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Le mongolfiere del poeta di strada

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Pietro Ulmo

di Antonino Cangemi

«Un c’è festa, un c’è alligrizza”/ si nun c’è Petru Sasizza». Nulla meglio di questi versi in rima baciata possono presentare Pietro Ulmo, conosciuto dai più come Petru Sasizza. Nomade per vocazione, Pietro Ulmo girovagò per mezza Sicilia: non vi fu festa paesana che non lo vide protagonista. Conosceva a memoria tutte le ricorrenze religiose dei vari paesi della Sicilia, soprattutto del Palermitano, e le onorava con la sua partecipazione estrosa.

Alto, magro, il viso scavato, allungato, quasi una maschera in cui erano scolpite l’atavica povertà e l’ingenuità dei bambini e dei poeti, il suo sguardo svagato si perdeva nella meraviglia delle piccole cose: i palloncini che si alzavano verso il cielo, le bandierine da piazzare in punti strategici, le carte colorate della festa.

Ad ogni sagra paesana Pietro Ulmo era lì, nel palcoscenico della piazza (il suo habitat naturale), ricco del suo composito armamentario: il tamburino attorno al collo, farina, acqua, batuffoli di bambagia, alcool, pennelli, cartoncini riciclati, ferro filato, e tante altre cianfrusaglie che uscivano, come conigli, dalle sue tasche. Il tamburino era, se così si può dire, la sua dotazione professionale: suonarlo giustificava formalmente la sua presenza all’evento da festeggiare. Pietro Ulmo non aveva un mestiere, o meglio ne aveva più di uno, e tra di essi vi era pure il tamburinaio. Tutto il resto che si portava appresso era funzionale alle sue attività – non “istituzionali” ma di maggiore richiamo –  di animatore delle feste: la costruzione e il volo dei palloncini aerostatici, l’affissione sulle porte e sui muri dei paesi di manifesti poetici.

1Quando alle feste patronali spuntava l’esile e quasi lunare figura di Petru Sasizza, un nutrito gruppo di bambini (e di adulti bambini) lo circondava. Tra acclamazioni, Pietro usciva fuori gli strumenti che maneggiava con consumata destrezza per dare vita alle sue mongolfiere. La loro struttura faceva perno sul ferro filato attorno a cui adagiava sottile carta velina colorata con su disegnati “i stiddi, u suli, a luna”. Il tutto era impastato con farina e acqua, che facevano da collanti naturali. A mettere in moto le “macchine” volanti, le sue rudimentali mongolfiere, era un batuffolo di bambagia, “a màttula”, imbevuto di alcool, “u spiritu”. Fondamentale era indovinare il giusto dosaggio di alcool: se eccessivo il pallone s’infiammava, se insufficiente il volo non decollava.

Non tutti i palloncini si libravano in area per la gioia fanciullesca di seguirli allontanarsi sempre più in alto e lontani: alcuni, più sfortunati, tentavano improbabili traiettorie, osteggiati dal vento nemico, per franare sconfitti per terra in un rovinoso patatrac. Ma anche quei fallimenti ugualmente divertivano il pubblico: Petru Sasizza seguiva i palloncini nel loro bizzarro percorso quasi volesse incoraggiarli a volare, o soccorrerli, amorevolmente, nella caduta; e la gente gli si accodava, partecipe della sorte delle sfere colorate e paga di uno spettacolo che univa comicità e pathos: la comicità la garantiva la maschera di clown buono di Petru Sasizza, il pathos il destino imprevedibile di quei voli.

Pietro Ulmo nacque a Mezzojuso il 24 luglio del 1912. Il padre, Lorenzo Ulmo, era un manovale di Collesano, figlio di ignoti, che sposò a Mezzojuso, dove venne a vivere, Pasqua Nuccio: dalla loro unione fu generato Pietro. Pietro Ulmo imparò da piccolo vari mestieri per sbarcare il lunario, quello di calzolaio soprattutto, ma anche di indoratore e di “tamburinaio”. Frequentò e concluse la scuola elementare distinguendosi per l’ottimo profitto. Fu proprio a scuola che gli affibbiarono la ‘nciuria di “Sasizza”, che si sarebbe poi accollato per tutta la vita. Ebbe tre fratelli, tutti deceduti giovani, e una sorella. L’arte di costruire palloni aerostatici l’apprese nel Dopoguerra da un sacrista della Matrice di Ciminna, e l’affinò frequentando “mastri” di Canicattì.

2Pietro Ulmo non fu solo l’uomo che faceva volare i palloncini, ma anche, a suo modo, un poeta di strada. Intendiamoci, i suoi versi non meritano di essere ricordati per un particolare valore estetico; e però, le sue rime baciate, in dialetto o in italiano, offrono un ulteriore contorno, originalissimo, a un personaggio originale di per sé e di rara genuinità: la genuinità di una comunità, oggi scomparsa o in via d’estinzione, che si radunava sotto il campanile di un piccolo paese. I suoi erano perlopiù versi dettati da ricorrenze religiose legate, come per i palloni aerostatici, a sagre paesane. Così ad esempio l’omaggio al SS.mo Crocifisso di Petralia Soprana: «Crocifissu di Petralia/ sempri ‘nzigna e nni talìa/ nni talìa cu li sciuri/ e Vui siti Sarvaturi./ Com’è bellu ù Vostru Regnu/ nni piaci curtivallu, vasamu/ à Trinità cu divuziuni e pietà»; oppure al Crocifisso di Villafrati: «Onoriamolo sempre e spesso Gesù il Crocifisso/ o tu che passi lo vedi e credi che la fede c’è/ col segno della croce saluta il Cristo Re».

Allo stesso modo Ulmo osannava i santi patroni di piccoli centri. San Ciro a Marineo: «E picchì un viru, v’ammiru, ca siti tutti divoti di San Ciro»; San Vitale a Castronovo di Sicilia: «Tutti i santi danno gloria a Dio/ e con questi versi spero di farlo anch’io/ E i tuoi fedeli che a te fan ricorso/ intercedi per loro col tuo soccorso».

3Le sue poesie traevano linfa da una religiosità semplice quanto sentita, e la sua adesione al Vangelo, nello stupefacente candore, era rigorosa e ammonitrice, come risalta nei versi dedicati a San Giuseppe, protettore di San Giuseppe Jato, e agli abitanti di Giarratana:  «Ma lo pensiamo di osservare il Vangelo/ e amare il prossimo come suo fratello?/ Questo deve essere San Giuseppe Jato / con San Cipirello»; «Auguriamo che questa vostra fede vi sia sincera, / fedele ed umana a Giarratana, / altrimenti è come il cattivo suono di una campana».

Tante volte si trattava di manifesti che vergava su carta riciclata col pennarello e affiggeva sui muri dei paesi. Uno di questi sui muri di Alia acclamava Sant’Anna: «Matri Sant’Anna Matri/ Sant’Anna la vostra figghia/ ‘ncelu cumanna e pi la nostra/ divuzioni livatici ogni dolu o confusioni».

Ma il “fanciullino” Pietro Ulmo era pure ispirato da tragici fatti di cronaca, come il terremoto che scosse la Sicilia occidentale nel 1968 («Lu quindici jannaru, chi spaventu,/ durmìa la genti tutta spinsirata/ ma poi successi tuttu in un momentu,/ ca ogni cosa vinni sconquassata»), e animata da verve polemica come quando, in occasione della competizione a “Campanile sera” a cui partecipò Monreale, nel tessere le lodi di quella cittadina, si scagliò contro Indro Montanelli, reo di avere disprezzato, in un’intervista a un giornale francese, la Sicilia («E a dispetto di Indro Montanelli/ per le sue frasi a nostro riguardo/ poco riguardose e belle lui che ha visto che i Siciliani/ hanno dato prova di gran cervello»).

4Pietro Ulmo viveva solo in una campagna nei pressi di Mezzojuso. La sera lo attendevano un paio di cani randagi e un plotone di gatti: nel suo micromondo che non conosceva la cattiveria, cani e gatti convivevano d’amore e d’accordo. Non possedeva mezzi di trasporto e si spostava nei vari centri della Sicilia chiedendo passaggi: li otteneva facilmente perché la gente, anche se non lo conosceva, non diffidava del suo aspetto trasandato e si fidava dei suoi occhi buoni. Eppure, anche lui, rimatore estemporaneo testimone vivente della “resistenza” della civiltà contadina fondata sulla solidarietà, si era accorto, come il poeta Pasolini, della “scomparsa delle lucciole”, del mutamento antropologico delle nuove generazioni. Nei suoi ultimi anni, durante una cerimonia religiosa aveva confidato a un amico, naturalmente con una rima baciata: «Viene Natale ma molta gente rimane tale e quale». E in una delle sue ultime composizioni aveva confessato, come in un presagio della sua barbara uscita dalla vita: «Ormai con l’età e l’esperienza/ non sento l’entusiasmo/ di fare gli auguri e neppure omaggi/ che la gente perde tempo,/ forti sono i malvagi/ specie quelli che a me/ non danno passaggi».

2E proprio gli furono fatali l’ultimo passaggio e l’oblìo dei valori umani. Il pomeriggio del 9 agosto del 1999 Pietro Ulmo, mentre usciva da un’auto che gli aveva offerto ospitalità, fu travolto da un furgone sulla statale per Agrigento all’altezza del bivio per Villafrati. Chi lo investì non si fermò per soccorrerlo. Il cronista de “Il Giornale di Sicilia” aveva avvertito: «La Polstrada è certa di rintracciare l’investitore in poco tempo. Per questo, per non peggiorare la situazione, lo invita a farsi vivo». Sono passati quasi vent’anni anni e ancora lo si attende.

Così ebbe fine la lunga e faticosa avventura in questa terra di Petru Sasizza. Non ebbe fortuna, il poeta di strada amico dei bambini, e fu pure cattivo profeta. Aveva detto: «Da vivo sono molto bistrattato, maltrattato, da morto sarò molto ricordato». E invece pochissimi ne hanno memoria (meritoria la biografia di Salvatore Bisulca). Anche se nel cielo, si è sicuri, tra gli angeli e i santi che in vita osannava sta conoscendo la sua gloria, e i fanciulli festosi giocano con i suoi palloncini.

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018

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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, ha pubblicato, per le edizioni della Regione, Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi (Palermo, 2007) e Mobbing: saperne di più per contrastarlo (Palermo, 2007); con Antonio La Spina, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, Milano 2009); I soliloqui del passista (Zona, Arezzo 2009); Siculaspremuta (Dario Flaccovio, Palermo 2011); Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, Trapani 2013); Il bacio delle formiche (Lieto Colle, Faloppio-Como 2014); D’amore in Sicilia. Storia d’amore nell’Isola delle isole (Dario Flaccovio, Palermo 2015). Collabora con i quotidiani «La Sicilia», «Sicilia Informazioni» e, saltuariamente, con «La Repubblica» (edizione di Palermo).
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