Introduzione
All’interno della densa e approfondita introduzione di Erik Aerts, che fa da cornice concettuale al ciclo di relazioni e comunicazioni della «Quarantatreesima Settimana di Studi» ospitata dalla Fondazione Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”, avente titolo «Religione e istituzioni religiose nell’economia europea. 1000-1800» [1], verranno approfondite quelle comunicazioni, espresse al convegno, che si possono inquadrare sotto due dei tanti criteri d’indagine proposti e delineati dalla suddetta introduzione: «Domanda e consumi» e «Credito e interesse».
Queste due lenti esplorative emergono nell’introduzione da circostanziati resoconti storico-economico-sociali del quotidiano, così come vissuto da XI secolo in poi, ovvero nel momento del passaggio dalla cosiddetta economia curtense a ciò che conosciamo oggi come economia di mercato, avvenuto inizialmente dentro quelle città che, anche se separate con alte mura da un paesaggio circostante prevalentemente agricolo e silvestre, costituivano un vero e proprio laboratorio e banco di prova per il nascente orizzonte di scambi e cambiamenti di ogni genere: culturale, economico ed ideologico.
È proprio entro quelle mura che si formò e prese corpo, con il beneplacito delle istituzioni religiose cattoliche, uno dei tanti nuovi mondi: quello del «mercato» [2]. Il nesso causale, storicamente attestato, che correla la domanda e i consumi con il credito e l’interesse in questo particolare periodo di transizione, è quello della scarsità di un controvalore materiale da utilizzarsi negli scambi non più in natura: il metallo prezioso sotto forma di moneta.
L’ingegno umano, si sa, è multiforme: la risposta a una tale garanzia rappresentata dalla moneta già in epoca romana, dove era l’estensione territoriale dell’impero che copriva territori ai quali sottrarre tali metalli per garantirne l’approvvigionamento necessario al conio, fu cambiare la percezione del futuro. Da entità temporale indefinita, e pertanto teologicamente infinita, appartenente alla divinità venne pian piano trasformato, anche grazie ad un atteggiamento molto più pragmatico delle istituzioni religiose, che videro in ciò nuovi e più redditizi strumenti per il «governo delle anime» [3], in entità finita, pianificabile e quindi, in alcuni casi, ipotecabile.
«… la religione è intrinsecamente trainata dal consumo perché è strettamente legata al desiderio» [4] . Tale affermazione acquista senso e prospettiva reali, se interpretata attraverso ciò che le moderne neuroscienze hanno dimostrato biologicamente e cioè che il desiderio risulta essere il correlato principale di ciò che in psicologia viene definito circuito della ricompensa. Questa considerazione rischia però di essere fuorviante poiché, se presa alla lettera, scambia la causa, il consumo, con l’effetto: la religione.
Perché nel periodo preso in esame, quello cioè del passaggio da economia curtense a economia de mercato, fino all’inizio della cosiddetta secolarizzazione, cioè fino al XIX secolo, nel quale le riflessioni sulla spiritualità maturate dal XVI secolo in avanti sia in ambienti cattolici – Erasmo fra tutti, sia in ambienti riformati, con Lutero, Calvino e Zwingli come capisaldi – hanno spostato quasi completamente la religione dal correlato della sfera sociale a quello della sfera individuale; coloro che materialmente si sono costituite come uno degli attori, e motori, principali del nuovo orizzonte dello scambio tra domanda e offerta, sono state le istituzioni religiose.
Grazie al loro interpretare pragmaticamente la cangiante realtà effettuale della società e della politica, dei bisogni individuali e di quelli sociali, le istituzioni religiose hanno trasformato tale interpretazione in una fiorente e multiforme precettistica, tagliata e cucita addosso a ciascuna delle compagini umane connesse a tali istituzioni. Sono esse quindi a determinare, all’interno di un preciso quanto singolare scambio causa-effetto da considerare in entrambe le direzioni, tra popolo e clero e/o gerarchie ecclesiastiche, il sorgere e il declinare della domanda economica riferita allo stile di vita dei singoli come principali destinatari di tale precettistica e a quello della società che questi vanno costituendo.
Come giustamente ricordato da Aerts [5] le istituzioni religiose europee stimolarono la domanda di consumi in molti e articolati modi: attraverso l’alternanza precettistica «lecito-proibito», la richiesta di creazione di manufatti mobili e immobili e in genere di tutte le forme di produzione artistiche. Ma anche con quella che, come vedremo in seguito, sarà definita economia della salvezza. Tutto ciò ha generato per secoli, ciò che oggi definiamo «indotto»: ossia «quell’insieme delle attività economiche che un’industria o un’impresa genera in altri settori produttivi o imprese» [6] .
In ambito di consumi alimentari, un’ampia e circostanziata indagine storiografica su come ciò sia avvenuto in ambito cattolico, anche per bisogno di differenziazione identitaria dalle altre due religioni del Libro, la troviamo in Montanari [7]: il medievista e storico dell’alimentazione traccia un percorso di secoli, attraverso usi e consuetudini alimentari derivanti dalla libera o puntuale osservanza della precettistica religiosa. Da queste storie di abitudini alimentari risuona, come ovvio che lo sia, anche il continuo eco dell’universo della fame [8]: anche qui le istituzioni religiose finivano per generare quella che Erik Aerts definisce economia della salvezza, attraverso una numerosa e variegata pletora di congregazioni e servizi, ben strutturati, specializzati ciascuno nell’aiuto puntuale e nel sostentamento a medio e lungo termine di nutriti gruppi di persone: malati e disabili, anziani, orfani, bambini abbandonati e adulti indigenti, lavoratori caduti in miseria o non più abili al lavoro a causa di incidenti nell’esercizio dello stesso o per malattie cosiddette professionali ed altre categorie di esseri umani che per varie motivazioni non erano in grado di provvedere a se stessi.
Per tutte queste persone, in Europa, alla fine del XVIII secolo, in città come Liegi, Tournai o Anversa, con popolazioni variabili dai 20 mila ai 45 mila abitanti si contavano da 30 a 45 istituzioni religiose dedite all’assistenza materiale; a queste si andavano ad aggiungere quelle che nascevano privatamente su ispirazione religiosa. Queste ultime si fondavano parte per ispirazione di pietà e parte come calcolo spirituale con il quale il benefattore o la benefattrice sperava di acquisire meriti per la salvezza della propria anima. Indipendentemente dalle motivazioni con cui nascevano e si moltiplicavano, queste industrie della salvezza reciproca finivano comunque per generare consistenti volumi di scambi commerciali dovuti all’acquisto di beni, mobili e immobili, e servizi, di vario genere e natura, destinati all’attività assistenziale. E quello della salvezza dell’anima è il tema che ci accompagna alla successiva lente d’indagine: mutuo e usura o più pragmaticamente «credito e interesse».
Credito e interesse
La storia dell’odio e del disprezzo che ha accompagnato il prestito con interesse è tanto antica quanto lo è il controvalore delle merci tangibili e intangibili in generale. Nella cultura classica i filosofi, come Platone e Aristotele, condannarono esplicitamente l’usura diffusa nella polis greca. Proprio quest’ultimo nell’Etica Nicomachea la considerava una categoria morale da disprezzare, affermando che solo dal lavoro umano o dal suo intelletto nasce la ricchezza, mentre quella generata dal denaro fosse soltanto dannosa. Nell’Antico Testamento il divieto delle usure si trova chiaramente e ripetutamente formulato. Nel libro dell’Esodo si legge «… se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse…», nel libro del Deuteronomio «non farai a tuo fratello prestiti ad interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta ad interesse. Allo straniero potrai prestare ad interesse, ma non a tuo fratello».
Ma non è soltanto nella tradizione biblica che troviamo affermato tale divieto: non è da meno il Corano, che ha visto la luce circa dodici secoli dopo il Pentateuco ma in contesti simili, visto che il primo pubblico al quale il testo maomettano si rivolgeva era essenzialmente composto da popolazioni giudaiche e cristiane: esso contiene norme essenzialmente identiche nei contenuti a quelle sopra citate.
Con l’affermarsi della setta giudaico-cristiana e con la ricezione di gran parte della filosofia stoica, ellenica prima e latina poi, l’argomento viene trattato da un punto di vista nuovo e interessante, anche se tale punto di vista resterà, per i secoli a venire, frainteso e appiattito sulle posizioni aristoteliche e veterotestamentarie, così da costituire utile strumento di quel governo delle anime di cui abbiamo parlato prima.
Il nuovo punto di vista era il passo del Vangelo di Luca nel quale si leggeva «date a mutuo senza sperarne nulla». Da questa massima, così lapidaria nella forma e così estrema nella sostanza, parve che all’interprete non fosse lasciato alcuno spazio, che fosse per lui giocoforza riconoscere che il mutuo non poteva che essere gratuito, che ogni usura per quanto lieve fosse irrimediabilmente da illecita e disprezzabile. «Parve» appunto. Questo potrebbe essere un buon esempio di bias cognitivo: la scienza che oggi studia i processi mentali del giudizio evidenzia come non importi quanto sia neutrale la presentazione iniziale delle informazioni; le persone tendono a riprendere gradualmente gli stereotipi e le associazioni prevalenti nella propria cultura, quelle di secoli di letture veterotestamentarie e di filosofia aristotelica, e a proiettarle sui nuovi dati. Fa parte dell’essere umano. Tendiamo a interpretare nuove informazioni classificandole, usando conoscenze che già abbiamo, anche se falsate dai pregiudizi. Le ricerche che confermano ciò che per noi è ovvio ci appaiono corrette, mentre tutto ciò che lo contraddice viene congedato come un’eccezione alla regola. Non importa quindi che la vulgata latina, che Girolamo fece dell’originale di Luca, scritto nel greco della koinè, diceva «mutuum date nihil inde sperantes». Eppure sembrò trattarsi di una scelta ponderata, che dava al testo un significato rigoroso: giacché nell’istituto romano del mutuo non vi poteva essere differenza quantitativa tra pecunia data e pecunia restituta, sicché quel «nihil» che Girolamo scrisse non poteva riferirsi all’usura ma alla stessa «pecunia mutuata». Del resto, appena prima, Luca aveva scritto «se date a mutuo a coloro da cui sperate di ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori danno a mutuo ai peccatori per ricevere altrettanto in restituzione» [9].
A questo punto il senso del divieto evangelico è, a rigor di logica, molto chiaro: si deve essere disposti a dare mutuo senza sperare di ricevere nulla in restituzione, nemmeno la somma prestata. È evidente che in Luca non si evidenzia un precetto giuridico: ossia che il ricevere un interesse insieme alla restituzione del prestito fosse cosa illecita. D’altronde, se lo avesse scritto, sarebbe caduto in contraddizione con se stesso, se vero è che nella parabola detta «delle mine» il servo infedele viene condannato dal suo padrone proprio per non avergli consentito, al suo ritorno, di esigere dal banchiere la restituzione cum usuris del denaro depositato [10]. Mutatis mutandis, il ragionamento etico dell’insegnamento evangelico di Luca poggia su consuetudini lecite prese ad esempio dalla vita di tutti i giorni. Resta tuttavia certo che la lettura di questo passo di Luca, recitata per secoli, fu quella che riduceva un’etica così innovativa, a semplice divieto dell’usura.
Ma se l’innovativo precetto evangelico veniva soppiantato da secolari e più durevoli convinzioni etiche, ancora una volta è la realtà effettuale a spingere le istituzioni religiose, fulcro e tessuto di tutto l’Occidente fino al XVIII secolo, a trasformare pragmaticamente la semantica dei valori adattandola alle necessità contingenti: se l’usura rappresenta un dilemma morale, si può vestire di nobiltà l’interesse. Soprattutto perché la proibizione dell’interesse creava un enorme problema per la stessa istituzione religiosa che la imponeva come dogma, visto che essa per prima aveva accumulato potere e ricchezza.
Proprio la Chiesa Cattolica già in epoca romana cominciò ad entrare in possesso di edifici e terre grazie alle offerte, a doni, alle donazioni, ai legati testamentari e ai redditi privati del clero e poiché, in ragione delle disposizioni dell’Editto di Milano del 313 e.v. prima e del primo Concilio di Nicea del 325 e.v. poco dopo, le proprietà acquisite non dovevano più essere divise tra numerosi eredi, finendo rapidamente per accumularsi. Queste enormi ricchezze, gestite da vescovi e abati, contrapposte all’approccio etico-teologico che disprezzava l’interesse, cominciarono ad essere percepite come un problema: i gestori di tale patrimonio, preoccupandosi oltremodo delle rendite di capitali totalmente immobilizzati, finivano per calpestare le stesse regole che andavano predicando.
Ma in quella culla di finezza intellettuale e capacità definitoria che è stato il medioevo del diritto, dove grazie alla logica scolastica dell’analogia, in particolare attraverso il procedimento «de similibus ad similia» [11], si riusciva a rimodellare le norme del Digesto sulle consuetudini e sulla prassi quotidiana [12], si cominciò a immaginare come armonizzare il concetto d’interesse con gli interessi di chi deteneva il capitale. Già a partire dal XII secolo giuristi come Cino da Pistoia [13] e Bartolo da Sassoferrato [14] cominciarono a delucidare concetti come pœna detentori o conventionalis, penalità per la ritardata restituzione; il lucrum cessans che riguarda il diritto a pretendere lo stesso profitto che si sarebbe ottenuto in situazioni analoghe o se si fosse impiegato il capitale in altri investimenti, paragonandolo a un mancato guadagno; lo stipendium laboris, il compenso per la gestione del credito stesso da parte del creditore; il periculum sortis, il rischio di perdita del capitale prestato non vedendoselo restituito così da rendere consuetudine l’inclusione di terzi, i mallevadori, nelle carte notarili; il tasso legale emanato dal potere costituito, il titulus legalis e la ratio incertidudinis che fa il paio con il periculum sortis.
E siccome diritto civile e diritto canonico erano indissolubilmente interconnessi ed elaborati insieme nei centri europei del sapere giuridico come Bologna e Orléans, ecco che cominciamo a trovare questi concetti nel Libros legum renovavit e nella Summa decretalis del vescovo di Ostia Enrico da Susa [15]; in questi ultimi la raccomandazione dell’Ostiense è quella che tra le regole e i principi del diritto romano saranno da scegliere quelli che meglio si armonizzano con l’ordinamento canonico. Recita Giacomo Todeschini:
«Le eccezioni al divieto di usura tipiche del diritto canonico fra XII e XIII secolo consentono di chiarire che il crimine usurario era definito nel discorso giuridico e teologico medievale assai meno chiaramente delle transazioni creditizie lecite e legittime. Una analisi ravvicinata del testo, per mezzo del quale nel Duecento, il Cardinale Ostiense valuta il peccato/crimine di usura, mette in evidenza, al di là degli equivoci e dei luoghi comuni storiografici sull’oggettività della natura criminosa dell’usura nel Medioevo, il nesso fortissimo esistito fra ruolo sociale di coloro che partecipavano al mercato e significato etico e giuridico delle loro pratiche creditizie» [16].
Sul fronte del governo e della salvezza delle anime i teologi rispolverarono, sempre a partire dal XII secolo, il concetto di purgatorium, una media res tra l’inferno della condanna definitiva e il paradiso della salvezza anch’essa definitiva, che relativizza la punizione in funzione di azioni pre o post mortem, queste ultime agite mediante la prassi testamentaria. Usurai, mercanti, banchieri e in genere tutti i ricchi della terra, un tempo destinati alla dannazione eterna, potevano da adesso espiare la propria condanna in purgatorio in misura proporzionale ai loro peccati. Nasce così un ulteriore indotto: «l’economia della salvezza dell’anima». Questo nuovo eccezionale concetto di immediato logico riflesso nella spiritualità delle genti aveva ricadute poderose anche sulla quotidianità terrena, creando stretti legami di solidarietà tra il morto e i viventi [17]. Con le loro preghiere e opere di misericordia, ma anche e soprattutto con la loro generosità finanziaria quest’ultimi potevano abbreviare le sofferenze dei primi. Anche gli usurai potevano evitare il supplizio eterno se si mostravano pentiti e restituivano la ricchezza accumulata nel tempo grazie agli interessi sui prestiti, i male ablata, anche dopo la loro morte grazie a speciali clausole testamentarie: la restituzione dei male ablata.
Sempre Todeschini [18] invita a riflettere sulla portata che, anche da un punto di vista quantitativo, questo fenomeno ebbe sia sugli aspetti strettamente economici sia su quelli etico-sociali. A partire dalla metà del XIII secolo, infatti, si assiste ad una vera e propria moltiplicazione di testamenti di usurai pentiti, sia in Italia sia in Europa, al cui interno sono contenuti legati per la restituzione di male ablata. Allo stesso modo, si assiste ad un aumento dell’attenzione riguardo al tema delle restituzioni tanto nei canoni quanto nei trattati di stampo etico-economico, soprattutto di matrice mendicante. Tra le maggiori personalità, infatti, si annoverano famosi esponenti degli Ordini Mendicanti [19], nelle cui opere è dedicato ampio spazio alla materia della restituzione e le dottrine sull’usura e sul giusto prezzo sono funzionali a tale materia, cosa che è dimostrata anche dallo spazio dedicato alla restituzione nella struttura di queste opere.
E così, contrariamente all’insegnamento di Guillelmus de Ockham, gli enti, e gli istituiti economici, si moltiplicarono eccome: a partire dalla moneta che finalmente può generare altra moneta, al purgatorio che incrementa il mercato delle indulgenze e delle pratiche notarili, per finire all’istituzione religiosa stessa, che finalmente può godere in pace e serenità che dona un retto comportamento, guardando senza sentirsi in colpa, il moltiplicarsi delle proprietà e delle rendite finanziarie.
A conclusione di questi due paragrafi si possono già avere informazioni sufficienti per valutare il come e il quanto religione ed economia siano strettamente funzionali l’una all’altra. Nei prossimi brevi paragrafi conosceremo la sintesi di alcuni fenomeni economici che vedono nella religione la loro ragion d’essere.
Devozione e risorse monetarie: aspetti del finanziamento degli edifici religiosi tra Medioevo e età Moderna
Abitando in Europa, abituati come siamo a muoverci tra chiese, cattedrali, conventi, monasteri raramente ci chiediamo come e con quali risorse finanziarie sia stato possibile edificare questo immenso patrimonio immobiliare, unico al mondo per varietà e numero, destinato al culto religioso cristiano nei suoi molteplici aspetti. La comunicazione della storica Maria Grazia D’Amelio e dello storico Manuel Vaquero Piñero [20] tenta di tracciare le prime linee d’indagine per avere un quadro esaustivo sul meccanismo di finanziamento delle cosiddette fabbriche religiose, cioè quegli organismi multiformi deputati a progettare, edificare e completare ogni sorta di immobile destinato o correlato al culto religioso, oltre a reperirne i fondi necessari per tali opere e per la manutenzione successiva al completamento.
La prima cosa che emerge da questo resoconto è che non esiste un solo meccanismo di finanziamento, ma diversi enti e personalità concorrono a partire dalle spinte più diverse a finanziamento di tali opere. Un primo impedimento che viene segnalato è che non sempre i resoconti di tali avventure immobiliari sono presenti: perché andati perduti o di difficile reperimento. Da quelli reperibili si delinea però una molteplicità di soluzioni atte al reperimento dei finanziamenti in base alla committenza che poteva essere statale, privata laica o confessionale, o finanche diverse forme di commistione di tali enti.
Stando ai ricercatori un ipotetico punto di discontinuità tra le modeste imprese di realizzazioni di edilizia religiosa si ha nei secoli XI-XII dove le modeste seppur pregevoli edificazioni di pievi necessitanti di una quantità poco impegnativa di risorse lasciano il posto ai grandi e mastodontici progetti di costruzione di fabbriche religiose che, rispetto al passato, si differenziano dalle precedenti, non solo per l’ipertrofia delle dimensioni e per una diversa ed estesa articolazione della spazialità, ma anche per le multiformi modalità di raccolta e utilizzo delle risorse economiche. Queste prime estese imprese edilizie erano principalmente legate ai committenti, siano essi centri di potere religioso come le abbazie oppure signori medievali, i quali, per garantire alla fabbrica un finanziamento utile al completamento che avrebbe a sua volta decretato il prestigio imperituro della committenza nonché i giusti meriti nell’aldilà, ricorrevano ai propri patrimoni, imponendo una gestione personale e perpetuando così con lo splendore finale dell’opera la propria memoria di benefattore.
Tra il XII e il XIII secolo il panorama dei committenti segnala l’affacciarsi alla scena delle costruzioni di grandi e magnificenti edifici religiosi delle oligarchie mercantili di area italiana e tedesca destinate a soppiantare il potere delle istituzioni religiose che da promotrici dell’edilizia ecclesiastica si trasformano in affidatarie dell’opera compiuta. Se ancora per breve periodo il committente è ancora il vescovo, la costruzione del duomo diventa prerogativa del potere civile che nomina gli ufficiali preposti al governo del cantiere, contrattando ingegneri progettisti e maestranze.
Oltre che dai patrimoni dei maggiorenti cittadini queste opere sono finanziate dalla captatio benevolentiæ: prestare la propria opera o destinare i propri beni in vita o post mortem alla fabrica o opera significava acquisire meriti certificati per sconti di pena per i propri peccati nell’aldilà ed esenzioni fiscali nell’aldiquà. L’istituto giuridico «ad usum fabricæ», ovvero destinato ad essere utilizzato nella fabbrica, era una disposizione fiscale per i beni esentati da ogni dazio, perché finalizzati alla costruzione delle cattedrali. Allo stesso modo contrassegnava l’esenzione in misura corrispondente dalle imposte per la persona fisica o l’ente che prestava gratuitamente la propria opera in favore dell’impresa edilizia.
Come visto queste Opere non vanno viste come rigide strutture direttive, ma piuttosto come organismi dinamici per composizione, cangianti per passaggi di potere e molto invasivi quando si tratta di reperire nuove forme di finanziamenti. Tra queste ultime spiccano la fiscalità diretta e indiretta imposta dal potere civile, le decime dei pellegrini e dei fedeli residenti e i legati testamentari di chi, ancora una volta, ambiva a meriti da vantare in sede di giudizio universale. Questa partecipazione spontaneamente e meno spontaneamente agita, fece sì che tali magnifiche opere diventassero inevitabilmente vanto identitario della componente laica della comunità cittadina che partecipandovi a vario titolo e con varie risorse finiva per esercitare il controllo sull’edificio più rappresentativo della città.
Dal XVI secolo in poi con il consolidamento delle monarchie nazionali, l’assolutizzazione del potere investì di fatto anche l’edilizia religiosa che confluì inderogabilmente nell’edilizia pubblica, necessaria al vanto dei regnanti di turno. Non si spegne però, nel caso di chiese e cattedrali edificate dalle case regnanti, la motivazione religiosa dell’acquisizione di meriti: spirituale, di fronte ai sudditi quale consolidamento della corrispondenza «divinità-maestà», e di contrattazione, nei confronti della concorrente istituzione religiosa nazionale. Questo non significa che le case regnanti si siano impegnate per intero nel finanziamento delle fabbriche: vuol dire semplicemente che si sono sostituite ai Comuni e alle Signorie nel controllo e la gestione finanziaria delle opere. I finanziamenti continueranno a pervenire essenzialmente secondo i canali visti precedentemente: patrimoni personali, fiscalità diretta e indiretta, donazioni in beni e/o servizi, più o meno in cambio di defiscalizzazione, legati testamentari, etc.
Ciò che resta invariato e che illumina anche in questo caso lo stretto rapporto tra religione, come motore, ed economia, come azione, sono gli assi lungo i quali si è snodata l’economia dell’edilizia religiosa: quella dei meriti per il purgatorio e quella del vanto di una religiosità operosa spendibile sulla terra.
L’istituzione della cessione dei monasteri ortodossi nella Creta del XVI e XVII secolo e il suo contributo alle attività economiche degli ambienti circostanti
Contrariamente a quanto visto precedentemente, il caso di Creta [21], territorio bizantino fino al XIII secolo e veneziano fino alla seconda metà del XVII secolo, edificare chiese e monasteri era raramente un’azione dell’istituzione religiosa, cattolica nel caso del Patriarcato Latino di Costantinopoli, o ortodossa rappresentata dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli – Nuova Roma. Questo perché nei periodi sopra evidenziati è particolarmente significativo il numero di monasteri privati con chiesa annessa, facenti parte dei vari possedimenti feudali.
È proprio negli anni del dominio della Serenissima che si assiste ad un adattamento della politica veneziana nei confronti del maggioritario dogma ortodosso; questo contrariamente ad altre espressioni marcatamente intolleranti, tenute dalla repubblica marinara in altri suoi possedimenti. Grazie a tale politica ha inizio una nuova epoca per i monasteri dell’isola che porta alla fondazione di nuovi, o alla riorganizzazione degli esistenti.
Ciò che importa sottolineare, secondo le lenti d’indagine del presente contributo, è che molti di questi nuclei, di nuova edificazione o preesistenti, si trasformeranno in veri e propri centri economici, creando ciascuno una piccola rete di centri minori ad essi subordinati con annessi monasteri più piccoli, chiese e cappelle. Gli iniziali proprietari di questi preesistenti monasteri ortodossi erano le grandi famiglie nobili di origine veneziana o cretese, signori locali e proprietari terrieri privi di titolo nobiliare.
Il sistema di gestione di tali monasteri deriva direttamente da quello in uso in molti centri italiani di epoca medievale: tali centri ecclesiastici potevano essere ceduti dai fondatori o da chi ne avesse acquisito successivamente la proprietà ad un abate da loro scelto e in cui riponevano la propria fiducia garantiti dall’istituto giuridico dello Ius patronatus [22] fondato sui diritti ereditari, di carattere spirituale, amministrativo e di gestione esercitati sul patrimonio ecclesiastico o monasteriale che restavano peraltro immutati e rivendicabili.
Tale modalità di cessione garantiva ai cedenti parte della rendita del centro ecclesiastico, sollevandoli allo stesso tempo dagli oneri di gestione e mantenimento, salvo interventi straordinari di ampliamento che servissero all’aumento di valore del complesso religioso. La garanzia per i cedenti era assoluta e insindacabile: il proprietario manteneva il diritto di tutela ed elezione dell’abate o della partecipazione ad essa, per se stesso e i propri discendenti, vincolando al proprio volere l’abate del monastero maggiore. Nel caso in cui quest’ultimo non rispondesse agli obblighi imposti dal cedente, quest’ultimo poteva, di diritto, senza obbligo di risarcimento per le spese di migliorie e ampliamenti sostenute dal religioso.
La fiducia nell’abate era la stessa che si ripone oggi in un manager al quale di concede la gestione della propria azienda: il suo ruolo era di fondamentale importanza per il monastero e aveva lo scopo di assicurare la sua fioritura economica e quella spirituale… In pratica di aumentarne l’utenza ed il conseguente giro d’affari. È così che i monasteri maggiori con ciascuno la propria rete di monasteri minori, chiese e cappelle votive, diventeranno un vero e proprio network territoriale capillare e fondamentale per lo sviluppo economico e culturale dell’isola di Creta. Sì: anche culturale. Perché molti di questi centri si sono evoluti in laboratori artistici d’iconografia, importanti attività nutrite dal lavoro dei copisti e ponderose biblioteche. Non dimentichiamo che l’orografia del territorio dell’isola è prevalentemente di carattere montuoso e che le vie di comunicazione, e di scambio, sono ancor oggi poche e tracciate su un numero relativamente basso di direttrici. Per tali motivi l’importanza di tali complessi religiosi fu ancora più determinante per le aree rurali cretesi.
Infatti molti monasteri possedevano un grande patrimonio immobiliare nell’area circostante essendo particolarmente attivi nel campo della coltivazione, nella compravendita e nella gestione di terre. Tali centri godevano, tra l’altro, delle cospicue donazioni dei monaci che vi morivano o dei laici delle classi inferiori, consistenti in campi coltivati, orti, vigneti e uliveti se non quando abitazioni di proprietà e la riscossione dei relativi affitti. Va ricordato che il dogma ortodosso non proibisce al clero la proprietà necessaria al proprio sostentamento e a quello dei familiari.
Lo Ius patronatus garantiva alla cedente una contropartita in denaro e in natura corrisposta dal monastero, che, se all’inizio del percorso poteva essere modesta, con il proseguire della gestione, la valorizzazione e il coinvolgimento a vario titolo della popolazione locale, diventava vieppiù consistente. Questo anche perché l’usufrutto e la valorizzazione del patrimonio del monastero erano una parte dell’usufrutto generale della quale il proprietario era anche l’usufruttuario tramite l’abate nominato dallo stesso proprietario.
Il ciclo economico si chiude quando questi centri, che da religiosi sono stati trasformati in vere e proprie imprese economico-religiose, intessono con le città principali dell’isola intensi scambi di merci da essi stessi prodotte e trasformate per la vendita; attraverso vere e proprie cooperative di distribuzione con tanto di punti vendita all’interno delle stesse città, riforniscono quest’ultime di vino, olio, miele, cera e prodotti d’allevamento ovino e caprino, oltre alla produzione artistica di pregio costituita dalle bellissime icone. Si pubblicizza in questo modo anche l’operosità del monastero, vendendone allo stesso tempo l’importanza devozionale così da attirare, questa volta dalla città verso il monastero un flusso costante di pellegrini, anch’essi portatori di risorse economiche in cambio di meriti di fede. Ancora un esempio di una religione che genera e muove un’economia di sviluppo, con presupposti utilitaristici come tutti i commerci ma con ricadute benefiche nei confronti di un territorio come Creta.
I denari dei pellegrini: oblazioni votive e istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centrale alla fine del XIV secolo
Il flusso dei pellegrini che si snoda dalle città verso i monasteri rurali della Creta del XVI secolo ci introduce alla successiva comunicazione [23]: quella sull’economia generata da tale pratica devozionale descrive redatta analizzando gli itinerari in una precisa area geografica dell’Italia che hanno per destinazione finale la «casa di Pietro».
Due sono i centri dove si concentra la ricerca di Federico Pigozzo: Rimini sulle cosiddette strade romee e Assisi che, per la verità, risulterebbe un po’ eccentrica rispetto a tali strade, ma è esemplare per la ricchezza della documentazione dovuta ai pellegrinaggi verso la «Porziuncola» [24] per la quale, ancora oggi, riecheggia la fama di una indulgenza pari a quella ottenibile a Roma per l’anno giubilare. Pare che il santo di Assisi, nel luglio del 1216, si sarebbe recato nella vicina Perugia per ottenere da papa Onorio III, in visita alla città, l’indulgenza plenaria per chiunque avesse sostato in penitenza presso la piccola chiesetta che la tradizione vorrebbe edificata dal santo stesso. Nel secolo e mezzo trascorso da quella data il culto nei confronti di Francesco d’Assisi aveva superato le Alpi e il flusso continuo di genti che investiva la cittadina umbra era divenuto costante e, soprattutto, considerevole. Senza soluzione di continuità perfino negli anni della «Peste nera» del 1347 e successivi.
Per quanto concerne la cittadina malatestiana, invece, l’eccellenza di santità della meta devozionale sembra doversi al ritrovamento del corpo incorrotto di un canonico, tale Giovanni da Verrucchio, morto sessant’anni prima, ma subito acclamato dalla popolazione locale come santo e pertanto degno di configurarsi come intercessore al quale richiedere grazie e benevolenze, attirando così nutrite schiere di penitenti.
L’originalità della ricerca consiste nel rinvenimento negli accuratissimi registri, tenuti sia dai frati dell’Ordine Mendicante di Assisi sia dagli amministratori della cattedrale riminese, di cambi di valuta diversa da quella locale per i quali, non essendo comunemente accettate dal sistema monetario nativo come quelle degli antichi Stati italiani, si è dovuto ricorrere ai cambiavalute: attraverso una tale contabilità è stato dunque possibile non solo valutare l’impatto economicamente benefico per le istituzioni religiose di siffatti flussi di pellegrini, ma anche individuarne la provenienza e il sistema valutario di pertinenza. Viene da chiedersi perché pellegrini esterni agli antichi Stati italiani avrebbero dovuto lasciare, nelle soste lungo la via romea, oboli e offerte: la tesi di Lucia Travaini [25] pare dare un riscontro oggettivo a tale fenomeno. Secondo la studiosa va considerata anche la particolare funzione delle offerte in moneta straniera quali «tokens of memory»: una precisa volontà avrebbe potuto essere quella degli stranieri che, in situazioni di particolare connotazione religiosa come la visita alla tomba di un santo, sentivano il bisogno di depositare una piccola parte della loro terra d’origine, di lasciare un segno in ricordo del loro specifico passaggio, anche se privo di un immediato valore legale, ma prontamente convertito in valuta locale, con l’aiuto dei cambia valute, dagli operosi e scrupolosi amministratori di quei luoghi di culto. Se pensiamo che ancora oggi, è invalsa un’usanza del genere, quella ciò di depositare una moneta del proprio paese in pozzi, fontane e vasche monumentali di tutto il mondo, durante i nostri viaggi, la tesi è verosimilmente accettabile.
Nei passaggi appena delineati abbiamo quindi rispondenza di quanto l’apparentemente semplice e spirituale flusso devozionale desse movimento al più terreno flusso economico di tali aree, chiamando in campo finanche gli «interessi di cambio». La comunicazione si snoda attraverso la «pista dei soldi» ovvero delle varie valute, analizzata puntualmente per tracciare con estrema precisione anno, probabile, del conio, provenienza e valore al cambio con la moneta locale: in questo modo è abbastanza precisa anche la stima della ricchezza circolante, tenendo contestualmente presente l’entità della donazione. Il cambio è portatore anche di altri indicatori: in base alla percentuale in metallo prezioso della moneta è possibile assegnare un valore, in termini di potenza economica, anche alla zecca coniante e quindi alla Città o Stato alla quale la zecca appartiene, in quel particolare momento storico.
I registri delle donazioni sono un’inesauribile miniera d’informazione anche per i riferimenti temporali che lo storico può connettere in corrispondenza dei flussi donativi: ad anni di particolare stabilità e identità d’entrate, dove quindi i flussi sono relativi ad una particolare «utenza fidelizzata» e relativi periodi di «tranquillità economica», si alternano sensibili variazioni in aumento o diminuzione che possono essere correlati con altrettanti fatti storici. Un esempio è quello citato dalla comunicazione: un considerevole aumento delle entrate coincide esattamente con l’anno giubilare del 1390, per poi riassestarsi, nei primi sette mesi del 1391, dunque un congruo periodo d’anni, agli stessi esatti valori del biennio precedente, cioè quello del 1388-89. Similmente, in corrispondenza di carestie e guerre, si ha un seppur modesto aumento di donazioni e oboli. Ciò è verosimilmente correlato ai periodi storici d’incertezza o di particolare fermento religioso, come i giubilei, nei quali l’animo umano ricorre alla religione e quest’ultima, come visto anche in questo caso, attiva positivamente l’economia diretta e indiretta.
Investimenti religiosi, civili ed economici. Diritto e teologia in alcuni degli scambi tra mercanti italiani e frati minori. Avignone XIV e XV secolo
L’ultima delle numerose comunicazioni [26] del Convegno su Religione e istituzioni religiose nell’economia europea prese in esame nella presente sintesi, indaga sulla relazione tra diritto e teologia negli scambi tra i mercanti italiani e gli ordini dei frati minori nella città di Avignone tra XIV e XV secolo, vale a dire durante e dopo la fine della cosiddetta «cattività avignonese» [27]. L’indagine storiografica di Lenoble, dunque, prende le mosse, come nel caso precedente, dal «giornale di cassa» prodotto e conservato dall’Ordine dei frati minori della città provenzale, oltre a varie charte notarili sempre ivi archiviate, che ampliano lo sguardo sull’amministrazione e la vita dei conventi e dei fedeli.
In particolare questo sguardo viene rivolto ai rapporti economici, donativi e no, che detto convento intrattiene coi «banchi» delle più importanti famiglie di mercanti-banchieri presenti ad Avignone con lo scopo d’intrattenere rapporti d’interesse con il soglio pontificio in esilio. Il metodo è innovativo e promette d’indagare i rapporti tra Chiesa, mercatura e ceti sociali governanti la città
«… attraverso l’analisi dei trattati teologici e dei quodlibeta [28], la lettura dei sermoni [29], dei manuali di confessori, ma anche dei libri di mercatura e di ricordi scritti dai laici così da dimostrare che il diritto e la teologia siano stati qualcosa di più che elucubrazioni di alcuni maestri e dottori e che abbiano invece trovato un’espressione concreta nella prassi quotidiana dei frati, del clero e dei laici, con la quale intrattenevano uno stretto rapporto. Ciò ha permesso di definire meglio il complesso intreccio di spiritualità e temporalità di religiosità e pragmatismo che caratterizzava la cultura dei mercanti e legava le loro azioni professionali alla salvezza, sia della loro anima sia della comunità dei fedeli. […] Le famiglie italiane menzionate regolarmente nella contabilità del convento sono otto: i del Poggio e i Malabayla, famiglie di cambiavalute toscani e lombardi, i Lapi Ruspo, la famiglia di Nigro di Milano, i fiorentini Ottaviani, Ricci, Pazzi e Peruzzi o Pérussis nella forma provenzale» [30].
Si tratta quindi di banchieri, cambiavalute e mercanti che si trovano ad Avignone per fare affari con la corte pontificia, approfittando della nuova dinamica economica della città.
La prima riflessione che viene da fare è: l’economia sembra seguire da vicino le istituzioni religiose così come segue e insegue tutte le altre istituzioni di potere e governo. «Nuova dinamica economica della città»: appunto. Prima dell’arrivo della corte papale Avignone era poco più di un piccolo centro della regione provenzale: quasi rasa al suolo dalle truppe mercenarie di Luigi VIII all’inizio della crociata contro gli Albigesi nel 1226, entra a far parte della famiglia di duchi D’Angiò nel 1251, riprendendosi economicamente a stento a seguito di numerose epidemie e carestie. Quando nel 1316 il papa Clemente XXII la sceglie come sede del soglio pontificio, ecco che Avignone subirà una magnifica e sconvolgente trasformazione architettonica, economica e sociale.
Avignone diventerà, come testimoniano gli archivi contabili consultati da Lenoble, un centro di vitale importanza per l’economia provenzale. Ben sette papi e due antipapi dello Scisma d’Occidente, che dividerà l’Occidente cristiano dal 1378 al 1418, faranno la fortuna e lo splendore di questa novella Roma. E attireranno mercanti da tutta Europa cristiana: questi mercanti versano denaro ai frati per la costruzione, l’ornamento, la manutenzione e il funzionamento delle loro cappelle; si fanno seppellire nella chiesa del convento o nella cappella di famiglia, fanno celebrare messe, anniversari e messe perpetue che costituiranno l’investimento più significativo di queste famiglie nell’economia delle istituzioni religiose della città. E acquisteranno edifici ampliandoli o facendone costruire di nuovi, a testimonianza del proprio potere economico.
Per non parlare dei pellegrini. Nonostante ciò che andava dicendo Francesco Petrarca, che pure ci viveva, e cioè che la città fosse di scandalo come lo fu l’antica Babilonia, e come questa quindi capitale di vizio e iniquità, i penitenti, stando ai giornali di cassa delle istituzioni religiose della città, vi pervenivano eccome e, né più né meno come i mercanti, contribuivano attivamente alla vitalità economica non solo dei conventi, ma anche alle strutture ricettive del luogo. Quest’ultime, al pari delle chiese, delle cattedrali e dei grandi palazzi nobiliari che in quel periodo erano oggetto di ampliamenti commisurati al potere dei proprietari, venivano continuamente ingrandite e nuovamente edificate. Le ricadute in ambito architettonico, economico e sociale, girando per Avignone, sono nettamente percepibili finanche ai giorni nostri.
Avignone, dunque, costituisce in sé un chiaro esempio dei rapporti virtuosi che intessono in tutti i periodi storici, che si vogliano analizzare con una siffatta lente, quella che guarda al legame tra l’economia e le istituzioni religiose, almeno fino a tutto il XVIII secolo. I cambiamenti di lungo periodo che hanno avuto origine con la Riforma luterana prima per concludersi con la Rivoluzione francese, ne hanno certamente cambiato le prassi e l’entità, lasciando comunque intatta l’esistenza di un solido legame.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] Erik Aerts, La religione nell’economia. L’economia nella religione, in Atti della “Quarantatreesima Settimana di Studi”: «Religione e istituzioni religiose nell’economia europea. 1000-1800» a cura di Francesco Ammannati, Firenze University Press, Firenze, 2012: 3-115
[2] cfr. Fernand Braudel, Capitalismo e civiltà materiale (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino, 1977
[3] cfr. Elisa Novi Chavarria, Il governo delle anime. Azione pastorale, predicazione e missioni nel Mezzogiorno d’Italia. Secoli XVI-XVIII, Editoriale Scientifica, Napoli, 2001
[4] Erik Aerts, La religione nell’economia. L’economia nella religione, cit.: 9
[5] Ivi: 13
[6] Vedi alla voce “indotto” in Dizionario di Economia e Finanza (2012): https://www.treccani.it/enciclopedia/indotto_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)/ (11/23)
[7] Massimo Montanari, Mangiare da cristiani. Diete, digiuni, banchetti. Storie di una cultura, Rizzoli, Milano, 2015 – Dalla sinossi dell’opera: Un modello alimentare cristiano non esiste. Secondo la tradizione apostolica non importa cosa si mangia, ma come si mangia: l’attenzione è tutta sul gesto alimentare, dai rituali del convivio al valore della frugalità. Gli uomini, però, hanno bisogno di regole, e la libertà sottesa al messaggio apostolico disorienta. Anche per questo la storia del cristianesimo elabora nei secoli una serie infinita di modelli alimentari, ogni volta diversi e adattabili alle più disparate circostanze, nel tentativo di ridare al cibo un valore “oggettivo” e di recuperare l’idea antropologicamente inossidabile secondo cui l’uomo è ciò che mangia. La storia del cristianesimo è un patrimonio straordinario di consuetudini e di contagi culturali che rimandano alla tradizione ebraica, alla filosofia greca, alla scienza dietetica: dal ruolo del pane e del vino nell’eucarestia alla condanna della “gola”, dal mito del Paradiso terrestre al valore di redenzione del digiuno, dalle pratiche alimentari monastiche alle regole dell’astinenza quaresimale.
[8] Il concetto è trattato ampiamente in: Jacques Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino, 2013
[9] Lc 6,34 – Bibbia C.E.I. 2008
[10] Lc 19, 11-27 – Bibbia C.E.I. 2008
[11] Ovvero quando la stessa ratio governa più fattispecie; vale a dire che potendosi considerare simili, è necessario applicare a tutte l’identico regime normativo «ubi eadem ratio, ibi idem ius»: così, spesso travisando la lettera della legge, si crearono, in epoca tardo medievale, nuove figure del diritto
[12] Basti ricordare l’acrobatica scissione tra proprietà di diritto e proprietà d’uso circa la pratica dell’enfiteusi, abominio secondo il diritto romano, ma logica emergenza secondo quello dei glossatori e commentatori medievali
[13] Cino da Pistoia, altrimenti trascritto come Guittoncino di ser Francesco dei Sigibuldi (Pistoia, 1265 o 1270 circa – Pistoia, 24 dicembre 1336), è stato un poeta e giurista italiano, di parte guelfa nera. L’opera giuridica più importante di Cino fu la Lectura in codicem (1312–1314), un commento al corpus iuris civilis di Giustiniano II in cui fondeva il diritto romano puro con gli statuti contemporanei e il diritto consuetudinario e canonico, dando così inizio al diritto comune italiano. Fu maestro a Perugia di Bartolo da Sassoferrato, uno dei più insigni giuristi dell’Europa continentale del XIV secolo. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Cino_da_Pistoia (11/23)
[14] Bartolo da Sassoferrato (Sassoferrato, 1314 – Perugia, 13 luglio 1357) è stato un giurista italiano. Discepolo di Raniero Arsendi da Forlì e di Cino da Pistoia, fu uno dei più insigni giuristi dell’Europa continentale del XIV secolo e il maggiore esponente di quella scuola giuridica che fu definita dei commentatori (o postglossatori). La venerazione delle successive generazioni di studenti del diritto è dimostrata dall’adagio: nemo bonus íurista nisi sit bartolista, “non può essere un buon giurista chi non sia un bartolista” (un seguace di Bartolo). Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Bartolo_da_Sassoferrato (11/23)
[15] Enrico da Susa, detto anche l’Ostiense (Susa, 1210 – Lione, 25 ottobre 1271), è stato un cardinale italiano. Fu inoltre uno dei più brillanti canonisti e glossatori europei del XIII secolo. In base ai suoi scritti possiamo affermare che studiò diritto romano e diritto canonico a Bologna sotto Iacopo Baldovini e l’Homobonus e che lì, dopo aver ottenuto la laurea in utroque iure, abbia insegnato per qualche tempo.
[16] Giacomo Todeschini, Eccezioni e usura nel Duecento. Osservazioni sulla cultura economica medievale come realtà non dottrinaria, in Quaderni Storici, n° 2/2019, Il Mulino, Bologna
[17] Erik Aerts, La religione nell’economia. L’economia nella religione, cit.: 49
[18] Giacomo Todeschini, I mercanti e il tempio: la società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, Il Mulino, Bologna, 2002
[19] Come il domenicano Egidio di Lessines e i francescani Pietro di Giovanni Olivi, Geraldo Odone e Alessandro d’Alessandria
[20] Maria Grazia D’Amelio – Manuel Vaquero Piñero, Devozione e risorse monetarie, in Atti della “Quarantatreesima Settimana di Studi”: «Religione e istituzioni religiose nell’economia europea. 1000-1800» a cura di Francesco Ammannati, Firenze University Press, Firenze, 2012: 499-507
[21] Romina Tsakiri, L’istituzione della cessione dei monasteri ortodossi nella Creta dei secoli XVI e XVII ed il suo contributo alle attività economiche degli ambienti circostanti, in Atti della “Quarantatreesima Settimana di Studi”: «Religione e istituzioni religiose nell’economia europea. 1000-1800» a cura di Francesco Ammannati, Firenze University Press, Firenze, 2012: 511-528
[22] Il giuspatronato [dalla locuzione latina ius patronatus, «diritto di patronato»] è un istituto giuridico esistito in passato che si applicava a un beneficio ecclesiastico. In particolare riguardava la relazione tra il beneficio (un altare all’interno di una chiesa, o anche una chiesa parrocchiale) e colui (soggetto collettivo o persona fisica) che aveva costituito la dote patrimoniale del beneficio stesso. Con tale diritto, ad esempio, coloro che dotavano un altare o una cappella, disponevano anche del beneficiato. Nel caso di una chiesa, chi ne promuoveva la costruzione ne diventava “patrono” e aveva il diritto di nominare il sacerdote, cui avrebbe assicurato il sostentamento. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Giuspatronato (11/23)
[23] Federico Pigozzo, I denari dei pellegrini. Oblazioni votive e istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centrale alla fine del XIV secolo, in Atti della “Quarantatreesima Settimana di Studi”: «Religione e istituzioni religiose nell’economia europea. 1000-1800» a cura di Francesco Ammannati, Firenze University Press, Firenze, 2012: 743-754
[24] La Porziuncola è una piccola chiesa situata all’interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli, presso Assisi, annoverata tra i luoghi francescani più importanti: tra le sue mura, san Francesco comprese infatti la sua vocazione, accolse santa Chiara e i primi frati, ricevette infine il cosiddetto Perdono di Assisi, divenendo uno dei luoghi prediletti dal santo. Legato a questa chiesa è appunto il Perdono d’Assisi o «Indulgenza della Porziuncola», che inizia la mattina del 1º agosto e si conclude alla sera del 2 agosto, giorni nei quali l’indulgenza, qui concessa tutti i giorni dell’anno, si estende alle chiese parrocchiali e francescane di tutto il mondo
[25] Lucia Travaini, Le monete del primo giubileo, in «Anno 1300 il primo giubileo. Bonifacio VIII e il suo tempo», a c. di M. Righetti Tosti-Croce, Catalogo della mostra (Roma 12 aprile — 16 luglio 2000), Milano 2000:121-125, 121.
[26] Clément Lenoble, Investimenti religiosi, civili ed economici. Diritto e teologia in alcuni degli scambi tra mercanti italiani e frati minori. Avignone XIV e XV secolo, in Atti della “Quarantatreesima Settimana di Studi”: «Religione e istituzioni religiose nell’economia europea. 1000-1800» a cura di Francesco Ammannati, Firenze University Press, Firenze, 2012: 755-764
[27] Il termine «cattività» viene dal latino captīvus ovvero prigioniero. Tale termine presso i coevi non sottintendeva tanto una prigionia dei papi presso i re di Francia, bensì una situazione di esilio paragonabile a quella vissuta dal popolo ebraico durante la cattività babilonese (587 a.C.-517 a.C.). Esso venne indirettamente coniato dal Petrarca: nel sonetto 114 del suo Canzoniere «De l’empia Babilonia, ond’è fuggita» egli identifica Avignone con Babilonia, biblicamente intesa come capitale dell’iniquità e del vizio. I contemporanei, dunque, assimilarono la lontananza del papato da Roma con l’esilio degli Ebrei e chiamarono questa situazione «nuova cattività babilonese». In seguito, per meglio distinguere l’originale cattività ebraica con quella pontificia, il termine mutò in «cattività avignonese». Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Cattivit%C3%A0_avignonese (11/23)
[28] Parola composta dei termini latini quod libet, «ciò che piace», e divenuta nella filosofia scolastica termine fisso, e quindi declinabile nel plurale neutro quodlibeta, donde anche l’aggettivo quodlibetalis, in quaestiones quodlibetales, ecc.) per designare i temi delle discussioni e trattazioni di argomento libero: disputationes de quolibet). Il nome di quodlibeta o di quaestiones quodlibetales s’incontra perciò assai di frequente come titolo complessivo di singole trattazioni filosofiche nell’età scolastica. Fonte: https://www.treccani.it/enciclopedia/quodlibet_(Enciclopedia-Italiana)/ (11/23)
[29] Splendidamente trattata in: Jacques Le Goff, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, trad. di S. Addamiano, Laterza, Bari, 2003
[30] Clément Lenoble, Investimenti religiosi, civili ed economici. Diritto e teologia in alcuni degli scambi tra mercanti italiani e frati minori, Avignone XIV e XV secolo, cit.: 755-756.
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Sergio Ciappina, siciliano di nascita, toscano d’adozione; si occupa di ingegneria dei sistemi informatici e networking strutturale; ha conseguito un diploma di laurea in Storia presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi sulle «Radici e evoluzione del pregiudizio antiebraico: un’analisi storico-semantica» pubblicata dall’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC ETS; ha successivamente proseguito gli studi e la ricerca conseguendo il diploma di laurea magistrale in Scienze Storiche con una tesi sulla «Repressione del dissenso intellettuale sotto il fascismo: Giuseppe Rensi e Ernesto Rossi nelle carte della polizia». Fa parte della redazione del progetto di ricerca gestito dalla Firenze University Press Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Attualmente frequenta il secondo anno del corso di laurea magistrale in Intermediazione Culturale e Religiosa e sta ultimando il Corso di perfezionamento in didattica della Shoah, entrambi sempre presso l’Università degli Studi di Firenze.
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