’aria, grida di uomini al fronte, | nella boscaglia, puzza di napalm», una fame inestinguibile che «non mangiava mai, mandava indietro tutto», una foresta «col cacciatore sempre in agguato, dietro al paravento», una vetta montuosa «dove anche l’aria era più sottile, rarefatta, | come quella dei ghiacciai», un castello medievale «tutto arroccato sopra una collina, con le sue torri, | il fossato e il ponte levatoio e cavalieri dalla lunga lancia, | armati di padella come scudo»: preludi al «paradiso» della sala infermieri con il suo balsamico «odore del caffè» e il suo titolo-cartello Divieto di accesso. Un espediente facile, ma molto redditizio, come la monocromia (appena variata dal «sogno giallo» che «colava giù sopra il pigiama, | fresco, come il sole delle sette», dal «sangue fresco, rosso, più rosso che si può», e dal «tavolo di formica verde | appoggiato al muro») che avviluppa la solitudine dei ricoverati, prevedendo «spiagge di sabbia bianca», «un corridoio | bianco che sembra non finire mai», «un deserto di sale», «lenzuola, bianche», «lenzuoli bianchi», un «lenzuolo pulito», la cima «coperta di neve». Un ‘rasoterra’ (stretto, anche sul piano linguistico, al «culo nudo | della vita» dei versi iniziali) da cui si librano le donne della prima stanza («due pesci facili a farsi pescare»), l’infermiere della seconda (sorpreso a «cantare con un nodo alla gola || sono il factotum della città»), la devota della terza («con le gambe sembrava pedalasse dentro l’aria – | forse in un’altra vita | era già stata maglia gialla al tour»), l’intrepida della settima (che «se ne stava lì, respirava a pieni polmoni, guardava dritto davanti a sé, | come se volesse guardare in faccia dio in persona») e la sublime della ottava: «dritta, immobile, | come una principessa, dentro al letto, pronta a dirigere il suo regno».
A un risultato così persuasivo (che piace associare al «profumo | come il ricordo di una vittoria» di Divieto d’accesso: l’ineffabile «odore del caffè della sala infermieri») Dario Bertini ha fatto seguire il suo titolo più bello: Il fiato mentolato delle farmaciste (forse debitore, per via di rima, del gozzaniano «amore delle cameriste»), assunto dal verso conclusivo di «Fluidifica, fluidifica i tuoi sieri», e variato nelle «bionde farmaciste dell’oblio» di «Tu parli un’altra lingua, pterodattilo, di laterizi-fossili, preistorici» (che fanno a loro volta pensare alle «Demoiselles du téléphone», le semidivine telefoniste della Recherche, «Danaïdes de l’invisible»). Prima di accostare il ‘macrosonetto’ delle 14 poesie accolte nel libello (che compensa il suo minimo peso con la splendida copertina ‘espressionista’ di Dieuwke Raymaekers e con un’eleganza tipografica cui la cucitura a mano conferisce il tocco ‘supremo’), sono tentato di soffermarmi, non senza motivo, sulla misteriosa dedica «A Veronica Fallini», fomite di una curiosità subito esaudita da una breve notizia impigliata nell’onnivora ‘ragnatela’ che ci avvolge:
«È scomparsa alla giovane età di 43 anni l’insegnante, giornalista e scrittrice erbese Veronica Fallini. Corrispondente per diversi anni al quotidiano «La Provincia di Como», Veronica ha successivamente lasciato il mondo del giornalismo per dedicarsi alla scuola insegnando religione in diversi istituti del comasco. | Appassionata di scrittura e soprattutto di poesia, Veronica è stata autrice di diverse pubblicazioni di raccolte poetiche come «Umane Cose» (Lietocolle, 2010), «Oroscopi e altre minute ossessioni» (Lietocolle, 2012) e nel 2013 è uscita la raccolta di racconti «Un respiro dietro l’altro» (Italic Pequod). | Apprezzata e ben voluta da colleghi, alunni e conoscenti, Veronica è spirata a seguito di una malattia nella notte tra giovedì e venerdì. I funerali si svolgeranno oggi pomeriggio, sabato, alle 15.45, nella chiesa di Santa Maria Nascente» [24].
Il saluto all’oscura poetessa prematuramente oscurata si unisce quindi alle evocazioni di giovani poeti suicidi che punteggiano le raccolte di Dario Bertini. Mi riferisco alla dedica di Filologia di un passo incerto (in Frequenze clandestine) «a Remo Pagnanelli», e agli esergo che utilizzano testi di Simone Cattaneo e Boris Ryžij, chiamati a ‘benedire’ il Congedo di Frequenze clandestine, la sezione eponima di Prove di nuoto nella birra scura e il Congedo di Il caffè della sala infermieri: graffiti che, esplicitando una particolare pietas, sono forse da collegare al clima di una sequenza che rivendica il proprio lutto, il tarlo che aggredisce in egual misura corpo e anima (battezzato, nell’epilogo di «State attenti ragazzi, che a questo servono i canini», dal molto ripelliniano invito a «tornare alla vostra malsanìa preziosa, dove è notte | e noi siamo al riparo dall’insulsa baldoria del sole») [25].
Nel passaggio dai parametri ‘oggettivi’ di Il caffè della sala infermieri al dominio di una sofferenza privata riaggalla il motivo alcolico che detta il memorabile incipit «se l’aldilà fosse un negozio di liquori», e che si distribuisce fra il «porteremo da bere prima o poi», il «ma qui che sete, siamo alle solite, verso le otto», il «freddo delle notti di cantina», e quel «tiriamo il collo | al buio, ci resta poco tempo, la galassia da bere in bottiglia», ennesima rêverie cosmica che riporta al Majakovskij di A tutta voce, votato a «schiacciare la gola della propria canzone». Ma la declinazione più nuova di questo martirio, giustamente rilevata nell’elegante e acuta Postfazione di Angelo Lumelli, è senz’altro quella, ‘professionale’, che convoca in vario modo, spesso virandola a prosopopea – come nelle allocuzioni al «diclofenac sodico, | navicella spaziale per sfiancare il dolore», al «mio caro cardias, | mio succo pancreatico | impestato di foschìa», alla «mia emorragia subaracnoidea» e alla «cirrosi cara» –, la terminologia medico-farmaceutica arieggiata nel titolo, che (nella poesia che lo fornisce) investirà anche l’autoesortativo «Fluidifica, fluidifica i tuoi sieri, | eparinizza, drena l’allucinato sonno», e, nella successiva, l’angoscioso appello («Cosa fate lì in piedi con il mano il termometro, | l’abbassalingua, il pulsossimetro, | bianche come due compresse») che genera il «sembra un flacone vuoto | di paracetamolo», contagiando i «bendaggi del sonno» e «le prime luci rosse delle ambulanze».
Un’area semantica che a sua volta si incrocia con gli esorcismi indirizzati all’endemica insonnia (che includono il «lei è atterrata sulla penisola del sonno, | in cerca di un paletto per trafiggermi» e il fantastico pterodattilo scelto «perché non temi | il sonno») per confluire nelle pulsioni ‘tanatologiche’ che muovono il «cimitero coperto di foglie», la «nube di corvi che si ferma a guardare», il «cadere secco, a terra, come un tergicristallo», le «piccole bare», la «torma | ammuffita a costruire bare», le «teste mozzate», la «decapitazione», l’«esecuzione capitale», e la «commessa pallida e disfatta, | così leggera da sembrare innocente» che le impersona. Tutto concorre insomma (sin dai volti ‘alla Munch’ crocifissi e moltiplicati in copertina) a suscitare l’allucinazione, il «panico d’occhi» che si riflette nel colore della raccolta, coerentemente giocato sul basico e nullificante contrasto bianco/nero (donde il «sergente albino», la «nube di corvi», gli «uccelli bianchi», la «la scia lunare dell’ossido di zinco», il «buio fermentarsi», il «collo più bianco», «la notte nera che ci assilla», la «valigia chiara della malinconia», la «bianca fuga ultraterrena»).
Questo per dire che il libricino ‘si tiene’. L’irruzione del ‘nuovo argomento’ non incrina le conquiste di Il caffè della sala infermieri. Le fratellanze tematiche e lessicali garantiscono l’unità dei poliedrici testi. E se alcuni di essi inclinano ancora a un surrealismo un po’ fine a se stesso (se non all’immaginario fantasy/horror che partorisce i vampiri di «State attenti ragazzi, che a questo servono i canini», la creatura spielberghiana di «Tu parli un’altra lingua, pterodattilo, di laterizi-fossili preistorici», i lupi mannari di «ma qui che sete, siamo alle solite, verso le otto»), altri hanno la preziosa coesione della cosa giusta, da non toccare. In «Fate festa, mie piccole zanzare, a mezzanotte» si ammira la rapida traiettoria che lega il rovello dell’insonne alla comparazione ‘fuori sesto’ dei due versi conclusivi: «lascio che detti legge come un sergente albino | che se ne accende una, controvento». La situazione ossessiva di «io che mi accoltello per vedere se è autunno» è come reclusa in un edificio anaforico tutto giocato, echeggiando moduli provenzali, sulla ripetizione di parole-tema («autunno», «coltello»/«accoltello», «campo»/«campo nella nebbia», «uccelli bianchi») e sull’inseguimento della rima in «ello» («fornello», «accoltello», «coltello», «cappello»). In «Cosa fate lì in piedi con il mano il termometro» il fotogramma centrale di «un uomo | dentro la notte, vicino alla finestra, | che veglia, guarda fuori, tutto solo» è inchiodato (e con gli «aghi» a inciderne la condanna) al lessico infermieristico che tradisce la presenza degli invisibili carcerieri, mentre l’«eccomi» di «se l’aldilà fosse un negozio di liquori» fila un rigoroso ordito kafkiano, dove la morte ha il sembiante della più innocua normalità. La stramba fantasia di «Stavo guidando da te, cirrosi cara» è invece diretta (e giustificata) dall’ultimo verso («abbi cura, tesoro, che non ti manchi presto») che ne scopre l’amaro sostrato.
Il delusorio bilancio di «Da questi bassifondi dei miei oltre trentanni» avrà il suo ambiguo riscatto nell’enumerazione che vuol circuire la stregheria del corpo femminile («sorriderà con la gonna cortissima || l’imbroglio disperato della gioia, | lo smalto rosso rosso sulle dita, | l’assedio incantatore sulle labbra») e – sul traliccio di rime, anche interne, che ne convogliano la preghiera («mia nottola, falena, | stella d’ombra gesuita, | gemma di cancrena») e l’accorata invocazione dell’explicit («ma tu disvola via, frantuma la tristezza | controsole, al vento delle amanti, | all’eresia insanabile del giorno») – nella rotta contorta del pipistrello. Ma il punto forse più luminoso di questa piccola gemma è la struggente metapoetica che irrompe, travolgendoci, nel finale di «Ma continua a vegliare, fare finta di niente», saldando in un solo comma le istanze della più remota biologia e le insopprimibili guarentigie della scrittura: «oh, ma dico a voi, atomi incerti, non posso trattenermi | dal fissare, lo capite, questo buio fermentarsi | dopo che si è smarrita, nel pensiero, | quanto precipitarsi, | quanto fumoso annichilirsi nelle vocali in iato dell’addio».
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] La poesia di Bertini è stata parallelamente diffusa in riviste quali «Nuovi Argomenti», «Le parole e le cose», «Interno Poesia», «L’Ombra delle Parole», «Gli Stati Generali», «Il Salto della Quaglia», «Medium poesia», «Fare poesia», «La Mosca», «La Gru», «Neobar».
[2] Sollecitamente procurato dalla gentilissima Simonetta Fariselli, che ringrazio di cuore.
[3] Ma si veda il breve ragguaglio di Jean Robaey (titolare dell’epigrafe di (in confidenza)), La qualità poetica di Dario Bertini, «Il filo rosso, Semestrale di cultura», a. 25, n. 50 (gennaio-giugno 2011): 44-45, che ne segnala, insieme alle «ingenuità […] o perlomeno le sue ingenue espressioni», l’«insistenza sulle parole e sugli stacchi tra l’una e l’altra» e gli evidenti debiti: «Quanto Sereni, quanto Benzoni!».
[4] Ne fanno fede le numerose occorrenze dei termini «luce», «ombra», «silenzio» (o di quelli variamente riferibili alla loro semantica).
[5] Non a caso dislocato nell’antologia Tredici cadenze. Giovani poeti in Pavia, prefazione di Gianfranca Lavezzi, Puntoacapo, 2011.
[6] Dopo l’esordio, il 2 aprile 2010, alla sezione Mauro Venegoni dell’Anpi Legnanese, il tour previde, fra l’aprile e il maggio 2010, le seguenti tappe: Coop Belforte di Varese; Circolo Arci «Guernica» di Bulgarograsso (Como); Coop U. Arnatese di Gallarate (Varese); Teatro Gloria di Como; Festa dell’aria di San Vittore Olona (Milano); Osteria «Sottovento» di Pavia; Libreria Liberamente di Oggiono (Lecco); Biblioteca Comunale di Pescate (Lecco). Traggo questo elenco dal sito www.legnanonews.com («Distilleria di contrabbando». Nuovo progetto discografico, 3 aprile 2010).
[7] Vd. Alchimie di emozioni tra poesia e musica: «Distilleria di contrabbando», marynowhere.com, 15 dicembre 2022.
[8] Dialogo sulla poesia. Cinque domande a Dario Bertini (laletteraturaenoi.it, 19 giugno 2017).
[9] Bertini gli ha dedicato la sua tesi di laurea in Lettere dal titolo Multipla una eco. La poetica dialogica di Ferruccio Benzoni (poetica e stilemi in Sguardo dalla finestra d’inverno) e ne ha poi curato il volume Con la mia sete intatta. Tutte le poesie, Marcos y Marcos, 2020.
[10] Il flusso di recitazioni chiamate a dar compimento alla parola poetica rientra così a pieno diritto nella bibliografia dell’autore, ne rubrica la parte performante, perlomeno i riverberi trattenuti dalla rete. Mi sembra utile contribuirvi con un piccolo repertorio. Il 4 maggio 2010 il nostro ‘poetattore’ è avvistato, «bello e ventiduenne», per dirla con Majakovskij, alla rassegna «Per certi versi…Pavia», organizzata dalla Biblioteca Civica «Bonetta» e dall’Osteria «Sottovento»; il 27 febbraio 2014 lo troviamo al «Circolone» di Legnano, dove poesie di Frequenze clandestine e dell’inedito Prove di nuoto nella birra scura si sposano, in consonante raucedine, al classico blues (piano, basso, batteria) dei Yellow Frogs; il 18 marzo 2015 guadagna la birreria con cucina di via Zumbini 6, a Milano, per la presentazione e il reading di Prove di nuoto nella birra scura; il 20 marzo 2015 la Sala del Camino di Palazzo Broletto, nell’ambito della rassegna «Poeti a Pavia»; il 28 marzo 2015 il «Black Bull Pub» di Pavia, per la serata «Poesie con Dario Bertini»; il 18 dicembre 2015 la rassegna milanese «Poeti a Brera»; il 20 maggio 2016 la libreria «Virginia e Co.» di Monza, per «un reading blues»; il 12 luglio 2016 «Umbria Poesia» (sezione «Poesia e Jazz»); il 17 giugno 2017 la «Passeggiata poetico musicale» di Chiaravalle – Vettabbia; il 27 giugno 2021 la Biblioteca «C. Alliaudi» di Pinerolo»; il 12 luglio 2021 la «Punta della Lingua» di Ancona; il 16 novembre 2021 la «Casa della Cultura» di Milano; il 6 dicembre 2021 la Fiera Nazionale della Piccola e media Editoria «Più Libri più liberi» di Roma, per la presentazione del XV Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea; l’8 novembre 2022, il Liceo Scientifico Statale «Edoardo Amaldi» di Alzano Lombardo, per un incontro nell’ambito del «Progetto Elzeviro»; il 26 ottobre 2023 l’atelier di Verdiana & Beniamina, in via Marco Polo 13, a Milano, per un Brindisi d’autunno in Sartoria. Incontri di musica e parole, con la fisarmonica di Stefania Carcupino, il violino di Giampaolo Verga, letture poetiche di Dario Bertini, in collaborazione con le Edizioni del Foglio clandestino; il 15 novembre 2023, ancora l’atelier di Verdiana & Beniamina, per l’incontro Il poeta è un clandestino? Trame, intrecci e risvolto. Riflessioni sulla poesia, promosso dalle Edizioni del Foglio Clandestino nell’ambito di BookCity. A questo quadro di insonne attivismo (intravisto per tempo, nella postfazione a Frequenze clandestine, dall’‘ostepoeta’ Andrea De Alberti, quando scrive «Dario Bertini non dorme mai. Lo vedresti arrivare col passo affrettato di chi ha qualcosa da dire, con i capelli sempre spettinati, oppure in qualche bar a leggere versi») vanno aggiunte altre medaglie. Penso soprattutto alla promozione del reading «Poesie al tavolino» (regolarmente tenuto, dal 2010, ogni ultimo sabato del mese, al «Black Bull Pub» di Pavia) e ai saggi di lettura devoluti a consanguinei: Ernesto Cardenal (il 9 marzo 2016, sempre al «Black Bull Pub» di Pavia); Irving Stettner (il 20 maggio 2016, alla libreria «Virginia e Co.» di Monza e il 19 luglio 2016 a «Umbria poesia»); Aleksandr Blok (il 25 dicembre 2017, al ristorante e bistrot «Rob de Matt» di Milano); Victor Cavallo (il 20 gennaio 2018, al «Bezzecca Lab» di Milano); Ferruccio Benzoni, (il 9 agosto 2020, alla Mole Vanvitelliana di Ancona, e il 28 giugno 2021, alla Biblioteca «C. Alliaudi» di Pinerolo).
[11] Vd. Angelo Maria Ripellino, Lettere e schede editoriali, a cura di Antonio Pane, introduzione di Alessandro Fo, Torino, Einaudi, 2018: 71. Vi si parla del libro di Kott su Shakespeare, «in cui l’opera del grande drammaturgo è considerata alla luce della situazione “assurdale” (come dicono i polacchi) del genere umano».
[12] Vd. Erica Gazzoldi – Le Porte dei Sogni, Frequenze clandestine (erica-gazzoldi.blogspot.com, ottobre 2012).
[13] Vd. Alberto Staiz, «Frequenze clandestine»: la seconda raccolta di poesie di Dario Bertini (www.wakeupnews.eu, 14 giugno 2012).
[14] Alberto Staiz (ivi) parla di «Poesie alcoliche che trasudano jazz e beat».
[15] Giustamente riproposto, a distanza di anni, in Il caffè della sala infermieri.
[16] Vd. Antonio Bux, Dario Bertini, un ragionato randagio (antoniobux.wordpress.com, 6 novembre 2015).
[17] Vd. Sara Comuzzo, Prove di Nuoto nella Birra Scura di Dario Bertini (medium.com/@5ara.bluesnow, 21 agosto 2020).
[18] Vd. Erica Gazzoldi – Le porte dei Sogni, Prove di nuoto nella birra scura (erica-gazzoldi.blogspot.com, febbraio 2015).
[19] Ripreso dai versi di p. 49 («ma i pesci in fondo hanno tutti ragione, | potresti anche capirli un giorno o l’altro, | e proprio perché non sai nuotare | sono prove di nuoto nella birra scura»), ma coinvolto anche con il «prova a pensare di abitare il fondo | di una bottiglia di moretti» di p. 17.
[20] Vd. Giorgio Linguaglossa, Commento impolitico, «L’Ombra delle Parole. Rivista Letteraria Internazionale» (lombradelleparole.wordpress.com, 3 giugno 2016).
[21] Vd. Gianni Montieri, Dario Bertini. Prove di nuoto nella birra scura, «Poetarum Silva» (poetarumsilva.com, 25 febbraio 2015).
[22] Vd. Frank Iodice, Prove di nuoto nella birra scura: poesie di contrabbando, «Il Salto della Quaglia» (www.ilsaltodellaquaglia.com , 10 novembre 2021).
[23] Vd. Davide Castiglione, Nel mondo sensibile: realismo empatico nella poesia italiana contemporanea, «Enthymema», XXV, 2020: 423-444 (le mie citazioni: 438-39).
[24] Vd. Lorenzo Colombo, Erba piange la giovane insegnante Veronica Fallini, aveva 43 anni (erba notizie.com, 4 novembre 2017). La notizia è replicata sul sito laprovinciadicomo.it (Erba piange Veronica Fallini Poetessa, insegnante e giornalista, 4 novembre 2017), con il corredo di uno scatto in cui la scomparsa è raffigurata durante la presentazione di Un respiro dietro l’altro.
[25] In una conversazione radiofonica con Guido Ceronetti (1970) Ripellino dichiara: «gran parte delle mia scrittura è diventata il vezzeggiamento di questo eterno malessere, da me trasformato in feticcio, in oggetto prezioso come un pezzo di rame» (ora in Angelo Maria Ripellino, Solo per farsi sentire. Interviste 1957-1977), con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), a cura di Antonio Pane, Messina, Mesogea, 2008: 36-38). La voce «malsanìa» ricorre nelle poesie n. 8 e n. 55 di Sinfonietta, n. 32 di Lo splendido violino verde, n. 51 di La fortezza d’Alvernia e (senza accento) in Poesia 59 (Non un giorno ma adesso).
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, Giacomo Debenedetti, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto, sono parzialmente raccolti in Il leggibile Pizzuto (Polistampa, 1999). Ha, inoltre, dato alle stampe le raccolte poetiche Rime (1985), Petrarchista penultimo (1986), Dei verdi giardini d’infanzia (2001). Fra i suoi lavori più recenti, i commenti integrali a Testamento e Sinfonia di Antonio Pizzuto (Polistampa, 2009 e 2012), i saggi Notizie dal carteggio Ripellino-Einaudi (1945-1977) (in «Annali di Studi Umanistici», 7, 2019), Bibliografia degli scritti di Angelo Maria Ripellino (in «Russica Romana», xxvii, 2020), Per Simone Ciani: un ricordo nel giorno della laurea (in «Annali di Studi Umanistici», IX, 2021) e la cura di volumi di Angelo Maria Ripellino (Lettere e schede editoriali (1954-1977), Einaudi, 2018; Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), Aragno, 2020; Fantocci di legno e di suono, Aragno, 2021; L’arte della prefazione, Pacini, 2022) e di Antonio Pizzuto (Sullo scetticismo di Hume, Palermo University Press, 2020).
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