di Flavia Schiavo [*]
Il progetto INA–Casa nel dopoguerra italiano
La vicenda raccontata da Rosi ne Le mani sulla città, un film in bianco e nero del 1963 ambientato a Napoli, va esplorata considerando il complesso periodo italiano, contraddistinto in fase post bellica dalla Ricostruzione nazionale; dalle politiche di recupero e rilancio economico e dell’occupazione (che puntarono molto sull’edilizia); dal desiderio di superamento dell’esperienza della guerra e dal profondo senso di sconfitta e “perdita” insito in quella fase. Tra i vari interventi che puntarono alla risoluzione della crisi strutturale, il Piano INA-Casa.
Le prime disposizioni legislative risalgono al 28 febbraio 1949 (Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori) [1] e alla legge n. 43 che varò un programma settennale, poi prorogato di altri sette anni (noto come Piano Fanfani) mirato a creare lavoro e a costruire alloggi per famiglie a basso reddito [2].
Pur essendo coinvolti numerosi e importanti architetti, come Diotallevi, Ridolfi, Gabetti, Aymonino, Gardella, Figini e Pollini, Insolera o Sottsass che condussero una ricerca sulla forma e sul significato dell’architettura, con un respiro colto e internazionale, un gran numero di professionisti, geometri e ingegneri partecipò alla realizzazione di diversi quartieri popolari, in cui prevaleva un preciso modello e un’edilizia standardizzata, ispirata ad uno stile che sommariamente rielaborava le tendenze razionaliste. Nel tentativo di superare l’omogeneità furono prodotti anche alcuni interessanti esempi (più sul livello delle singole elaborazioni architettoniche), tra cui il Tiburtino a Roma (architetti: Ridolfi e Quaroni), le Spine Bianche a Matera (architetti: Aymonino, Chiarini, Girelli, Lenci, Ottolenghi), il QT8 a Milano, di Bottoni.
L’operazione complessivamente diede vita a “città nella città”, sorte spesso in aree lontane e disarticolate dal centro, prive di servizi e di spazi pubblici, e generò un indotto (investimenti di capitali nel comparto edile; variazioni delle destinazioni d’uso di ampie porzioni di territorio agricolo reso edificabile), causando forti squilibri al paesaggio; alle porzioni di città esistente alla quale i nuovi quartieri si “agganciavano”; agli abitanti trasferiti in aree estranee e forzati ad adottare un diverso modo di abitare.
Riguardo al coordinamento generale degli interventi, sul livello formale e sull’integrazione con le preesistenze, numerosi intellettuali manifestarono perplessità, tra questi Giovanni Astengo che, in un articolo del 1951, notò l’assenza di un piano organico di coordinamento, e Bruno Zevi, nel 1952 Segretario Generale dell’INU, che sottolineò quanto
«l’aggiungere una o due case a un villaggio comporta il rischio di fare opera “stonata” perché una o due case sono troppo poche per creare una nuova unità ma sono troppe per rispettare quella antica, così un quartiere, se la sua ubicazione non è promossa da un piano regolatore bene elaborato, rimane episodio non assimilato nell’organismo economico e artistico della città».
Durante i primi sette anni del Piano INA-Casa furono investiti circa 334 mld di lire e furono costruiti circa 147 mila alloggi; alla fine dei quattordici anni furono edificati circa 355 mila alloggi, per un importo di 936 mld di lire. L’attenzione di Amintore Fanfani [3], promoter del Piano, alla questione abitativa ebbe inizio fin dal 1942. In Colloqui sui poveri un suo testo di quegli anni, si affrontava il nodo della povertà mettendo in luce quanto la condizione abitativa, se disagiata, fosse determinante nella qualità della vita degli abitanti. In quel volume Fanfani proponeva un progetto fondato sulle teorie keynesiane integrate dal solidarismo cristiano. Il finanziamento al Piano INA-Casa venne attuato grazie alla partecipazione statale e ai versamenti dei contribuenti ai quali vennero richieste modeste tasse (come recitava la reclame del periodo: “al costo di una sigaretta al giorno”) per aiutare i lavoratori più indigenti.
Il Piano si avvalse della creazione di un Ente centralizzato, i cui interventi furono coordinati dalla Gestione INA-Casa (determinante nel management economico delle realizzazioni), diretto da Arnaldo Foschini, Preside della Facoltà di Architettura di Roma e appartenente alla Scuola Romana. Gli interventi e la moltitudine dei cantieri aperti, nella fase della Ricostruzione ebbero un forte impatto sulla percezione della condizione nazionale da parte della popolazione che, anche attraverso i telegiornali, poté vedere, nella desolazione delle macerie (copiose anche a Napoli), la nuova “Italia democratica” che reagiva ai disastri bellici guardando verso l’orizzonte del boom economico.
Nell’aprile del ‘49, pochi giorni dopo l’emanazione della legge n. 43, Giuseppe Samonà pubblicò su Metron un articolo elogiativo che testimoniava quanto una parte dell’“intellighenzia” italiana del settore approvasse le iniziative in corso. Fu in questo clima che a luglio del ‘49 s’inaugurò un primo cantiere a Colleferro (un insediamento vicino Roma, oggi nell’area metropolitana della capitale), dando impulso a quella attività febbrile che fece dell’edilizia forse il primo comparto economico del Paese.
Dimenticare la polis
Pur migliorando le condizioni di vita di alcuni lavoratori, i quartieri furono concepiti in termini autoritativi da quegli attori politici ed economici che guidavano la Nazione, in una stagione in cui l’urbanistica italiana era contraddistinta da un’indiscussa volontà di controllo delle trasformazioni, dall’illusione che pianificazione e Piani potessero risolvere i numerosi problemi nazionali e da una totale esclusione della popolazione dal processo decisionale. Questa esclusione rappresentò un punto critico, non contemplato né tanto meno affrontato in quella fase (per i paradigmi vigenti) in cui anche intellettuali, come Adriano Olivetti (Presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica), teorici e pragmatici della “partecipazione”, avallarono il Piano Fanfani.
Oltre questo entusiasmo occorre ribadire che altri esponenti della cultura disciplinare, notando la mancanza di un Piano generale che coordinasse gli interventi sul territorio nazionale, avanzarono varie critiche. Nonostante esistesse un gruppo di studiosi contrari, prevalse l’idea che il Piano INA-Casa sarebbe stato uno dei mezzi per attuare la ripresa economica. I modelli proposti erano, però, gravati dal peso di obiettivi teorici e di prassi attuative prestabilite dai politici, dai progettisti e dagli amministratori. Si puntava a realizzazioni faraoniche di “città nella città”, tendenzialmente autosufficienti, illudendosi che ciò avrebbe coinciso con la formazione di comunità: come se il progetto top-down dei quartieri potesse generare interazioni di comunità e polis.
L’operazione di certo innescò un rilancio economico momentaneo e fittizio e il coinvolgimento di architetti e ingegneri, ma produsse, oltre a un rilancio dell’occupazione, derive speculative, un enorme consumo di suolo, la modificazione dell’assetto di intere città e non generò “comunità”, se non in rarissimi casi È arduo, infatti, sostenere che si formi una comunità, ideando spazi dal cui progetto la comunità sia esclusa ed è altrettanto arduo pensare che architetti o ingegneri potessero sostituire in toto l’immaginazione progettuale e la rappresentazione urbana degli abitanti.
Se i progettisti e gli amministratori vissero una stagione di euforia postbellica e di autoaffermazione, se gli speculatori profittarono del processo in corso (come racconta con chiarezza Rosi nel suo film), gli abitanti, pur in alcuni casi beneficiati dal possesso di nuovi alloggi, esperirono l’esclusione dal processo decisionale con effetti disastrosi sulla partecipazione alla vita collettiva, sul sentirsi parte attiva della ricostruzione dei propri spazi di vita, sulla consapevolezza dell’essere portatori di diritti, oltre che di responsabilità. In sintesi, gli abitanti furono esclusi dalla gestione partecipata e dal processo democratico non solo del governo urbano, ma furono letteralmente espropriati del proprio quotidiano. Questo modello di trasformazione urbana non solo abolì ogni forma di partecipazione al processo deliberativo, ma ridusse di molto il livello di coscienza urbana: essere cittadini, infatti, comporta non solo l’essere portatori di diritti e di doveri (concepiti come parte attiva di un sistema interagente), ma vuol dire essere “attori” del cambiamento in termini di immaginario progettuale e di percezione degli eventuali rischi e degli effetti delle trasformazioni sulle persone e sullo spazio abitato.
Tale condizione si rivelò gravissima, in quanto la città è il luogo elettivo dove le persone sperimentano “pratiche”, esplorano le possibilità della democrazia e imparano a essere cittadini, prima per strada nel proprio quartiere, poi in ambito civico e collettivo. Da un lato, quindi, l’idea portante delle “isole popolari” (case e attrezzature) e i “manuali” (libri guida alla progettazione dei quartieri) [4], dall’altro l’illusione che l’idea e gli stessi manuali avrebbero garantito la formazione di un nuovo spazio fisico-sociale, in cui spostare ampie fasce della popolazione, trattando la complessità della Ricostruzione in base ai paradigmi vigenti: progetto top-down su scala nazionale; scelte politiche generalizzate e autoritative; tecnica urbanistica e architettura a servizio della visione politica imposta d’autorità, visione che si tradusse in un quotidiano straniante per gli abitanti.
Oltre alle indicazioni progettuali disattese (il mancato completamento dei servizi e delle attrezzature pubbliche, per esempio), vanno sottolineate le contraddizioni presenti in origine: la mancata integrazione sia urbana dei quartieri nella città, sia umana della popolazione nei luoghi; il consumo di suolo e la variante di numerose destinazioni d’uso, che soprattutto riguardarono il cambiamento funzionale di terreni agricoli trasformati in aree edificabili o pensati nei nuovi PRG come edificabili; la mancanza di spazi sia verdi che pubblici “reali” sostituiti da simulacri degli stessi; il perseguire un’estetica venata di un moralismo buonista di matrice cattolica e paternalista, in cui il politico surrogava l’abitante nel processo decisionale e progettuale convinto di essere in grado di predisporre un nuovo modo di vita. Un insieme di scelte non sostenibili, né dal punto di vista ambientale, né sociale, né culturale.
Quale tutela allora? Quali rischi? E non solo per il territorio inteso come supporto fisico, ma per le persone e per il luogo abitato, per il paesaggio quotidiano dell’esistenza modificato e reso disorganico dagli interventi. Lo sperimentalismo architettonico in certi casi pregevole (dal punto di vista formale), si tradusse in architettura abitata, ma “senza” abitanti, mentre altre volte l’intenzione politica, amministrativa e tecnica diede luogo e persino favorì le pesantissime derive speculative. I processi degenerativi, quindi, non riguardarono solo il territorio ma l’abitare come condizione appropriativa dei luoghi e come “pratica” del quotidiano vissuto nella città.
Una prassi deleteria associata a una retorica della Ricostruzione, che viveva anche di rituali celebrativi (restituiti impietosamente nella narrazione di Rosi, non solo alla fine del film). L’8 settembre 1949, ad esempio, Fanfani, durante l’apertura di un cantiere nell’Aretino, tenne un comizio all’aperto, al suo fianco autorità politiche ed ecclesiastiche, davanti alla gente del luogo (nella scena finale di Le mani sulla città, Rosi ci mostra una circostanza analoga).
Napoli: da Capitale a teatro della speculazione
Le modificazioni urbane durante il ventennio fascista a Napoli, dove è ambientato Le mani sulla città, si concentrarono principalmente sulle zone centrali o intermedie, come i rioni Duca D’Aosta, Miraglia, Sannazzaro, San Pasquale a Chiaia, prevedendo il completamento della colmata di Santa Lucia su cui si edificò il quartiere omonimo e lo sventramento del quartiere San Giuseppe e Carità per la realizzazione di una parte pubblica della città, nonché il potenziamento dell’area portuale, il mercato ittico, la Mostra D’Oltremare. La logica dominante da un lato innescava e favoriva la speculazione, dall’altro generava la “periferia” intesa nel senso più deleterio, rompendo tra l’altro con l’urbanistica umbertina, più classica e monumentale. In sintesi, con scarsa o nulla attenzione ai ceti più disagiati, il progetto fascista puntava a far crescere l’economia considerando Napoli come il “porto dell’Impero” per la sua posizione privilegiata, rispetto ai domini coloniali.
In periodo post bellico la città dovette misurarsi con i numerosi danni prodotti dalla guerra, non unicamente relativi al comparto edilizio; molte opere infrastrutturali, infatti, furono distrutte durante il conflitto mondiale. Se il Piano Regolatore del 1939 (redatto in gran parte da Luigi Piccinato), può essere considerato la base dello sviluppo urbanistico del dopoguerra, nonostante fosse stato modificato da moltissime varianti, fu lo studio progettuale del PRG nel 1946, adottato dalla Giunta Comunale, che si confrontò con la città distrutta dalla guerra. Le prescrizioni di questo strumento ripresero in parte i contenuti del Piano del ’39, ma furono revocate nel 1952 quando Achille Lauro [5] divenne sindaco di Napoli.
Il PRG del ’46, comunque, non affrontava il “disegno” complessivo e unitario della città, limitandosi a proporre una strategia già presente nel Piano del ’39: la decongestione, attuata ipotizzando un insieme di nuclei satelliti intorno al centro storico, tra le aree agricole e sui versanti delle colline; la generale promozione dell’edilizia con un programma di espansione in assenza di tutela del paesaggio e del territorio.
In seguito, nel 1958, l’amministrazione produsse un Piano che fu bocciato dal Ministero dei Lavori Pubblici nel 1962. Tale strumento urbanistico disattendeva le indicazioni più significative del Piano del ’39, promuoveva numerose varianti delle prescrizioni di questo strumento, attivando legami tra iniziative di carattere pubblico e privato di carattere dichiaratamente speculativo: la città era merce di scambio ed era in vendita (for sale). In assenza di controllo sugli “abusi” speculativi e con la collusione di Enti tra cui l’Istituto Autonomo case Popolari, l’Incis (L’Istituto nazionale per le case degli impiegati statali), L’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), L’INA-Casa, e un buon numero di investitori privati, si prefigurò il “sacco edilizio” napoletano.
Un esempio: tra il 1957 e il 1961, la periferia nord-occidentale nota come “zona urbana 3B”, un’area contraddistinta da antichi casali, fu “sfigurata” da condominii alti sino a sei piani (l’incipit del film di Rosi mostra il fenomeno), edificati in base a un indice di fabbricabilità fondiario pari a 10 mc per ogni mq occupato. Sorsero quindi vari complessi di edilizia economica e popolare, quartieri ghetto dove furono “deportati” numerosi abitanti appartenenti ai ceti sociali più fragili. Tra questi nuovi quartieri: La Loggetta e Secondigliano (3800 e 7000 vani). Tali interventi riguardarono anche insediamenti della “cintura urbana”, come Pozzuoli o alcune aree a ovest della città centrale, come il quartiere di Barra e San Giorgio a Cremano. L’area metropolitana assunse quindi l’aspetto di un’estesa conurbazione, fortemente disequilibrata dove la periferia manifestava i propri nodi irrisolti, mentre si innescavano dinamiche involutive, come quelle relative alla Tangenziale [6] che ebbe notevoli side effects di livello speculativo, o alla costruzione del Viadotto Capodichino.
La figura di Achille Lauro ebbe, dunque, un impatto determinante durante circa un decennio, dal 1952 sino al 1962, quando i Gava presero il potere con una Giunta di centro-sinistra. Durante il periodo noto come “laurismo”, nonostante si cambiasse l’assetto complessivo della città, si edificarono numerose opere pubbliche, la cui costruzione diede lavoro stabile a numerosi operai edili. Il Municipio nell’ultima fase, gestito dai monarchici (unico caso nell’Italia democratica del dopoguerra), fu posto sotto inchiesta (del Ministero dell’Interno) rivelando una conduzione clientelare, l’affidamento di appalti senza concorso, la mancanza di coordinamento tra i diversi uffici amministrativi.
Tutti nodi espressi e mostrati con chiarezza nell’opera cinematografica di Francesco Rosi, Le mani sulla città. Il film, già nel 1963, restituì il ruolo dell’amministrazione di Achille Lauro, che produsse una notevole spinta speculativa, favorita non solo dalle politiche sulla casa ma dall’emanazione della legge nazionale nel 1947 sulla Ricostruzione. Questa concedeva ai proprietari l’80% di finanziamento; per ammortizzare la restante quota economica gli stessi proprietari iniziarono a vendere i diritti di ricostruzione a speculatori e affaristi. Anche per tale ragione si consolidò quel modello di sviluppo mostrato da Rosi, che erose un’enorme quantità di suolo agricolo, intere porzioni di territorio sulle colline (es. al Vomero), ridusse al minimo le aree verdi pubbliche e gli spazi di relazione (le piazze). Un esempio emblematico fu lo sventramento al quartiere San Giuseppe, e l’edificazione del grattacielo della Società Cattolica Assicurazioni (oggi Jolly Hotel).
Per tali ragioni si consolidò la nuova organizzazione urbana, di cui la periferia faceva parte. Il disvalore della periferia trascendeva la localizzazione, essa poteva definirsi tale non unicamente perché i nuovi quartieri erano allocati in aree marginali, ma perché in periferia abitavano quei soggetti marginalizzati che stavano subendo le scelte urbanistiche e politiche che distribuivano i benefici unicamente alle categorie privilegiate. Non bastava organizzare edifici residenziali e servizi secondo criteri funzionali ed estetici o soddisfare gli standard, non erano certo le quantità (verde pubblico; parcheggi; edilizia scolastica; ecc.) a determinare i luoghi in cui avrebbe potuto vivere la comunità: per attribuire valore e ribaltare il senso deteriore dei quartieri suburbani si sarebbero dovuti coinvolgere gli abitanti nel processo decisionale, piuttosto che proporre modelli abitativi tanto distanti da quelli storici.
La dinamica di appropriazione dei luoghi avviene, infatti, attraverso tempi lenti e sedimentati, o avviene quando e se durante la progettazione gli abitanti siano essi stessi progettisti dei propri spazi. Al contrario, le nuove realizzazioni seguivano un’idea preordinata, si misuravano con le urgenze della Ricostruzione, della disoccupazione e del rilancio economico, manifestando sia una grande violenza, che una debolezza endogena e offrendo agli speculatori occasioni per agire illegalmente sull’intero territorio nazionale.
Pasolini, ne La forma della città, un documentario del 1974, riflette su tale questione, mettendo in evidenza come alcuni interventi edilizi mirati alla costruzione della case popolari, agissero sia sulla forma fisica, sia sul senso dell’abitare. Qual era il capitale spaziale generato dai quartieri degli anni ‘50? Era di natura dissipativa, autoritativa, fisica e quantitativa. Carente sul livello esistenziale e su quello dei significati umani, era effetto di una intenzione politica, di un sapere tecnico specialistico, applicato da progettisti, amministratori e imprese, che “ridisegnavano” lo spazio secondo un modello, realizzando contraddizioni o fornendo soluzioni consolatorie ma stranianti alla popolazione residente. Espropriandoli sostanzialmente, del diritto allo “spazio”, sarebbe meglio dire del diritto alla “citta”.
Tra manipolazione politica e reazioni potenziali
Un ulteriore aspetto dell’esercizio del potere di Lauro sul contesto partenopeo fu il controllo mediatico e la manipolazione culturale, sia rispetto al cinema, sia riguardo alla letteratura. A partire dalla relazione sentimentale che Lauro ebbe con Eliana Merolla (un’attrice che egli sposò nel 1970, dopo una relazione iniziata nel 1957), prese corpo un progetto che l’armatore perseguì: sia utilizzare il cinema per promuovere un’immagine della città coerente con il modello di sviluppo che lo stesso Lauro promuoveva, sia ostacolare i prodotti culturali che criticassero il modello (Le mani sulla città, fu tra questi). Come afferma Goffredo Fofi nell’introduzione di un interessante volume di Fusco:
«La ricostruzione delle tentazioni e delle imprese cinematografiche di Achille Lauro fatta da Gaetano Fusco scava in materiali inediti, e sceglie opportunamente di allargare la visuale: non solo i due film prodotti da Lauro, ma i rapporti di Lauro con il cinema, e quelli con la cultura napoletana e non napoletana che si occupi di Napoli».
Nel 1955 Lauro aveva ideato un Festival del Cinema americano, poi cassato per l’opposizione del Governo nazionale italiano che promuoveva unicamente la Mostra del Cinema di Venezia. Inoltre, da quando nel 1942 Lauro ottenne inizialmente il 50% della proprietà (poi rilevata integralmente nel 1949) di un quotidiano con sede a Napoli, “Roma”, il più antico dell’epoca post unitaria (fu fondato nel 1862), l’armatore iniziò una campagna denigratoria nei confronti di libri come La pelle (di Malaparte) o di film come Catene (1949), Processo alla città (1952, di cui Rosi era stato aiuto regista), Luna Rossa (1951), che mostravano gli aspetti più aspri di Napoli, con forti riferimenti alla realtà quotidiana. La politica di Lauro, quindi, agiva tramite importanti veicoli culturali (i giornali), cassando una certa letteratura e uno specifico cinema in grado non solo di raccontare banalmente storie, ma di svelare alcuni oscuri meccanismi del potere.
Dopo un primo progetto abortito (Una medicina che si chiama Napoli, film prodotto dalla Lauro-film), Lauro chiese a Eduardo De Filippo di dirigere un film sulla città; al netto rifiuto di Eduardo, Lauro intraprese una serie di azioni vendicative che misero in difficoltà la lavorazione di alcune opere di De Filippo, tra esse Questi fantasmi [7].
Le mani sulla città, un film rivoluzionario
Gli anni ’60 in Italia furono caratterizzati da un’importante “battaglia” condotta in ambito urbanistico. Non solo riguardo alla casa ma rispetto alla Riforma urbanistica, promossa da alcuni urbanisti italiani, come Giovanni Astengo, e da alcuni politici. Tra essi Fiorentino Sullo che nell’aprile del 1968 non fu riconfermato come Ministro dei Lavori Pubblici, in una fase che decretò la fine del progetto di Riforma (la Riforma Sullo), poi definitivamente sconfessato dalla Democrazia Cristiana. Il progetto di Riforma sarebbe stato un crocevia non solo per l’urbanistica, ma per la storia economica nazionale. Sullo, Ministro D. C. dei Lavori pubblici (IV Governo Fanfani, 1962-’63) e nel successivo governo Leone, propose una Riforma che riorganizzava il regime dei suoli, modificando la relazione tra governo pubblico e proprietà privata [8].
Anche se la vicenda non si era ancora conclusa, nel ’63 quando uscì il film di Rosi, con esso si mise in scena il fallimento del Decreto Legge di Fiorentino Sullo. Le mani sulla città infatti prese netta posizione su quella riforma mancata e mostrò al grande pubblico i meccanismi della rendita e la connivenza tra proprietari, immobiliaristi e amministratori corrotti. Ancora oggi il film conserva vigore ideologico e, con una cifra giornalistica, coinvolge lo spettatore combattendone la passività e ponendolo in un rapporto dialogico con la storia.
Se nel 1963 il film fu uno strumento di denuncia e di resilienza urbana, oggi, oltre a essere un classico e un report sui rapporti illegali tra imprenditori e politica, è una fonte storica per comprendere quei cruciali anni ’60 in cui si compì una frattura irreversibile. La strada tracciata dall’insieme di urbanisti e politici onesti e idealisti fu sostituita da un’altra compagine, spregiudicata e affarista. I grandi ideali (ribaditi da Giovanni Astengo o dall’Istituto Nazionale di Urbanistica), l’attenzione al rapporto tra urbanistica, architettura e modi di abitare, la Ricostruzione pianificata, furono confutati da una prassi reticolare e capillare fondata sull’illegalità.
Il progetto sulla città riguardava non solo il legame tra amministrazione e tecnica urbanistica, ma era influenzato dalla “cultura” accademica. Fu fondamentale infatti il ruolo dell’Università, teatro di numerosi conflitti tra intellettuali. Fazioni e opinioni molto distanti si confrontarono sia durante la sindacatura di Lauro, sia in epoca successiva: Luigi Tronchetti, ad esempio, preside a Ingegneria e garante del “gavismo” (la corrente legata alla famiglia Gava), escluse figure che si opponevano alle politiche speculative, tra essi alcuni intellettuali, Roberto Pane, Luigi Cosenza e Domenico Andriello [9], come raccontano Belli (in Memory Cache) e prima ancora Allum.
Per rappresentare con chiarezza l’oscura complessità della Ricostruzione a Napoli occorreva, come lo stesso Francesco Rosi affermò, un “teorema”, così fu definito il film dallo stesso regista. Ciò permise a Rosi di raccontare un fenomeno di respiro generale e trarre conclusioni a partire dalle condizioni date e osservabili. Se il film è costruito come un teorema, esso comincia con un enunciato: dato un mq di territorio agricolo quanto aumenterà il valore se quel territorio diventerà edificabile, tra l’altro, a spese della collettività con le opere di urbanizzazione (luce, acqua e gas)? È in tal senso che Napoli viene raccontata come fosse il paradigma del disastro urbano e territoriale di quegli anni, simile ad altri contesti, come ad esempio Palermo.
Se in quegli anni numerosi autori trattarono la speculazione edilizia, tra essi Italo Calvino nel racconto omonimo del 1957 (La speculazione edilizia), Rosi si discostò da quella chiave, più narrativa e poetica, più intimistica, poco intrecciata con le questioni politiche. Egli cercò un’altra strada quando, peraltro, anche la rappresentazione delle città era in crisi per la diversa organizzazione urbana, cambiata fin dalla metà del ‘900 e per la diversa compagine umana insediata che abitava e percepiva lo spazio profondamente mutato nella forma e nei contenuti. I riferimenti cinematografici e letterari prediletti da Rosi restituivano un paesaggio sociale e umano senza ammiccamenti agli stereotipi consolatori, ed erano distanti da quel cinema “leggero” che negli anni del dopoguerra intendeva distogliere gli spettatori dalle macerie della guerra.
A tratti nel film di Rosi si risente, piuttosto, la drammaticità di autori locali, come Anna Maria Ortese che, in una sua opera del 1953 scrive: «Napoli era ciò che si sa, una colata di pus e dollari» (Ortese 1953:83). Come Anna Maria Ortese o come Curzio Malaparte, Rosi, “filmando” la città nell’immediato e contraddittorio dopoguerra, sollevò il velo del pittoresco e svelò come Napoli, che aveva in sé il germe dell’innovazione, vivesse anche di opacità, inabissamenti e dinamiche sotterranee. In tal senso una delle “figure” ricorrenti della letteratura più autentica e del film, è il sottosuolo [10], che ha forti rimandi al “ventre” di Matilde Serao. Per quanto l’asciutta scrittura del film di Rosi ci renda spettatori di una cronaca impietosa, ci mostra con la sua raffinata sceneggiatura una chiave simbolica e metaforica. Il sottosuolo, infatti, rimanda oltre che al ventre cavo e poroso della città, al sommerso instabile, parte ombra della porosité descritta fin dal 1925 da Walter Benjamin e Asija Lacis durante il loro soggiorno nella capitale partenopea.
La speculazione edilizia si manifestò a Napoli nel mezzo di una fase di speranza ed euforia nazionale, in cui si stava compiendo una profonda trasformazione del paesaggio italiano e si stava attuando il processo di segmentazione e di frammentazione del territorio (anche per i Piani che agivano secondo standard e zoning rigidi), di consumo e di sfruttamento del suolo e delle risorse, un’operazione compiuta soprattutto da una specifica categoria di attori socio-economici. Tale deriva testimoniò, inoltre, il fallimento di un’illusione che aveva fecondato l’urbanistica italiana degli anni ‘50 e ’60: il Piano come strumento legale di controllo e di anticipazione delle trasformazioni e come garante della legalità.
Rosi, che aveva già fatto esperienza cinematografica (come assistente alla regia di Visconti o di Zampa e come autore di altri lavori) [11], nel suo film contamina i generi, tra finzione e documentario, tra cronaca e novella e attinge a un corpus di opere di autori di documentari come Gregoretti e De Seta. La chiave narrativa di Le mani sulla città, pur avvalendosi della scuola neorealista – di cui Roma città aperta del 1945, di Roberto Rossellini, può essere considerato il manifesto – rappresenta però una “condizione sovrastrutturale” (la città del film è certamente Napoli, ma potrebbe essere qualsiasi altra grande città nel dopoguerra) resa con una tecnica che si avvale della “scrittura” di Raffaele La Capria il quale firmò il soggetto (insieme allo stesso Rosi) e la sceneggiatura con Enzo Forcella ed Enzo Provenzale. L’importante scrittore napoletano fu, tra l’altro, compagno delle lunghe passeggiate che Rosi fece per le strade di Napoli, prima di iniziare il film. Va sottolineato in questo caso che le matrici culturali furono filtrate dall’esperienza personale di entrambi, dal legame intimo e dalle idee politiche che sia Rosi che La Capria avevano con la città dove erano nati: essi non erano solo abitanti, ma “cittadini”.
Più che di neorealismo, allora, si dovrebbe parlare di realismo critico: se il neorealismo fu il cinema del quotidiano in cui il racconto obbedisce a regole narrative, pur restando fedeli alla realtà, il film di Rosi, costruito appunto come un teorema, giunge a conclusioni date a priori e dimostra l’assunto iniziale, attraverso l’esposizione esplicita della realtà politica in corso. Alcuni autori dell’800, esempio emblematico è E. Zola, avevano – come è noto – utilizzato questo stilema narrativo per riferire alcune derive degli strumenti urbanistici della seconda metà del’800: nella Parigi haussmanniana, la città come “merce” è lo spazio conteso, lo spazio da conquistare e sfruttare in termini di profitto economico. Le classi sociali (i borghesi), i politici e gli amministratori puntavano, con la complicità del Piano e dei meccanismi di attuazione (l’esproprio), ad accaparrarsi una migliore posizione sociale, i luoghi più rappresentativi non meno che ingenti quantità di danaro. Il capitalismo urbano raccontato da Zola in La curée (del 1871), ha significativi punti di connessione con la Napoli di Le mani sulla città di Rosi.
Anche l’eclissi della democrazia nella Napoli di Rosi, infatti, emerge con forza dalla contrapposizione profonda tra le categorie sociali e tra il senso simbolico collegato ad esse: il “noi”, la comunità fatta dalle persone più fragili vs il “loro”, i politici. Il “noi” assente e reso muto dalle scelte politiche, dalla corruzione, dalla connivenza tra i diversi livelli del potere, compreso quello ecclesiastico, non ha alcuna voce, se non quella che si ascolta in alcuni momenti tragici del film. Si tratta di una voce disarticolata e disorganica, per esempio la percepiamo nell’agitarsi delle mani disperate degli abitanti affacciati ad un balcone del quartiere diruto dove abitano, dopo il crollo dell’edificio in centro storico, certamente uno tra gli eventi chiave del film. Tale accadimento ha forti rimandi simbolici, è narrato con pathos ed è una frattura della narrazione, strumentale allo sviluppo della storia. Le macerie che ricordano alcune catastrofi del cinema neorealista (es. La terra trema), rimandano alla II Guerra Mondiale appena conclusa e rappresentano l’assenza della comunità come soggetto partecipante e decisionale a Napoli.
Il crollo è riconducibile a un’esperienza vissuta da Rosi durante le sue peregrinazioni esplorative in centro storico, prima delle riprese del film. Egli vide un edificio cadente vicino ad alcuni palazzi appena costruiti e scelse di rappresentare proprio con l’intensità del crollo la rovina dell’intera città in mano agli speculatori. Tecnicamente il crollo fu realizzato grazie alla collaborazione tecnica di Massimo Rosi, architetto e fratello del regista e fu inscenato riprendendo la reazione dei reali abitanti del quartiere, secondo lo stile neorealista.
In un’altra scena chiave Edoardo Nottola (lo speculatore)[12], affermando che “potere è volere”, mostra come potesse essere possibile cambiare quel PRG che non consentiva la speculazione. In un potente frammento del film si esplicita il controsenso del Piano (e di una intera disciplina) che non agiva affatto per il bene collettivo, ma veniva utilizzato per favorire un singolo imprenditore, in totale negazione del confronto democratico e degli ideali riformisti dell’INU, di alcuni urbanisti italiani o di Fiorentino Sullo, autore della Riforma mai realizzata.
Se il valore di un terreno può essere aumentato a dismisura per scopi personali, attraverso il sapere tecnico, il Piano legittimava la speculazione e favoriva il patto illegale tra gli imprenditori e la classe politica. Il Piano diventava così il dispositivo che certificava gli accordi illeciti e lo strumento di manipolazione delle trasformazioni che produceva benefici economici per i soggetti economicamente forti. Lo strapotere di Nottola era rappresentato anche dalla mappa che egli teneva dietro al suo tavolo e dal plastico che raffigurava la nuova espansione: la città ideale dell’imprenditore e la sua capacità di controllo e di dominio dello spazio urbano e degli abitanti.
Il dramma narrato venne messo in evidenza anche dalla musica di Piero Piccioni che, decontestualizzata dai luoghi, sottolineava lo stravolgimento del paesaggio urbano ferito a morte, segnato da sfregi e tagli, sfigurato da alti condomini su pilastri (come si vede in una delle scene iniziali del film).
Per dare enfasi a tale disfacimento, a tale scissione non cooperativa tra poteri in lotta, e a questo tragico conflitto non risolto, Rosi puntò l’obiettivo sui politici e sullo speculatore, lasciando la comunità sullo sfondo, ma sostanzialmente raccontandone la tragedia data dall’essere espropriata di ogni possibilità di azione e reazione, di percezione della propria condizione precaria e di ogni esercizio dei diritti basilari [13].
Perché Rosi definì il film un teorema? Rievocando una questione generale e sviluppando una vicenda particolare egli decise di raccontare le dinamiche in corso in città con l’inchiesta parlamentare (lo stesso Rosi la definisce così) condotta nel Consiglio Comunale di Napoli, inchiesta che denunciò il circuito illegale tra città da trasformare e potere. Infatti Nottola, lo speculatore, diviene addirittura assessore ai Lavori Pubblici, svilendo il rapporto esistente tra scelta politica e tecnica urbanistica. Una tragica, quanto diffusa condizione, alla quale nel film si oppone solo De Vita, unico soggetto “resiliente”, il consigliere comunale che si ispira alla figura di Luigi Cosenza, interpretato da un attore non professionista: Carlo Fermariello, un sindacalista del PCI che fu poi sindaco di Vico Equense, scelto per seguire la tradizione neorealista e per la sua somiglianza con Raf Vallone, un attore italiano che spesso interpretava sullo schermo personaggi positivi (vd. Riso amaro).
Francesco Rosi, con energia da militante, presenta i fatti in modo asciutto, apparentemente non prendendo posizione e non fornendo soluzioni, ma denunciando apertamente quanto realmente accadde durante la fase in cui Achille Lauro fu sindaco di Napoli e nella fase successiva. È in tal senso che il regista inaugurò un genere (tra fiction e report) non ancora diffuso in Italia, se non in circuiti specifici e da autori di documentari. In epoca contemporanea solo Ken Loach riesce, con modalità analoghe, a narrare sia la realtà distopica dei lavoratori vessati dal capitalismo, sia le eventuali strategie, a volte totalmente inefficaci, che i tartassati mettono in atto per reagire.
Il film di Rosi ha dunque un valore trascendente, mostrandoci quali fossero i rischi insiti all’interno della democrazia falsa o incompiuta, la corruzione del potere che nutre se stesso, ribaltando persino uno dei fulcri del governo democratico, cioè la decentralizzazione delle competenze amministrative e la cooperazione tra poteri diversi per il “bene comune”, qui totalmente annullato. Durante la fase della sindacatura Lauro, inoltre, per la prima volta in Italia, in epoca contemporanea, si manifestò un forte conflitto di interesse tra amministrazione e imprese. Nel film, infatti, possiamo vedere gli effetti della conduzione discrezionale del potere, quando il potere stesso è esercitato in forma personalistica da soggetti che rivestono cariche politiche e che favoriscono se stessi e i propri affari. Un tema, questo, più volte ripreso, sia in letteratura che al cinema: un episodio che utilizza la satira, è tratto dal film del 1976, Signore e signori, buonanotte, diretto da Age, Benvenuti, Comencini, De Bernardi, Loy, Maccari, Magni, Monicelli, Pirro, Scarpelli e Scola (riuniti nella “Cooperativa 15 maggio”). In Da malata a convalescente, che ha tra gli interpreti Marcello Mastroianni nelle vesti di Paolo T. Fiume, uno speaker conduttore di una tavola rotonda, si assiste a un surreale happening: quattro politici volgari e ineleganti, ex amministratori della città di Napoli, tutti con lo stesso cognome (Lo Bove) vengono chiamati a dire cosa avessero fatto per la città. I quattro ricevono insulti da parte dei telespettatori e, accusati di essere palesemente bugiardi, utilizzano un linguaggio retorico. Alla fine dell’episodio, parlando in dialetto napoletano, chiudono la tavola rotonda divorando letteralmente la città di Napoli, in un rito macabro: una sorta di “cannibalismo” diretto apparentemente verso la città (ma realmente diretto verso gli abitanti), ricostruita in un plastico di torrone [14].
Rosi, senza alcuna satira e in modo tutt’altro che didascalico, in Le mani sulla città, racconta come intorno a Lauro si raccolse il “blocco edilizio” che aggregava costruttori, proprietari di aree agricole, di lotti e di abitazioni e altri soggetti (gli investitori immobiliari, ad esempio) interessati al processo di trasformazione del territorio, che coincideva con la valorizzazione speculativa delle aree. Il consenso al laurismo ottenuto in fase iniziale, soprattutto dai soggetti economici che avrebbero ricavato benefici dalla trasformazione di Napoli, ebbe anche aspetti populisti perché fondato sul culto del “Comandante” (così veniva chiamato l’armatore) che si atteggiava a difensore della tradizione partenopea, contro le ingiustizie subite dalla città da parte dello Stato nazionale.
Quando iniziò il declino del potere di Lauro, anche perché dal 1957 si riscontrarono irregolarità, fu sciolto il Consiglio Comunale, e iniziò l’ascesa della famiglia Gava. Antonio Gava, per esempio, dal 1960 al ‘69 fu presidente della Provincia di Napoli. La sua direzione fu contraddistinta da strategie efficienti, logiche e razionali, e dalla collusione con la camorra. Discostandosi dall’operato di Lauro che aveva lanciato la speculazione edilizia, anche attraendo grandi società immobiliari che miravano a costruire appartamenti lussuosi, Gava da un lato agiva secondo quanto richiesto in ambito economico, promuovendo progetti pubblici, dall’altro seguiva un modello illegale, clientelare e personalistico.
Conclusioni
I progetti sia quelli speculativi, sia quelli nazionali che intendevano migliorare la qualità della vita delle persone, basati sulla pianificazione e sul controllo attuativo, saturavano (e saturano) le possibilità di immaginazione e di coordinamento degli abitanti negli anni ’60 a Napoli come in altre grandi città. Era impossibile per gli abitanti comuni partecipare, a causa delle decisioni prese dall’alto, ed era impossibile acquisire coscienza urbana e capacità di valutazione dei rischi potenziali. In tale assetto era difficilissimo per gli abitanti attivare un processo cognitivo che li portasse ad agire sul progetto sociale e materiale dello spazio (rendendolo proprio), mancando agli abitanti stessi ogni possibilità di parola.
In un contesto del genere che precludeva l’appropriazione dello spazio urbano, quali erano le reazioni? La condizione vissuta dagli abitanti determinava una gamma di “sentimenti”: dall’aderenza al modello proposto, all’acquiescenza nei confronti dello stesso, al rifiuto e all’alienazione di chi avvertiva straniamento dai luoghi e dallo spazio sia domestico, sia aperto. Il sistema degli spazi pubblici di una città storica, così come l’organizzazione della residenza, ha una precipua struttura. Essa non va guardata come configurazione estetica o immutabile, ma come conformazione fisica, sociale, simbolica, storicizzata, umana strettamente interconnessa con aspetti economici, politici e civici: la stessa modalità di progettazione così come la forma dello spazio, sia quello delle infrastrutture, che delle residenze o quello degli spazi pubblici, induce comportamenti sociali, cooperazione, conflitto, incontri che vengono vissuti day by day anche se non portati al livello della consapevolezza. La “base” agisce e la comunità si configura anche per e nello spazio urbano e quest’ultimo influenza le forme di partecipazione, di cooperazione e di conflitto; questo, se trasformato in confronto e attraverso lo scambio dialettico tra le persone e gli abitanti, rappresenta uno dei capisaldi della democrazia urbana. Esisteva ed esiste quindi un feedback tra il comportamento civico e politico e lo spazio abitato, ed è il tal senso che lo spazio progettato e abitato era (o non era) polis.
È possibile affermare che, oltre alle forme di speculazione, illegali e rovinose per la struttura urbana, anche l’organizzazione generale dell’urbanistica italiana [15] e le forme autoritative del progetto produssero altrettanti rischi, più sottili, forse, meno espliciti riguardo al prendere parte e agire politicamente, nel quartiere e nella città intera. Riguardo a Napoli alcuni stralci di Giovanni Astengo, tratti dall’editoriale (La svolta) del n. 65 del 1976 di «Urbanistica», numero integralmente dedicato a Napoli, indicano quanto la storia delle trasformazioni nella capitale partenopea fosse considerata fallimentare. L’urbanista torinese affermava che
«Trent’anni di sfacelo in questo nostro Paese non potevano non produrre concentrazioni mostruose. Fra esse, Napoli, dove l’accentuazione del ‘degrado urbano’, sotto l’aspetto fisico, così vistosamente percepibile a occhio e sotto il profilo socio-economico, altrettanto drammaticamente valutabile in termine di scuola, occupazione, abitazione o finanza pubblica ha dato luogo a una situazione di punta, in cui i singoli valori negativi delle varie componenti non controbilanciati da alcuni indizi di segno contrario, hanno toccato vertici eccezionali e, in complesso in sinergismo, ne hanno operativamente esaltato gli effetti perversi- “La ‘rivolta’ civile di Napoli del 15 giugno ‘75, e il 20 giugno ’76” – prosegue Astengo – è il segno, questo sì positivo ed evidente, che il fallimento gestionale in questa nobilissima città ha veramente toccato il fondo e che urge, col ricambio, una sostanziale inversione di rotta. In questa prospettiva un’attenta analisi s’impone. Questo l’assunto della cronaca ragionata del trentennale malgoverno urbanistico napoletano, ricostruita su documenti anche in parte inediti, da Vezio Emilio De Lucia e Antonio Jannello, che «Urbanistica» ha sollecitato per il presente fascicolo, ad esemplificare l’epilogo si spera di un’epoca. Il complesso intrico delle vicende urbanistiche napoletane è qui inseguito nei due distinti, anche se inscindibili, momenti della progettazione e della gestione, nelle loro interdipendenze e nei loro conflitti con risultati sorprendenti, che confermano tesi in parte note, ma mai svolte in modo così ampio e metodologicamente corretto. Risulta dimostrato che la vera crisi di Napoli – prosegue Astengo – non nasce dall’incapacità di penetranti analisi o dalla povertà di idee progettuali ché, anzi, i momenti progettuali giungono di tempo in tempo a coerenti e affascinanti proposte, anche formalmente definite, ma essa risiede in una pervicace azione disgregatrice delle scelte progettuali che anima una prassi gestionale in costante contraddizione con gli obbiettivi pubblici di piano ed in violenta violazione delle norme. La crisi di Napoli infatti è tutta qui: è il potere gestionale che ha sconfitto i piani progettati e deliberati nell’interesse pubblico; è l’amministrazione quotidiana, annuale, pluridecennale che ha reso possibili la manipolazione dello sviluppo e la mortificazione di una grande città. L’uscita dalla crisi impone, dunque, di ricostruire anzitutto un corretto processo gestionale, capillarmente diffuso e democraticamente controllato, capace di raccordare le scelte generali assieme a quelle operative e specifiche e di estrarre, dalla realtà minuta e dalla folla dei problemi che premono, l’indicazione delle operazioni prioritarie da raccordare alle stesse scelte di fondo».
Le dinamiche in ambito urbano e territoriale generano conflitti, le scelte urbanistiche stabiliscono priorità, determinano scenari, organizzano regole concorrenti, che si esprimono non solo tramite modalità logico-formali. I conflitti, infatti, possono essere indagati e interpretati come esperienze osservabili, esplorando le pratiche dal basso sottese e la loro “narrazione”. In tal senso i soggetti più marginali, il sistema dei nessi sociali e delle pratiche (a scala territoriale e di quartiere) agiti da essi, possono suggerire un ribaltamento della prospettiva dichiaratamente top-down, che era in quel periodo usuale e imperante.
Le scelte urbanistiche, in teoria, dovrebbero riconoscere, integrare e mitigare i conflitti, operando sulla natura e sulla intensità di essi, trasformando la spinta distruttiva in progetto collettivo, la spinta eversiva in idee condivise collettivamente, traslando la pulsione individuale sul livello civico. Le politiche urbane non sono mai neutrali e, pur relazionandosi con le teorie, non dovrebbero elaborare modelli ideali, ma dovrebbero essere considerate “pratiche” in progress e in relazione con l’evoluzione urbana e con l’azione quotidiana delle persone. L’idea della quotidianità, però, soprattutto nell’Italia post guerra, era guidata da una visione politica unilaterale che orientava le scelte tecniche e identificava un insieme di decisori (i politici e gli attori economici) in posizione sovraordinata e scissa dalla comunità.
Il conflitto (purtroppo non agito democraticamente) in quella fase non fu unicamente sull’occupazione dello spazio, ma sull’elaborazione delle scelte, sulle localizzazioni, sui benefici, sul dove edificare, e sulle modalità di occupazione dello stesso spazio, sul chi e sul come realizzare le previsioni. Ripetendo, con diversa declinazione, il perenne conflitto sull’allocazione delle categorie sociali nello spazio, sulla sperequazione economica e sociale, sulla destinazione d’uso, sulle scelte compiute (quali e da chi) come era accaduto durante la Rivoluzione industriale in Europa e in America. Questo nodo, in epoca post bellica in Italia, non fu affrontato. La comunità, infatti, non ebbe alcuna possibilità di partecipare, né manifestò il proprio dissenso. La città fisica e sociale, la città della Ricostruzione fu anche effetto di tutto questo.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
[*] Una versione inedita del presente studio è stata pubblicata su AIMS Geosciences, Special Issue “Sustainability and Risk Perception: multidisciplinary approaches”, con il titolo: “Existential risks of an excluded community: Hands on the city by Franco Rosi”.
Note
[1] Amintore Fanfani, nel giugno del 1948 al Consiglio dei Ministri, illustrò le sue analisi sul fenomeno della disoccupazione: il 6 luglio fu approvato il disegno di legge sull’occupazione operaia: la ricetta per il rilancio dell’economia italiana, post II Guerra mondiale si concentrava sull’edilizia che, nel contempo, forniva lavoro stabile e case agli italiani a basso reddito.
[2] L’iniziativa era collegata a piani e programmi mirati a istituire forme di Welfare. Il riferimento emblematico è il Piano Beveridge (dal nome dell’autore) Consegnato a Churchill il 20 novembre 1942, il Piano prevedeva sussidi all’infanzia, estesi servizi sanitari e di riabilitazione, mantenimento degli impieghi, riformando politicamente la società.
[3] Amintore Fanfani (1908-1999) fu presidente del Senato, Presidente del Consiglio dei Ministri fra il 1954 e 1987 e, inoltre, fu segretario della Democrazia Cristiana.
[4] Guide per coordinare la progettazione ricche di indicazioni, abachi, esempi tipo, i manuali tentavano anche di evitare l’eccessiva omologazione, inducendo i progettisti a guardare i contesti locali, non solo a livello edilizio, ma riguardo ai paesaggi e ai centri storici, al clima, ai sistemi costruttivi, scartando la prefabbricazione.
[5] Sindaco di Napoli dal 1952 al 1957 Lauro fu un armatore, un editore e un politico Il periodo della sua leadership venne definito “laurismo” e fu contraddistinto da una rete di interessi economici e imprenditoriali e da un consenso populista. Nel 1933 Lauro, nato nel 1887, si iscrisse al Partito Nazionale Fascista aderendo poi, dopo la Liberazione, al Movimento monarchico
[6] Il progetto iniziò nel gennaio del 1968, grazie a una convenzione tra ANAS, Infrasud, gruppo IRI-Italstat (tra i maggiori investitori: 70%), con la compartecipazione del Banco di Napoli, il costo venne stimato in circa 46 mld di lire. Il primo tratto fu inaugurato nel 1972.
[7] Una commedia in tre atti, del 1945. La prima fu data all’Eliseo a Roma, nel 1946. Dall’opera fu tratto un film con Renato Rascel e Franca Valeri; nel 1967, con la regia di Renato Castellani, venne prodotto un remake con Vittorio Gassman e Sophia Loren.
[8] La Riforma, infatti, prevedeva la separazione tra la proprietà delle aree e il titolo dei proprietari di edificare sulle aree, tramite la sistematica appropriazione pubblica della rendita fondiaria, che si sarebbe realizzata realizzata nelle trasformazioni urbane.
[9] Figure di spicco a Napoli: Roberto Pane, storico dell’arte di formazione, professore di Caratteri stilistici e costruttivi del monumenti, coordinatore di gruppi di ricerca e autore di Piani regolatori, si impegnò sul difficile rapporto tra nuovo e insediamenti storici; Luigi Cosenza si laureò in ingegneria fu attivo come architetto, urbanista e come voce critica contro la speculazione, redigendo Piani e progetti e pubblicando contributi, durante la fase della Ricostruzione (es. i Piani particolareggiati per Fuorigrotta e Bagnoli; progetti per l’INA-Casa e per lo IACP); Domenico Andriello fu, tra l’altro, componente del Consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e attivo oppositore della speculazione edilizia, scrivendone anche sulla rivista «Urbanistica».
[10] Fin dalla metà degli anni ‘60 il sottosuolo fu oggetto di studio. Una frana dovuta a forti acquazzoni rovinò su un edificio di sette piani (al Parco Mirella) che si affacciava su un baratro; in quella occasione un gruppo di esperti chiese che non si rilasciassero più licenze edilizie in zone critiche, come il Vomero alto.
[11] Tra essi: La sfida (1958); I magliari (1959); Salvatore Giuliano (1962). Fin dal Rosi 1947 iniziò a lavorare con Visconti e Zeffirelli come assistente alla regia di La terra trema, poi per Senso (1953) di Visconti e come sceneggiatore per il film Bellissima del 1951 di Visconti, con il soggetto di cesare Zavattini. Nel 1952 Rosi scrisse insieme a Ettore Giannini il soggetto di Processo alla città diretto da Luigi Zampa e diresse Camicie rosse. In un susseguirsi di esperienze come sceneggiatore e regista, Rosi approdò presto al “suo” cinema in cui affrontò l’evolversi della criminalità e della camorra nella sua Napoli (con La sfida) e in cui mise a punto un metodo, tra analisi storica e indagine, che gli consentirà di mostrare le sfumature di verità non esplicite: Le mani sulla città, premiato a Venezia con il Leone d’Oro (XXIV Festival del Cinema), rappresenta un punto elevatissimo di tale orizzonte, sia sul piano formale, sia per quanto riguarda i contenuti espressi.
[12] Alcuni tra gli interpreti e i personaggi del film: Rod Steiger: Edoardo Nottola; Salvo Randone: De Angelis; Guido Alberti: Maglione; Carlo Fermariello: Consigliere De Vita; Angelo D’Alessandro: Balsamo.
[13] Può essere utile ricordare come altri autori coevi avessero proposto sia in termini teorici sia empirici una modalità diversa, tra essi Danilo Dolci che diede la parola ai deboli e agli esclusi, trascrivendo fedelmente le voci di molti di loro, raccogliendo le interviste in volumi e agendo sul campo in aree fortemente disagiate.
[14] Da malata a convalescente: https://wwwyoutubecom/watch?v=3Y25bbC4pA4.
[15] Il n. 65 di «Urbanistica» del 1976 fu interamente dedicato a Napoli. Curato da Vezio Emilio De Lucia e Antonio Jannello, affronta la storia della trasformazione urbana e della speculazione a partire dal Piano del 1939.
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, urbanista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. Tra le sue ultime pubblicazioni, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi, 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.
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