Le mutilazioni genitali femminili sono uno di quegli argomenti che immediatamente suscita una concomitante reazione di repulsione per la pratica e di istantanea empatia nei confronti delle donne che ne hanno fatto esperienza. Da qui al passaggio verso una visione stereotipata del fenomeno e a una rappresentazione per luoghi comuni degli attori/attrici coinvolte, il passo è breve. Al contrario il fenomeno è estremamente complesso e non lo si può approcciare se non con uno sguardo aperto, che tenga conto di tutti i fattori che lo definiscono e influenzano, dagli aspetti sanitari a quelli sociali, fino alle sue connotazioni prettamente antropologiche. L’esperienza della migrazione si aggiunge a questa complessità, portando importanti elementi di cambiamento nel modo in cui donne e uomini stranieri incorporano e danno significato alla pratica, nell’universo delle relazioni sociali in cui sono immersi.
Parlare di mutilazioni genitali femminili significa innanzitutto fare riferimento ad una pluralità di pratiche, esaustivamente classificate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in quattro categorie:
- escissione del prepuzio con o senza l’escissione di parte o dell’intera clitoride;
- escissione del prepuzio e della clitoride insieme alla rimozione parziale o totale delle piccole labbra;
- infibulazione o circoncisione faraonica: escissione del prepuzio, della clitoride, delle piccole labbra con escissione parziale o totale delle grandi labbra e con cucitura e restringimento dell’introito vaginale;
- inclassificato, comprende varie pratiche di manipolazione dei genitali femminili.
L’universo delle pratiche di manipolazione dei genitali femminili è quindi variegato e non tutte le forme di escissione causano effetti nocivi per la salute della donna e lesivi delle aree legate all’attività sessuale. Senza dubbio tra queste l’infibulazione è la più invasiva e quella che maggiormente compromette le funzioni fisiologiche dell’apparato uro-genitale, provocando tutta una serie di complicanze anche molto gravi per la donna. Nonostante l’opinione diffusa che associa le pratiche escissorie all’Islam, le mutilazioni genitali femminili sono una pratica antichissima, antecedente all’arrivo delle grandi religioni monoteiste, e le cui origini si perdono negli oscuri recessi della storia umana.
Pur essendo riscontrabili anche in aree geografiche molto lontane tra loro, dall’Indonesia al Sud America, i cosiddetti Paesi a tradizione escissoria sono circa una trentina e tutti localizzati nel continente africano, con una forte preponderanza della pratica nel Corno d’Africa e nelle comunità di religione musulmana. Tuttavia le motivazioni legate al perdurare della pratica vanno ricercate non tanto nelle prescrizioni religiose quanto nel tessuto delle relazioni sociali dei contesti di vita delle donne stesse, laddove le mutilazioni genitali femminili divengono uno degli strumenti necessari per l’integrazione delle donne nella comunità locale. Attraverso le pratiche escissorie, la donna accede all’opportunità di sposarsi e, attraverso il matrimonio, di acquisire il ruolo di moglie e madre, che le permetterà così la piena integrazione nella collettività.
In questo senso le mutilazioni genitali femminili possono essere iscritte nell’ambito delle disuguaglianze di genere (Lombardi 2005), in quanto tendono ad essere più presenti in quei contesti in cui la posizione della donna nella società rimane confinata al proprio ruolo di moglie e madre, e dove le donne hanno minor accesso a livelli di istruzione elevati e a posizioni lavorative autonome rispetto agli uomini. Non è quindi casuale che nei Paesi a tradizioni escissoria le pratiche mutilatorie siano più diffuse nei contesti rurali e tra le donne con un livello di istruzione più basso.
Molte sono le campagne di contrasto alle mutilazioni genitali femminili portate avanti proprio in questi contesti ed è possibile dire che, a seguito di queste azioni, la pratica risulta in significativo declino, perlomeno in alcuni di questi Paesi. Secondo i dati UNICEF, in Burkina Faso la percentuale di ragazze tra i 15 e i 19 anni sottoposte alla pratica è passata dall’89% nel 1980 al 58% nel 2010, in Egitto dal 97% nel 1985 al 70% nel 2015. Ancora una volta la correlazione con l’istruzione è fondamentale, giocando un ruolo primario nel favorire i cambiamenti sociali: più le madri sono istruite, minori sono i rischi che le loro figlie vengano mutilate e più le ragazze frequentano la scuola, più facilmente possono confrontarsi con altre persone che rifiutano tale pratica. Va detto che, nonostante in quasi tutti i Paesi a tradizione escissoria, esistano leggi che condannano le mutilazioni genitali femminili, la pratica continua ad essere diffusa laddove non siano presenti azioni di promozione di un effettivo cambiamento sociale e culturale. Questo ad indicare che lo strumento sanzionatorio da solo non agisce in modo efficace come prevenzione delle mutilazioni genitali femminili.
Spostando l’attenzione dal continente africano all’Europa, è facile rilevare che l’esperienza della migrazione sicuramente influenza significativamente l’approccio alla pratica nelle donne straniere nei Paesi di accoglienza. Il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili ha iniziato ad interessare l’Italia soltanto a seguito del consolidarsi di una importante componente straniera proveniente dai Paesi a tradizione escissoria, portando i servizi, soprattutto quelli sanitari, ad interrogarsi sulle modalità di accoglienza e di presa in carico di donne escisse. Il rischio sempre dietro l’angolo è quello della semplificazione, che avvalla un certo stereotipo di donna africana, vista come soggetto inerme e inconsapevole, vittima delle tradizioni e del potere maschile, incapace di emanciparsi e di ribellarsi a questo status quo (IRER 2010).
In realtà lo scenario che emerge dalle narrazioni quotidiane delle stesse donne straniere scardina questo immaginario e presenta una realtà molto più composita e vitale, con una costante rinegoziazione tra tradizione e modernità operata da tutti gli attori coinvolti: le donne straniere ma anche gli uomini, i rappresentanti delle comunità religiose e, non ultimi, gli operatori socio-sanitari che si interfacciano quotidianamente con il mondo dei migranti.
Ma qual è la dimensione quantitativa del fenomeno? A differenza di altre tematiche collegate con la salute della popolazione straniera in Italia, nel caso delle pratiche escissorie risulta estremamente arduo ottenere dati numerici realistici che diano conto della prevalenza del fenomeno in Italia. L’aver vissuto una pratica mutilatoria è qualcosa che rimane spesso all’interno della cerchia domestica, e ben difficilmente le donne escisse metteranno a parte qualcuno di questa esperienza se non nel caso si sottopongano a visite specialistiche di tipo ginecologico. Ne segue che sia possibile avere una fotografia del fenomeno in Italia soltanto in termini di stime, attraverso studi di carattere statistico e demografico, che sulla base di campioni accuratamente costruiti possano dare un’idea il più possibile realistica di quante donne escisse siano attualmente presenti in Italia. Un interessante studio pubblicato agli inizi del 2018 sostiene che nel 2016 in Italia vi fossero tra le 60 mila e le 80 mila donne straniere con più di 15 anni con FGM/T; e che tra il 2014 e il 2016 in Italia ci fossero tra le 11 mila e le 13 mila donne richiedenti asilo con più di 15 anni con FGM/T, in particolare necessità di assistenza (Ortensi et al. 2018)
Volendo scendere nel campo delle rappresentazioni e dei significati attribuiti alle mutilazioni rituali, dobbiamo necessariamente fare riferimento a modalità di ricerca più qualitative, che ci permettono di comprendere quei processi di negoziazione che portano al perpetuarsi della pratica in contemporanea ad atteggiamenti di distanziamento e messa in discussione della stessa. Un’approfondita ricerca condotta nel 2009 a cura di Fondazione Ismu si è focalizzata proprio sul tema del cambiamento in relazione alle mutilazioni genitali femminili, prendendo in considerazione tre Regioni del Nord Italia: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Nelle città principali di queste Regioni è stata realizzata un’accurata ricerca etnografica, che ha messo in luce tematiche comuni e peculiarità dei vari territori coinvolti, in modo da dare conto sia della capacità di scelta operata dalle donne straniere rispetto alla pratica, sia le differenti modalità con cui le cosiddette società pluraliste possono rispondere alla pratica stessa.
Le opinioni sulle mutilazioni genitali femminili emerse dalle interviste sono generalmente negative e tutti/e propendono per l’abolizione e l’eliminazione di queste pratiche, motivando la cosa con aspetti di ordine pratico e simbolico. Uno dei motivi maggiormente addotti a sostegno dell’abolizione delle pratiche riguarda le conseguenze sul corpo e sulla salute delle donne: il dolore, le complicanze ginecologiche, la limitazione del piacere sessuale. Rimane però forte la relazione tra pratiche escissorie e costruzione dell’identità di genere, laddove i ruoli maschili e femminili si rinforzano attraverso dinamiche di potere proprie dei singoli gruppi etnici.
La pratica è ancora percepita da molte donne come il prezzo per ottenere altri benefici, quali contrarre un buon matrimonio, avere maggiore libertà di movimento e guadagnare l’accettazione sociale. In questo senso l’abbandono della pratica può essere percepito come l’esposizione a sanzioni sociali importanti e all’emarginazione da parte della propria comunità. In questo senso le mutilazioni genitali femminili vengono percepite ancora come una norma sociale forte, il cui abbandono è influenzato da complessi fattori relazionali, sociali ed affettivi (Lombardi 2009).
Forte è però il tema del mutamento culturale, anche prodotto dall’esperienza migratoria. Infatti se da un lato la migrazione si collega con la paura di perdere i riferimenti sicuri della tradizione, dall’altro sia la stessa condizione di trapiantato sia i mutamenti interni ai Paesi d’origine portano ad un recente ripensamento della pratica. Appare anche il desiderio di confrontarsi con valori nuovi, insieme a quello di far conoscere la bellezza della propria cultura e non soltanto gli aspetti considerati più retrogradi dalle società di accoglienza.
Le mutilazioni genitali femminili si iscrivono così in quei fenomeni che permettono di riscrivere ogni giorno le proprie appartenenze, in cui la tradizione viene costantemente rinegoziata alla luce delle pratiche quotidiane, dando luogo a prodotti culturali sempre nuovi. Tanto più che nell’incontro con le società di accoglienza il cambiamento culturale non rimane appannaggio delle comunità straniere ma diviene un processo che, nel ripensare e criticare queste pratiche, coinvolge l’intera società civile.