di Caterina Bonvicini
A bordo di una nave Ong, pattugli il Mediterraneo in Sar libica, in acque internazionali, a ventiquattro o trenta miglia da Tripoli o da Zawiya. In poche parole, sei in mezzo al nulla. Quali luci puoi mai vedere? Certo non quelle della costa.
Ma intorno alle piattaforme petrolifere può nascere un equivoco. È uno dei rari luoghi al mondo che si possono ancora definire accessibili a pochi. Sicuramente è più frequentato l’Everest. È il paesaggio più sinistro che abbia mai visto, e provoca allucinazioni.
L’ho scoperto di notte, in barca a vela. Il mare nero, che annulla ogni confine fra l’acqua e un cielo senza luna, è persino rassicurante al confronto. Quell’inferno invece ti brucia la vista. E tu hai le visioni dei dannati.
Le piattaforme sparano fuoco e al buio sembrano fari. Le onde all’orizzonte disegnano un profilo simile a una costa montuosa e frastagliata. E di colpo capisci cosa possono provare loro, seduti in un gommone, vedendo quello che vedi tu – o credi di vedere. È la terra. Eccola lí. È l’Italia, per forza. Che altro possono essere quelle montagne a picco sul mare e quelle luci? Invece non sono montagne, sono masse d’acqua che gonfiano l’orizzonte. E quelli che sembrano fari in realtà sono torce, fiaccole che bruciano gas in cima a camini piantati in mezzo al nulla. Sei in mare aperto.
Lontano da quella zona, il buio è totale. Soprattutto nelle notti senza luna. Il cielo può essere stellato, ma se ci sono le nuvole è semplicemente nero come l’acqua e non si distingue il confine.
A volte il buio è ininterrotto, senza soluzione di continuità. Altre invece è cosparso di luci di pescherecci, che appaiono all’improvviso, a flotte, nelle finestre di bel tempo. Non sempre il Mediterraneo è completamente vuoto.
Quando mi chiedono: ma come si trova un gommone in mezzo al nulla? A volte per puro caso, rispondo. Fra le tante possibilità sembra l’ipotesi più inverosimile. Invece succede spesso. Succede anche a quei pescherecci. Come alle petroliere o ai cargo. Quindi bisogna guardare fuori con il binocolo ventiquattro ore su ventiquattro, cioè fare watching.
Di giorno, funziona più o meno come un’apparizione o un’epifania. Sei cosí folgorato, che ci metti qualche secondo a realizzare e te ne servono altri per crederci. Poi avverti subito il resto dell’equipaggio.
Di notte, nel buio più totale, è diverso. Sul ponte di comando almeno due o tre membri dell’equipaggio, a tutte le ore della notte, controllano il mare. Si fanno i turni di guardia con la termocamera, che rileva il calore, e il flir, il visore notturno. Bisogna stare molto attenti e segnalare anche la più piccola luce. Cosa si cerca? Una luce bianca, intermittente: la torcia di un cellulare. O uno schermo acceso.
Ho imparato cosí – guardando fuori, dritto in quel nero – a distinguere quando bisogna allarmarsi e quando no. Un gommone viaggia al buio, si nota appena una fievole luce bianca intermittente, la torcia di un cellulare, come dicevo. Un peschereccio al confronto è una luminaria di Natale: c’è il fanale di testa d’albero, la luce verde di dritta, la luce rossa laterale di sinistra, la luce bianca di poppa. Un peschereccio brilla troppo per essere una barca di disperati che cerca di non farsi notare dalla Guardia Costiera libica e naviga nell’oscurità.
A volte, è merito del radar, che intercetta un oggetto di metallo, che potrebbe essere un motore. Sullo schermo compare un puntino – e menomale, altrimenti una nave grande, nel buio, potrebbe facilmente investire una bagnarola malconcia e neanche tanto galleggiante di pochi metri – tutti sul ponte di comando si guardano intorno, in giro non ci sono luci né verdi né rosse né bianche, si fanno girare i riflettori come dalla torre di una prigione e zac – dal nulla compare un gommone, un barchino o un barcone di legno. Anche i nostri rhib, i gommoni di salvataggio, hanno un faro di pattugliamento acceso. E il problema di notte è proprio questo. I migranti vedono solo una luce e non possono capire se il gommone è dei libici o di una nave umanitaria. Di giorno è facile distinguere: i gommoni dei libici sono neri mentre i rhib di una Ong sono arancioni. In aggiunta, a bordo dei gommoni dei libici non ci sono donne, mentre le soccorritrici delle Ong sono tante e spesso portano i capelli lunghi, facilmente visibili sotto al casco. A bordo dei gommoni Ong non ci sono armi, mentre i libici viaggiano con mitragliette e fucili.
Di notte però tutte queste differenze non si possono notare. I naufraghi vedono solo una luce forte che si avvicina, la gente stringe gli occhi, si copre la fronte con la mano, ha paura. Quindi i soccorritori usano la voce. Spesso parlano le donne e dicono in tre lingue (inglese, francese e arabo): «State calmi, siamo europei e siamo qui per salvarvi».
Una fotografia di Valerio Nicolosi coglie il punctum del Mediterraneo. Che non è la paura di affogare. È buio, al gommone si stanno avvicinando due rhib di Open Arms, ma quei ragazzi non lo sanno ancora. Vedono solo una luce che avanza verso di loro. Sono convinti che siano i libici, che li stanno tornando a prendere. Non serve raccontare niente. Non serve spiegare. Basta guardare i volti tesi, disperati, cupi. Tutto viene detto attraverso gli occhi spalancati e pieni di terrore di un ragazzo del Sud Sudan, illuminato dal faro di pattugliamento come in un moderno quadro di Caravaggio.
Piuttosto che tornare in Libia, preferiscono morire. Lo racconta bene un video girato sempre da Valerio Nicolosi quella notte di agosto del 2018. In mare c’è un siriano, che grida: «Help me! Help me!» Gli lanciano un salvagente, gli dicono di infilarselo e di non nuotare. Poi lo tirano dentro il rhib. Ma lui non è ancora tranquillo. Sta rannicchiato sul fondo. «No Libiya! No Libiya!» supplica. E fa cenno di no con l’indice. E per fare capire che lí lo avrebbero ucciso, con le mani mima le pistole, pollice alzato e indice dritto. Poi si afferra il collo, come per strangolarsi. A questo punto, uno dei soccorritori spagnoli ha un’idea geniale. Si toglie il casco e gli fa vedere che è biondo. Il siriano scoppia in un sorriso, il sorriso più bello che si possa vedere in un essere umano. «Okaaay, – grida, i pugni chiusi e i pollici sollevati, – okaaaay». E si abbandona. È nelle mani giuste, è al sicuro.
Le luci nel Mediterraneo possono ingannare, insomma. Basta pensare a quanti morti ha fatto un faro, costruito per evitare naufragi, non per provocarli. Succedeva a Lesbo, intorno al 2015 e 2016, quando la rotta dalla Turchia viveva il suo momento di splendore. Arrivavano barche cariche di profughi che andavano a zig zag, perché la gente non sapeva come guidarle e come fermarle, e finivano per schiantarsi contro le rocce. La maggior parte dei naufragi era a pochi metri dalla riva. Gli impatti più fatali capitavano intorno al faro: era l’unica luce sull’isola e tutti erano attirati come falene. Invece quel faro era lí per la ragione opposta, per segnalare un pericolo. Ma come potevano saperlo dei siriani o degli afghani imbarcati in fretta, di notte, dalla costa turca? E cosí toccavano terra, la toccavano per un attimo, e solo per morirci sopra.
La luce più bella che vedono i naufraghi è quella del ponte di coperta acceso. È commovente osservarli mentre viaggiano in rhib, ancora al buio, e guardano la nave tutta illuminata, che si avvicina gradualmente. Io penso che solo in quel preciso momento loro realizzino di essere davvero salvi.
Una volta ho tenuto in mano una luce chimica, una barretta che di solito si distribuisce alla gente in acqua, per non perdere le persone in quel buio, per colpa della corrente. Me l’aveva data sul rhib un naufrago. Fissavo la barretta e pensavo che alla fine, di notte, in mezzo al Mediterraneo, diventiamo tutti invisibili.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
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Caterina Bonvicini è nata nel 1974, è bolognese, vive e lavora fra Roma e Milano. Collabora con «La Stampa» e con «L’Espresso». Ha pubblicato Penelope per gioco (Einaudi 2000), Di corsa (Einaudi 2003), I figli degli altri (Einaudi 2006), L’equilibrio degli squali (Garzanti 2008, Oscar Mondadori 2018. Premio Rapallo), Il sorriso lento (Garzanti 2010. Premio Bottari Lattes Grinzane), Correva l’anno del nostro amore (Garzanti 2014), Tutte le donne di (Garzanti 2016), Fancy Red (Mondadori 2018), Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie, con Valerio Nicolosi, (Einaudi 2022. Premio MarEtica, Premio Pozzale, Premio Marincovich) e ha curato l’antologia Le ferite (Einaudi 2021). I suoi romanzi sono tradotti in molti paesi, fra cui la Francia (sono tutti usciti per Gallimard), la Germania, la Spagna, l’Olanda e gli Stati Uniti.
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