Il fenomeno della riproposta delle attività e delle feste tradizionali è diffuso in Sicilia come altrove e si declina in maniera differente a seconda dei contesti. Promotori del recupero delle tradizioni sono, a volte, soggetti che agiscono sulla base di una reale conoscenza dei territori su cui operano, altre volte spinti da una concezione della cultura e dei suoi ‘beni’ quale merci da proporre sul mercato [1]. La riproposizione delle tradizioni, infatti, sempre più spesso è esito di decisioni e strategie di istituzioni che si collocano al di fuori del contesto interessato, senza ascoltare le istanze che provengono dal ‘basso’. Molti sono gli operatori culturali, mossi da interessi prevalentemente economici, che si prodigano per far rivivere o per inventare tradizioni [2] considerate a ‘rischio di estinzione’. D’altronde, le tradizioni ‘inventate’ possono intendersi come una risposta a momenti di crisi o di mutamento sociale. Il richiamo al passato serve allora per acquisire una forma di legittimità: come individuo, e soprattutto come comunità. Si fa pressante, però, anche la necessità di elaborare strategie di intervento che limitino il rischio di false spettacolarizzazioni.
La turisticizzazione del fatto folklorico è stata avvertita in ambito demologico sia come fattore di inquinamento delle manifestazioni tradizionali, sia come fenomeno su cui puntare proprio al fine di scongiurarne la scomparsa [3]. Valutare criticamente l’affermarsi del fenomeno turistico in determinati contesti può, talvolta, essere frainteso con la pretesa di voler lasciare alcune società nell’immobilismo. Come se condannare un certo tipo di speculazioni, praticate in chiave prettamente mercantile, equivalga automaticamente ad indugiare in atteggiamenti ingenuamente nostalgici, tesi a cogliere solo gli aspetti ‘romantici’ delle culture tradizionali.
Per affrontare il rapporto che intercorre fra gli studi etnografici e il turismo, va sottolineata l’attenzione che a questo fenomeno è stata prestata da più ambiti disciplinari. Sul fronte delle scienze umane e sociali, l’antropologia trova una sua particolare collocazione: come non considerare, infatti, che il turismo si configura quale spazio e tempo di un incontro con l’altro? Osservare questo fenomeno non può prescindere dal considerarlo quale momento di confronto tra culture e società che, entrando in contatto tra loro, stabiliscono (volenti o nolenti) un rapporto e un dialogo da cui, inevitabilmente, entrambe risultano modificate [4]. Il turismo, allo stesso tempo causa ed effetto del mutamento culturale, non può essere osservato solo in termini economici, in quanto esso è, in primo luogo, una pratica sociale. Nell’industria turistica si rivela quindi essenziale la comprensione dei mutamenti sociali, economici e culturali che interessano il territorio per programmare risposte efficienti alle domande della popolazione locale e dei potenziali fruitori [5].
Le Egadi, nella fase del turismo pionieristico, offrivano precari collegamenti e più che modeste strutture ricettive. Ma il mutamento è stato rapido e ha reso le isole una scelta turistica molto ambita, tanto che oggi si pone, al contrario, la questione di comprendere se la loro specificità possa trasformarsi nuovamente in fattore attrattivo per un turismo più consapevole. Favignana, Levanzo e Marettimo conservano tutt’oggi un ricchissimo e multiforme patrimonio culturale. Le attività economiche tradizionali, che si sono declinate in modo a tratti simile, a tratti differente, in ciascuna delle isole, sono l’esito di un processo storico-economico e culturale plurisecolare che ne ha costruito l’identità.
A seguito di uno sviluppo turistico non sempre ragionato e che ha lasciato anche profonde cicatrici sul volto delle isole, nell’ultimo decennio si è guardato con favore ad una promozione del territorio orientato soprattutto alla sua tutela e alla valorizzazione delle peculiarità naturalistiche e culturali, cercando delle vie di sviluppo che fossero altre rispetto al passato. Su Favignana si sono concentrati gli sforzi maggiori: mai come oggi, forse, in quest’isola è possibile riconoscere una località turistica che tenta di trovare una sua collocazione all’interno di un mercato globale, mantenendo (o, per certi versi, recuperando) le proprie tradizioni. Non è semplice affermare se questo sia possibile o se sia già troppo tardi; certamente è vero che tra le isole dell’arcipelago, la più grande è anche quella che ha conosciuto il maggiore sviluppo turistico e i cui abitanti si sono, forse per inerzia, lanciati in un mercato poco selettivo e tendenzialmente di massa. La direzione in cui si muovono gli esponenti delle istituzioni locali al fine di incrementare i flussi turistici è rivolta a un mutamento dei tipi di visitatori da attrarre in via prioritaria, privilegiando un turismo culturale o folklorico. L’offerta prevede l’accesso a quegli oggetti culturali che conferiscono specificità al luogo in cui sono (o sono stati) prodotti: gastronomia, artigianato, manifestazioni festive tradizionali, etc.. Viene dunque incentivata la fruizione di manifestazioni culturali riconducibili alla storia e all’identità del territorio e della sua comunità. Ciò talvolta comporta da un lato un attrito tra gli autoctoni e gli ospiti, che tra loro si contendono gli spazi della quotidianità e i servizi disponibili; dall’altro, si rischia di giungere perfino a mettere in scena una autenticità confezionata ad hoc per le aspettative presunte o che si intende creare nel turista [6]. Le manifestazioni qui osservabili sono un caso interessante per sondare gli effetti delle politiche di promozione sulle pratiche connesse alle attività tradizionali e/o alle ricorrenze festive. Risulta, dunque, cruciale porre attenzione a quei fenomeni di apparente valorizzazione, volti ad aumentare i benefici economici, anche a costo di una paradossale standardizzazione dell’immagine che intacca inevitabilmente l’attrattività dei luoghi.
Nelle Egadi sono nate numerose associazioni coinvolte nelle varie e multiformi iniziative che fanno da corredo ai vari momenti festivi che, recentemente, sono stati sempre più spesso accompagnati da sagre di prodotti alimentari ‘tipici’ o presentati come tali. Non a caso, è possibile riscontrare questo fenomeno in occasione di quelle feste che cadono nei periodi primaverili ed estivi (quando divengono più numerose le presenze turistiche). Degna di nota è certamente la rifunzionalizzazione dell’ex Stabilimento Florio divenuto, oltre che – come recitano diverse guide turistiche - «splendido esempio di archeologia industriale», luogo della memoria vivente, sede di numerosi congressi e momenti di incontro.
Nella valorizzazione della cultura tradizionale rientrano gli interventi volti a promuovere le attività connesse alla pesca del tonno. Nello specifico, la L. R. del 1998 ha previsto uno stanziamento di fondi a sostegno della mattanza; benché strumentalizzata anche da attori non locali al fine di accrescere l’interesse turistico, è indubbia la rilevanza che ha avuto quest’attività nella storia economica e culturale dell’arcipelago. Attestata già in età angioina (e iniziata certamente anche prima) nelle isole la produzione di tonno raggiunge l’apice tra il 1895 e il 1898, quando le tonnare sono acquistate da Ignazio Florio. È allora che al già grande numero di lavoratori si aggiungono anche diversi stagnini e manovali che lavorano nel reparto manifattura, reclutati tra la popolazione locale. Ma la crisi non tarda ad arrivare: già nel 1909 i fratelli Florio firmano un contratto con l’industriale genovese Parodi, che nel ‘34 entra in possesso delle tonnare, mantenendo in vita l’attività di pesca e lavorazione del tonno fino al 1985. Tra il 1985 e il 1996, chiuso lo stabilimento, la tonnara continua a funzionare sotto la guida della ditta trapanese Castiglione, anche se il numero di tonni pescati si è ridotto. Nel ‘97, circa quindici tonnaroti fondano la cooperativa ‘La Mattanza’, ricorrendo all’accensione di mutui e alla concessione di prestiti. La pesca continua per qualche anno pur con gravi difficoltà.
Nel 2003 inizia ‘un’altra storia’ e la cooperativa passa in mano ad un’imprenditrice che ne diventa presidente; ai tonnaroti spetta il ruolo di soci. Sono questi gli anni in cui prende spazio una concezione della cultura e delle sue manifestazioni come un prodotto da offrire sul mercato turistico, un prodotto su cui puntare. La mattanza, in quanto espressione di una cultura, viene coinvolta nelle logiche e nelle strategie di valorizzazione e promozione del territorio e comincia a diventare evento, spettacolo. La strategia che si tenta di attuare è l’esito di una posizione trasversale che riguarda sia gli operatori economici, sia gli esponenti della classe politica. Sarà lo stesso Assessore ai Beni Culturali di allora ad invitare a riflettere sulle dinamiche connesse alla valorizzazione dei beni materiali e immateriali, pur non negando il ventaglio di opportunità legate alla fruizione degli stessi beni ora immessi sul mercato. Nel 2005 così si presentava l’evento a pochi giorni dal suo inizio: «La tonnara […] diventerà […] un museo vivente […] per fare rivivere in diretta la storia e le emozioni della mattanza, uno spettacolo unico al mondo che attirerà migliaia di visitatori […] Faranno rivivere il fascino di un rito ancora intatto […] fatto di uomini semplici e veri, di storie tramandate nei secoli, di canti di tradizione araba che fungono da rito propiziatorio»[7].
È in questa occasione che a Favignana ha luogo una vera e propria messa in scena della mattanza: basti pensare alla decisione degli organizzatori di far indossare ai tonnaroti abiti in iuta e lino esibiti come tradizionali. Di lì a poco i fondatori abbandonano la cooperativa e nel 2008 si svolge l’ultima mattanza a Favignana. Alla crisi del mercato e ai problemi dipendenti dalla gestione della tonnara si sono poi aggiunti aspetti che hanno reso sempre più difficile questo tipo di pesca: non ultimo l’accelerato mutamento dell’ecosistema del Mediterraneo che ha modificato i cicli biologici di flora e fauna.
Un ulteriore passaggio è costituito dagli eventi degli ultimi mesi, in cui è stata resa nota (non senza controversie) l’intenzione di ripensare ad una ‘nuova’ riproposizione della mattanza, prospettando una ripresa della pesca del tonno e delle attività ad essa legate lungo la costa favignanese. Dopo molti anni, nel 2013 si è svolta un’anticipazione del Festival delle Egadi e, proprio all’interno del convegno previsto, si è deciso di trattare tematiche quali la plurisecolare storia del tonno e delle tonnare, tentando di legittimare ‘dall’alto’ la ripresa della mattanza, anche mediante interventi di carattere scientifico.
La relazione quasi totalizzante esistente tra Favignana e la pesca del tonno rimane ancora parte integrante della rappresentazione che gli abitanti hanno dell’isola e di se stessi. Questa relazione ha contribuito alla costruzione di un’immagine in cui non solo identificarsi, ma anche da proporre all’esterno quale tratto caratterizzante di un’intera comunità.
È doveroso interrogarsi sulle ragioni endogene ed esogene che hanno spinto questa comunità a fare di quella che ne è stata l’attività di sussistenza principale, una bandiera da esporre e sventolare davanti a chi della comunità non fa parte. La pesca del tonno aveva già perduto ogni sua reale funzione economica e la mattanza ha finito col divenire (o è stata confezionata come tale) un mero attrattore turistico, una messa in scena a tutti gli effetti. Al di là del reale rientro economico, attorno all’evento si sono costruite autorappresentazioni della comunità che, davanti alla ri-presentazione annuale di quei tratti della memoria collettiva anche inconsapevolmente selezionati, ha riconosciuto se stessa delimitando il confine tra il noi e il loro [8]. La mattanza ha esercitato, dunque, una forza centripeta innanzitutto per e nella comunità; una comunità che si è sentita pronta ad offrire all’esterno il proprio tratto distintivo. Tuttavia, non mancano coloro che, pur fieri di essere Favignanesi ed ostentando orgoglio per l’attività tradizionale che storicamente li ha accompagnati, definiscono l’evento mattanza come una «carnevalata». Essi sono consapevoli di quell’aspetto inautentico che ha caratterizzato le ultime mattanze e pertanto hanno vissuto quei momenti come la dissacrazione di un rituale; una frantumazione della propria identità. Quanto detto è vero soprattutto per i più anziani e per coloro che possiedono ancora il ricordo della pesca di un tempo. C’è da chiedersi, però, quale possa essere la rappresentazione che della mattanza così ‘messa in scena’ si sono fatti i più giovani. Dai colloqui effettuati sul campo, pare che emergano posizioni differenti. Vi sono coloro che in virtù di quanto trasmesso da padri e nonni, comprendono e conoscono la differenza tra passato e presente; alcuni di loro valutano positivamente anche gli aspetti meno ‘autentici’ della mattanza più recente, ritenendoli pur sempre una legittima strategia per presentificare il passato; in altri, proprio alla consapevolezza della ‘messa in scena’ si accompagna una disillusione che si traduce in un disinteresse sia per l’evento, sia, più in generale, per la realtà storica a cui rimanda. Infine, vi sono coloro per i quali tale disillusione ha condotto ad un disinteresse solo per il passato, mentre si è accresciuta l’attenzione per lo spettacolo, in relazione a quanto la sua fruizione esterna e la sua forza attrattiva per i turisti potessero rendere in termini economici. Un dato da segnalare, dunque, pare essere che non tutti i Favignanesi pensano alla mattanza allo stesso modo, e non tutti vi si identificano o vi ritrovano tout court il ‘luogo’ della memoria.
Come si è cercato di illustrare, le iniziative proposte e attuate per promuovere il territorio, talvolta, non provengono dalla comunità, ma sono piuttosto frutto di negoziazione tra soggetti esterni mossi da interessi differenti. In uno scenario già complesso, particolarmente delicata è la questione che riguarda le attività tradizionali: in questo ambito si è molto giocato sulla mercificazione dell’immagine del tipico, dell’autentico’da promuovere a tutti i costi sul mercato. La mattanza, concepita come ‘evento culturale’, si configura come un caso emblematico del fallimento di queste strategie. Probabilmente le ragioni di tale insuccesso sono dovute anche ad un incauto sfruttamento delle risorse immateriali del territorio (la memoria collettiva, le reti di relazioni, la cultura in genere). Si ritiene, però, doveroso prendere atto del fatto che taluni aspetti delle tradizioni abbiano smesso di rispondere alle istanze di una parte della comunità. Bisognerebbe individuare, ora, quali siano quei tratti che oggi non vengono più percepiti come rappresentativi e quali invece quelli che continuano (pur nel loro naturale processo di trasformazione) a rispondere al bisogno di ‘costruzione’ e ‘ri-costruzione’ dell’identità individuale e comunitaria. È uno sforzo, però, che non deve avere come obiettivo primario la promozione in chiave turistica di questi tratti. A manifestazioni spontanee seguirà, si auspica, un turismo da considerare a questo punto come una felice conseguenza. Il profitto principale deve essere costituito dal miglioramento della qualità della vita, dal rafforzamento del senso di comunità e non dal mero orientamento al denaro.
Cessare di considerare i beni culturali alla stregua di merci, evitare di mitizzare il turismo come unica risorsa economica e non supportare la cultura esclusivamente in funzione della domanda turistica potrebbero essere le premesse per una sana valorizzazione del patrimonio locale. A questo scopo, utili possono risultare più che le figure di imprenditori o esperti di marketing, coloro che siano in grado di cogliere davvero i tratti specifici del territorio e di interfacciarsi con la comunità. La responsabilità di questi soggetti è indubbia, in quanto a loro si richiede di cogliere alcune dinamiche non sempre visibili a occhio nudo; un impegno che riguarda non solo il piano materiale, ma anche e forse soprattutto quello etico. A chi affidare questo ruolo? Esclusivamente a soggetti che sono parte della comunità, ritenendo che solo questi siano in grado di interpretarne i bisogni? O è forse legittimo ritenere che proprio perché troppo coinvolti ‘emotivamente’ e ‘culturalmente’ nelle dinamiche locali, questi corrano rischi che ad altri sarebbero risparmiati? Non si dispone di una risposta certa e univoca a queste domande. Certamente lo sguardo dell’antropologo può e deve offrire il proprio contributo nella lettura dei segni di un territorio. Un dialogo tra la comunità ed alcuni soggetti ‘esterni’ sembra non solo possibile ma anzi auspicabile; solo se ascoltati, infatti, gli autoctoni si sentono davvero rappresentati. In molti casi, sembrano non mancare quelle risorse necessarie ad accompagnare un processo di sviluppo che sia coerente con la propria storia.
Perché la valorizzazione ed il rispetto per le tradizioni non si trasformino in infruttuose e nostalgiche apologie di un tempo lontano, la speranza è da riporre nella nostra curiosità, nella nostra voglia di conoscere, non solo noi stessi attraverso le nostre radici, ma più semplicemente ciò che, nel presente e nel passato, costituisce l’altro; ciò che va scoperto ed osservato per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse. Finché alcuni operatori culturali, mascherati da intellettuali o ‘esperti del settore’ saranno tentati di trasfigurare culture materiali e immateriali in una versione appetibile per il turista e che alle sue aspettative si adegui, non ci si potrà rassicurare pensando di aver preservato la memoria collettiva, né di aver trasmesso una seppur minima parte di sé a chi osserva dall’esterno.
Dialoghi Mediterranei, n.6, marzo 2014
Note
1 Bravo, G. L. (2005) La complessità della tradizione. Festa museo e ricerca antropologica, FrancoAngeli, Milano.
2 Hobsbawm, E.J., Ranger, T. (1994) L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino
3 Lombardi Satriani, L. M. (1973) Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura, ed. Guaraldi, Firenze- Rimini; Lanternari, V. (1977) Folklore e dinamica culturale. Crisi e ricerca d’ identità, Liguori, Napoli.
4 Simonicca, A. (1997) Antropologia del turismo. Strategie di ricerca e contesti etnografici, NIS, Roma.
5 Guidicini, P., Castrignano, M. (2002) Antropologia di un luogo turistico, FrancoAngeli, Milano; Nocifora, E. (1997) Turismatica. Turismo, cultura, nuove imprenditorialità e globalizzazione dei mercati, FrancoAngeli, Milano.
6 Savelli, A. (2002) Sociologia del turismo, FrancoAngeli, Milano; MacCannell, D. (1973), Staged Authenticity, in “American Journal of Sociology”, vol. 79, 3, pp. 589-603.
7 Giornale di Sicilia del 26 maggio 2005.
8 Buttitta, I. E., Palmisano, M. E. (a cura di) (2009) Santi a Mare. Ritualità e devozione nelle comunità costiere siciliane, Regione Siciliana, Palermo.