Il gusto compiaciuto della teatralità è uno dei tratti salienti dei siciliani e si manifesta nella gestualità, nella mimica, nella parlata. Non sorprende perciò che l’arte del Cunto sia una delle espressioni più autentiche e antiche della tradizione popolare. Ricercarne le radici storiche – risalenti a epoche remote – è un compito arduo che lasciamo agli studiosi, qui è sufficiente dire che l’arte del Cunto è legata alla recitazione di storie epico- cavalleresche e anche, in qualche misura, alle “Vastasate”, a quel teatro popolare cioè da cui traggono origine maschere e figure farsesche tipiche della cultura popolare siciliana. A proposito si potrebbe citare Cocchiara e ribadire ciò che lo studioso ha affermato per le “Vastasate” riferendolo al Cunto: esso «investe l’anima di tutto un popolo, non in un suo fenomeno che è fenomeno a parte, ma in un fenomeno che è la persistenza di tanti altri».
Il cuntista non va confuso col cantastorie. Quest’ultimo è un cronista che racconta, alternando il canto e il recitativo, delle storie – di corna, briganti, fatti di sangue – tratte dalla quotidianità, con l’ausilio della chitarra – utilizzando un giro armonico elementare – e di cartelloni che rappresentano le scene. Il cuntista invece affida la narrazione solo alla sua voce e alla mimica seguendo modulazioni ritmiche accompagnate dalla spada che impugna e secondo regole di inspirazione ed espirazione che danno risalto alla tensione sonora e alla metrica del testo, nel quale gioca un ruolo non marginale l’improvvisazione.
La tradizione dei cantastorie, seppure oggi superstite in rari interpreti, si è rinnovata a partire da Ciccio Busacca che, con il sodalizio di Ignazio Buttitta, ha introdotto, tra i temi narrati, quelli di rilievo sociale. Allo stesso modo l’arte del Cunto si è adeguata ai tempi e oggi, rivisitata negli argomenti trattati – non più o non solo le storie del ciclo carolingio, ma anche e soprattutto quelle dell’attualità e persino dell’attualità scottante – e nelle modalità espressive, è sorretta da una vitalità che qualche decennio fa sembrava spenta. E ciò grazie innanzitutto a Mimmo Cuticchio, cuntista e oprante capace, col suo spirito creativo e con la sua cocciuta determinazione, di ridare linfa all’Opera dei Pupi alla quale l’arte del Cunto è in genere associata.
Ma una nuova generazione s’impone alla ribalta dei cuntisti che, sulla scia di Cuticchio (e non solo), fa rivivere la tradizione orale siciliana con stupefacente inventiva che coniuga moderno e antico conquistando tra i giovani popolarità e consensi. La nuova generazione è capitanata da un artista talentuoso quanto audace le cui performance impazzano sul web e sui social e che però rimane depositario dell’incommensurabile e ricco patrimonio di un’arcaica cultura popolare, malgrado tutto dura a morire: il palermitano Salvo Piparo.
Il suo percorso, come lui stesso ci racconta, inizia nella bottega di calzolaio del nonno al Capo. Le botteghe dei calzolai, nel passato dei nostri avi, assomigliavano a quelle dei barbieri: erano cioè centri di ritrovo, punti di incontro di cuntisti, cantori, intrattenitori vari. È lì che si realizza il suo primo approccio con la cuntata:
«In quella bottega passava il mondo, il mondo colorito e accattivante di gente del popolo con la passione per la narrazione. I cuntisti vi si fermavano e vi si radunavano: si raccontavano le storie di Giufà, si declamavano le ottave, irresistibili per sagacia e goliardica baldanza, di Petru Fudduni, mentre, sotto le cappelle votive, si recitavano i “Triunfi” dedicati a santa Rosalia».
Dopo, Piparo conosce lu zù Binidittu alla Kalsa: «Da lui ascoltai un cuntu gregoriano che mi rimase nel cuore e che incise molto sulla mia formazione anche per il ritmo». Acquisita la tecnica, per nulla semplice, del Cuntu, Piparo si perfeziona col maestro Cuticchio: «Con lui partimmo insieme per partecipare a un’importante rassegna di cultura popolare a Volterra, in Toscana; lì allestii un laboratorio di narrazione cuntista». Adesso, da circa quindici anni Piparo si cimenta col Cunto e, nel suo variegato repertorio, vi sono le storie epico-cavalleresche, quelle goliardiche, le Vastasate, e anche le storie di denuncia e i versi del poeta di strada palermitano Peppe Schiera, un antifascista povero quanto ricco di talento (nei suoi spettacoli in diversi e strategici angoli del capoluogo siciliano si presentava come “A fabbrica ri u pitittu”).
Questo aspetto – quello s’intende dell’impegno civile –, per nulla secondario in Piparo, chiama in causa la sua frequentazione di Salvo Licata, scrittore, giornalista, drammaturgo palermitano che gli fa scoprire il teatro civile e Peppe Schiera (senza Licata probabilmente pochissimi oggi si ricorderebbero di questo geniale poeta di strada). Qualche anno fa Piparo si è calato nei panni di Peppe Schiera, raccogliendo l’eredità (non comoda) di Giorgio Li Bassi, che per lunghi anni ne è stata la maschera (sino a identificarsi con lui), in una piece di Salvo Licata, “C’era e c’era Peppe Schiera”, messa in scena al Biondo di Palermo con la regia di Enrico Stassi.
Un cuntista atipico se vogliamo e perfino trasgressivo, Salvo Piparo: atipico perché le sue “cuntate” sono svincolate dall’Opera dei pupi (Piparo è cuntista ma non oprante) e per i suoi tanti registri; trasgressivo (almeno apparentemente) perché le sue esibizioni infrangono i canoni del Cunto tradizionale.
Sul punto però s’impongono delle considerazioni. Tutte le manifestazioni artistiche, e ancor più quelle della tradizione popolare, si evolvono e si adattano ai tempi nei quali sono espresse. Oggi un poeta non scriverebbe più adottando le forme e le modalità metriche di Dante o di Leopardi che, a loro volta, nel periodo storico in cui vissero furono degli innovatori. E ciò vale, oltre che per la forma, anche per i contenuti. Il che assume una maggiore valenza per l’arte popolare orale.
Almeno che non si voglia mettere in atto un’operazione di restauro e di mero culto dell’antiquariato – operazione, per quanto lodevole, fine a se stessa e asfittica –, l’arte del Cunto si vivifica rinnovandola nei moduli espressivi, nei contenuti e anche per come viene veicolata. Ciò che conta è che di essa non venga stravolto lo spirito. E, a ben vedere, negli spettacoli di Piparo è evidente il retroterra culturale di una tradizione popolare antica e nobile o, se preferite, di più tradizioni popolari siciliane tra di loro “apparentate” di cui il Cunto è quella in primo piano. Il gusto teatrale della narrazione, che è parte sostantiva della cultura del siciliano e che si esalta nel Cunto, trova in Piparo il più originale paladino.
Ed è proprio il gusto teatrale della narrazione a farla da padrone in un recente libro di Piparo pubblicato nel 2020 da Dario Flaccovio, Lo scordabolario. Soffermiamoci sul sottotitolo, che svela tanto: “Il vocabolario delle palore palermitane perdute”. Nel sottotitolo vi è la vena scherzosa dell’autore: “palore” e non “parole”, perché i palermitani storpiano tutto e su ciò si sbizzarrisce l’inclinazione ludica di Piparo. Il libro è perciò – come lascia intendere il sottotitolo – un gioco con le parole, rectius le “palore”, dei palermitani e sul loro frasario; un gioco d’artificio, pirotecnico, ricco di acrobazie lessicali per le combinazioni divertentissime e non di rado paradossali che accendono le pagine. Vi troveremo pertanto esilaranti “filastrocche” su “Le palore gemelle” (“U futti futti”, “U mancia mancia”), sugli “Aggettivi squalificativi”, su “Gli intercalari” e su “Le cento sfumature del cornuto”.
Ma Lo scordabolario è anche un’operazione di salvataggio di un armamentario linguistico che rischia di essere seppellito nell’oblio. Salvo Piparo, scrivendo Lo scordabolario, si erge a custode di un passato che rischia di essere frantumato da una modernità senz’anima che sta per smarrire le proprie radici. Cantava Ignazio Buttitta: «U populu diventa poviru e persu / quannu ci arrubbano a lingua / addutata di patri: è persu pi sempri». La lingua, e in particolare il dialetto, che costituisce il bagaglio più intimo e ricco di una comunità, va salvaguardata pena la perdita d’identità di quella comunità, nella fattispecie della nostra comunità di siciliani: sì, siciliani e non solo palermitani, perché il dialetto che qui si vuole preservare è solo apparentemente quello del capoluogo isolano, nei fatti è quello siciliano nelle sue varie sfaccettature.
Ecco quindi come le finalità del libro, in Piparo, combaciano con quelle del suo Cunto: la resistenza della tradizione popolare. E se il cuntista Piparo utilizza l’estro innovativo per salvare l’arte del Cunto, allo stesso modo opera con il nostro patrimonio lessicale. Sicché ne Lo scordabolario vi è posto per “Il sexyvocabolario” e per “l’inglesitudine”, paragrafi che strizzano l’occhio ai giovani ironizzando su fenomeni di costume e malcostume dei nostri giorni. Senza contare che in un libro autenticamente “orale” (per quanto definire un libro orale sia un’evidente contraddizione, un paradossale ossimoro), molti dei suoi brani si trovano su internet “cuntati” con impareggiabile verve comica dall’autore e sono già diventati dei veri e propri “cult”. Al riguardo vale la pena osservare che ne Lo scordabolario sono indicati i podcast delle pagine invitandosi i lettori a visionare e ascoltare sul web le perfomance di Piparo con buona pace dell’antagonismo tra internet e il mondo cartaceo dei libri.
Lo scordabolario, che si presta a più piani di lettura – come nota, nella prefazione, Roberto Sottile, la cui recente scomparsa ha sconvolto e addolorato gli ambienti culturali siciliani –, si fa inoltre apprezzare per più di un richiamo civile: si leggano, ad esempio, i paragrafi “Nomea di mafiosi & pentiti” e “Il significato della palora pizzo”. Il che conferma la coerenza della sua intrigante “evasione letteraria” con l’originale e ardita lezione di cuntista. E rende esplicito uno dei motivi più encomiabili dell’attività di un artista che si segnala, tra l’altro, per i laboratori cui dà vita: fare breccia sui giovani, che cattura con la sua simpatia e dei cui strumenti di comunicazione si avvale, indicando loro la via che, contro ogni deragliamento, li riconduce alle proprie radici, e sventolando, senza clamori e retorica e col sorriso tra le labbra, la bandiera della giustizia sociale e della tensione civile in una terra mortificata da troppe storture.
In linea col monito dei latini: «Castigat ridendo mores».
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia, col quotidiano on-line BlogSicilia.
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