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Le poesie studiate a scuola, “sangue in noi”

coverdi Nicola Grato 

Accadde una sera di prima estate di molti anni fa. C’era fresco, i grandi indossavano maglioni di lana, giacchette; la campagna sembrava vasta a quel soldo di cacio. Andavano via dalla casa costruita da poco dopo una giornata di festa: avevano infornato il pane e preparato cuddiruna, i grandi avevano parlato a lungo, quel bambino era sempre in mezzo a questi vecchi e ascoltava, poi rielaborava quelle parole e inventava storie, personaggi, situazioni le più svariate.

Quella sera accadde una piccola cosa che avrebbe segnato quel bambino per tutta la vita: suo padre aveva chiuso la porta di casa dopo aver caricato i pacchi nella vecchia Opel Kadett, assicurato nella cantina il gruppo elettrogeno a miscela (non c’era allora ancora la luce elettrica, l’elettrificazione rurale garantiva una debolissima luce) e lui, il bambino di cinque anni, aveva visto, nascosta a tutti dentro il moncone di un paletto di legno, una luce. Una piccola luce che si muoveva, fioca, tramante: una lucciola. Il bambino, rivolgendosi alla madre, diceva: «è la luce di Dio».

Avevo adoperato, in maniera del tutto inconsapevole e come “esplosa” dal pozzo della mia interiorità, una metafora: fu questo il mio primo vero incontro con la poesia. Avrei poi continuato a osservare il mondo, per così dire, sotto una luce metaforica, ricercando simboli, associazioni di idee, luci nascoste, relazioni tra cose lontane. Avrei affinato un puro piacere, quello della parola, grazie alla scuola, alle poesie imparate a scuola; avrei imparato ad ascoltare il ritmo, sentire financo gli odori, vedere i luoghi delle poesie che ho amato e che amo. Avrei capito quanto la poesia ci parli di noi, della nostra umanità che troppo spesso dimentichiamo.

Avrei riflettuto a lungo su quello “sciame” di pensieri che entrò in una vecchia, desolata casa (Eugenio Montale, La casa dei doganieri), a ogni stagione che muta avrei ricercato un colore, una luce, allungarsi di ombre o accorciarsi, tempo della vita e delle ore, luoghi. Spiagge, piazze, mercati; primavere e autunni, le feste di dicembre. Leggere equivale a coltivare sì un piacere, molto di più però a costruire spesso invisibilmente e inconsapevolmente trame, accordi, rimandi che, chissà come e perché, inaspettatamente si fanno evidenti un bel giorno e ci chiariscono il senso delle cose e del nostro essere qui ed ora in questo Pianeta. Tanto poi il cammino sarà sempre da ricominciare e il bagaglio da portarci dietro da risistemare ogni volta.

Dalla metafora del bagaglio prende forma il recente libro di Paolo Di Paolo Rimembri ancora. Perché amare da grandi le poesie studiate a scuola (Il Mulino, 2024): ognuno di noi, a ben riflettere, si porta dietro e dentro di sé un “bagaglio” di “cose” dalla propria esperienza scolastica. Alla rinfusa, malamente disposte, nozioni di matematica, grammatica, declinazioni latine e formule chimiche. Anche la parola ‘bagaglio’ qui adoperata non è che una metafora, un concetto che si sposta. Di Paolo lega indissolubilmente la propria esperienza di lettore di poesia ai luoghi, e come potrebbe essere diversamente? Quando ho acquistato una copia dei Fiori del male tradotti da Raboni ricordo non già l’anno e il mese di quel mio acquisto, ma la libreria e il tempo atmosferico, una giornata uggiosa d’autunno in Corso Vittorio Emanuele a Palermo. Rileggendo i Fiori, non faccio che pensare allo spleen di Palermo, alle viuzze, alle botteghe altro che di Parigi, proprio di quella città che ora non c’è più (e del resto neanche io sono più quello di allora).

s-l400Leggere poesia ci mette a contatto, tra le tante, con una verità scottante: i versi sono risultato finale di meditazione, lavorio, scrematura: niente di più sbagliato che considerare la poesia come “sorgiva”, approssimativa, pura istintività dell’artista. Leggere poesia può estraniarci e condurci lontanissimi da Itaca o può farci ritornare a casa; ci si può sentire, davanti alle poesie di Emily Dickinson ad esempio, pienamente umani perché quelle parole sono “in” noi; posseggono le poesie un ritmo che ha a che fare con i ritmi della nostra vita biologica. Come scrive in un suo appunto Rocco Scotellaro: «La poesia può ben avere avuto le sue origini nel ritmo che è nell’uomo e di cui egli è appena cosciente; il battito del verso esisteva nel polso prima che la parola saltasse alle labbra. Noi respiriamo ritmicamente; le correnti rifluiscono e fluiscono; giorno e notte, splendore e oscurità, il progresso delle stagioni, tutto ha un ciclo ordinato» [1].

È bello pensare che la poesia abbia a che fare con la musica del mondo, con il ritmo di crescita di vegetali, funghi, animali; abbia la poesia a che fare con una musica misteriosa alla quale ognuno di noi è fedele fin dai primi giorni di vita trascorsi nel grembo materno, ovvero quel battito che governa ogni nostro pensiero, ogni nostro sentimento: il battito del nostro cuore. Basterebbe riflettere su questo per amare la poesia? Non credo, perché la poesia necessita di pratica, attenzione, cura; si impara o si dovrebbe imparare a scuola a “praticare” poesia, proprio perché il nostro primo “contatto” con i versi avviene proprio a scuola, e questo è un punto dolente, perché se è vero che a scuola abbiamo studiato tante poesie, le abbiamo imparate a memoria, le abbiamo analizzate, frantumate, scomposte addirittura in taluni casi, è anche vero che la scuola non ci consegna strumenti adatti per diventare lettori di poesia. Come recita le seconda delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica [2] «Dati i molti legami con la vita individuale e sociale, è ovvio (ma forse non inutile) affermare che lo sviluppo delle capacità linguistiche affonda le sue radici nello sviluppo di tutto intero l’essere umano, dall’età infantile all’età adulta, e cioè nelle possibilità di crescita psicomotoria e di socializzazione, nell’equilibrio dei rapporti affettivi, nell’accendersi e maturarsi di interessi intellettuali e di partecipazione alla vita di una cultura e comunità». In questo senso, soprattutto la poesia può essere uno strumento fondamentale per conoscersi, per conoscere il mondo attorno a noi, uno strumento di indagine della realtà. Invece purtroppo nella generalità dei casi ognuno, dopo il proprio corso di studi primari e secondari, fa quel che può e quel che forse sa e se continua a essere un lettore di poesia è più un fortuito caso o deve essere scattata una scintilla così forte da aver provocato un incendio nello spirito dello studente.

71oupggdxml-_uf10001000_ql80_La domanda che a questo punto possiamo farci è infatti: a che serve la poesia? Il più delle volte releghiamo l’espressione poetica proprio alla scuola, a quel recinto costituito da discipline, orari, compiti, note, esercizi. La scuola è evidentemente molto più che la somma di queste necessarie parti, diremmo, ed è nel suo più compiuto dispiegarsi il luogo della crescita personale di ognuno di noi, ma ognuno di noi, noi bambini soprattutto, come dice Freinet “ha bisogno di pane e di rose”; ognuno di noi ha bisogno di articolare ed espandere le proprie possibilità linguistiche e quindi di attivare proficuamente la propria cittadinanza e la propria umanità. Come ha efficacemente scritto Giancarlo Cavinato «fare poesia è fare esperienze immediate con la lingua, creare e ricreare situazioni ai confini fra sogno e realtà, come il bambino della poesia di Machado che sogna un “caballo de carton”» [.3]

A scuola si possono sperimentare proficuamente svariati percorsi di poesia che abbiano come obiettivo generale quello di “aprire” a svariate possibilità linguistiche l’orizzonte lessicale degli alunni: «Dentro la bocca ha tutte le vocali / il bambino che canta», scriveva Alfonso Gatto [4].

L’uso metalinguistico del linguaggio non può e non deve essere la conditio sine qua non per insegnare Italiano nella scuola primaria e secondaria di primo grado: troppo spesso l’aspetto normativo ha ridotto generazioni di studenti al silenzio creativo, mentre l’equilibrio di norma e scarto, il poetico e il necessario lavorio sulla parola, possono liberare le menti e i desideri e costruire modelli di cittadinanza consapevole. A questo proposito voglio qui ricordare le esperienze raccontate da Elena Staraz con un gruppo di bambini di Crespano del Grappa nel 1982; il lavoro sulla metafora pensato da Cavinato e Luigina del Prezzo con gli alunni della scuola elementare di “Cesco Baseggio” di Catene (Venezia) e in generale tutte le esperienze sul pensiero analogico, l’irrazionale e le forme di comunicazione non verbale riportate nel volume Itinerari poetici da cui ho tratto la frase di Cavinato. Chissà quanta poesia avranno poi letto nella loro vita questi bambini, forse molta, forse avranno preso altre strade ma riteniamo che l’esperienza di studio della poesia a scuola, l’esperienza di ascolto della lettura poetica non possa che incidersi profondamente in noi che non siamo anagraficamente più quegli studenti di allora.

Paolo Di Paolo guida il lettore attraverso i propri ricordi di studente; tutt’altro che una biografia, il suo libro è una testimonianza di fedeltà alla poesia. Un viaggio a ritroso nella vita di ognuno, il ritrovamento fortuito di una madeleine che ci “apra” le finestre del nostro passato: «Capita di ritrovarsi in tasca, in un pomeriggio qualunque, il verso di una poesia. Così, dal niente. Dev’essere rimasto lì per anni: ora riemerge come una moneta inservibile, un vecchio scontrino, un pelucco, una caramella che non hai il coraggio di mangiare. Le parole smozzicate di una canzone senza musica. Cominciano a girare in testa. La nebbia agl’irti colli…» [5].

md31552435649Ricordare L’infinito a memoria quando meno te lo aspetti, o le donne salmodiante de L’elegia di Pico Farnese; Foscolo letto a scuola ha un sapore stantio, quanto è invece straordinariamente ventosa la sua poesia ricordata dopo, durante un’attesa alla Posta o un viaggio in auto. È proprio il ricordo una funzione fondamentale in poesia, un agente attivatore oltre che un luogo preciso. Il ricordo è richiamo al cuore, al centro della vita di ognuno di noi. Facilmente dimenticheremo (lo abbiamo in un certo senso già fatto) la nozione di “pessimismo cosmico” e di “pessimismo storico” a vantaggio della lettura diretta di Leopardi, certo dei Canti ma soprattutto di quello straordinario semenzaio di idee e di poesia che è lo Zibaldone (la stessa esperienza si può fare con i Quaderni di Simone Weil).

«La prima terzina della Commedia», scrive Di Paolo, «è un talismano, un passaporto, un pezzo dell’arredamento domestico, anzi mentale, culturale, di chiunque abbia studiato in Italia. L’ammirazione per l’impresa dantesca non ammette deroghe, è prescritta fin dai banchi di scuola media: bisognerebbe tuttavia cercare l’occasione per rinverdirla, o per autenticarla» [6].

Tenere le poesie in tasca per i giorni di pioggia, per quelli di sole; per le giornate ventose e per il cielo di maggio. La poesia è un talismano, ha la funzione di calmarci nell’insonnia e nell’inquietudine, come “La sera del dì di festa” di Leopardi fa con un personaggio del romanzo epistolare di Antonio Tabucchi Si sta facendo sempre più tardi: «Per far calmare quei battiti mi alzo e vado in sala da pranzo, accendo una candela gialla, perché il giallo è bello nella penombra, e leggo Dolce e chiara è la notte e senza vento, e quelle parole mi tranquillizzano, anche se il vento là fuori agita i rami degli alberi…» [7]. È un amuleto, la poesia, come il topo d’avorio di Dora Markus: 

                                                           Non so come stremata tu resisti
                                                                               in questo lago
                                                                               d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
                                                                               ti salva un amuleto che tu tieni
                                                                               vicino alla matita delle labbra,
                                                                               al piumino, alla lima: un topo bianco,
                                                                               d’avorio; e così esisti! [8]. 

In questa poesia di Montale, “Dora Markus” appunto, è come se si facesse tardi in ogni verso, come se qualcosa fosse per sempre perduta, un viso, un volto, una figura; ogni parola consegna al lettore un testamento da custodire, “un topo bianco d’avorio” che ci connetta a un passato e ci torni buono nel presente, un ricordo robusto. Nella memoria di lettore questo “lago d’indifferenza” l’ho sempre associato allo “sciame dei tuoi pensieri” de “La casa dei doganieri” e non soltanto per la figura, una metafora, ma proprio perché si parla di due donne e della loro inquietudine, Dora e la protagonista de La casa, ovvero Annetta/Arletta; è il tentativo in entrambe le poesie da parte di Montale di “salvare il salvabile”, di recuperare la memoria, di aggrapparsi ad oggetti e luoghi per non disperdersi e disperdere la relazione con gli altri. È l’essere pienamente umani il “correlativo oggettivo” del topo o della casa, il segno della presenza quando tutto attorno il mondo si vota all’assenza e all’oblio. 

                                                                               La sera che si protende
                                                                               sull’umida conca non porta
                                                                               col palpito dei motori
                                                                               che gemiti d’oche e un interno
                                                                               di nivee maioliche dice
                                                                               allo specchio annerito che ti vide
                                                                               diversa una storia di errori
                                                                               imperturbati e la incide
                                                                               dove la spugna non giunge [9]. 

Strepiti, i gemiti d’oche; lo specchio annerito, questi “errori imperturbati”, errori dell’umanità sull’orlo di un’altra guerra, di altre guerre, allora come ora. Dora Markus è anche la poesia della “dolce / ansietà d’Oriente” che avrei ritrovato in altro tempo e in altri versi, questi di Fabio Pusterla, ad esempio: 

                                                                               Forse perché era il centro di qualcosa
                                                                               la madre del vecchio insegnante di tedesco,
                                                                               di un mondo immaginato dietro il rosso
                                                                               velluto dei tendaggi, o nei resti del thè,
                                                                               o ancora nel sentore
                                                                               di cavoli e cumino, di vento degli Urali
                                                                               che spazza scacchiere d’Asia, pianoforti
                                                                               e giovani betulle; certo in te
                                                                               qualcosa di quel centro, un fotogramma
                                                                               plumbeo e insieme lucente, come l’eco
                                                                               di un galoppare lontano, e un rumore di piatti
                                                                               riempiti e lavati e riempiti per generazioni.
                                                                               Poi l’erba, una fatica silenziosa [10]. 

Quanto l’atmosfera di questa poesia di Pusterla ricorda quella di Alexander Platz di Franco Battito, una canzone perfetta innanzitutto nel non detto che ascoltiamo in ogni parola, di ogni verso. 

                                                                               E di colpo venne il mese di febbraio
                                                                               faceva freddo in quella casa
                                                                               mi ripetevi,
                                                                               “Sai che d’inverno si vive bene come di primavera?
                                                                               Sì sì proprio così”
                                                                               La bidella ritornava dalla scuola un po’ più presto per aiutarmi
                                                                               “Ti vedo stanca
                                                                               hai le borse sotto gli occhi
                                                                               come ti trovi
                                                                               a Berlino Est?  [11]

 

Il “non detto” o, meglio, il “non ancora detto” che si deposita nella nostra memoria costruisce spazi di interpretazione del mondo. La poesia e la musica hanno questo ruolo di attivatori di processi di consapevolezza della realtà: capiamo meglio se ascoltiamo gli altri, se quindi con loro entriamo in relazione o ci sforziamo di farlo quantomeno.

codice-quattrocentesco-con-dante-casella-virgilio-e-catoneOgni singolo spazio bianco, ogni “a capo”, ogni segno di interpunzione ci parla in poesia: è il respiro del verso, il battito che dialoga con noi; andare a capo non è un problema tipografico, il poeta usa sapientemente le connessioni tra le parole ma anche la spezzatura o inarcatura che dir si voglia. Forse non ci facciamo caso, non è questo evidente subito ai nostri occhi né immediatamente udibile alle nostre orecchie, ma chi scrive poesia lo fa per chi leggerà, per chi ascolterà, come nel secondo canto del Purgatorio il grande amico di Dante, Casella, che per lui aveva musicato in vita “Amor che ne la mente mi ragiona”. La musica di Casella era un balsamo per l’Alighieri, la musica che unisce anche dopo la morte i due amici; scrive a tal proposito Di Paolo: «Bisogna forse pensare alla platea ammirata e ammutolita di un concerto di musica classica, o a quella energica e partecipe di un concerto di musica pop per trovare un’immagine assimilabile, nel presente, a quella delle anime purgatoriali incantate dalle note. Incantate ho scritto: e già questo rimanda etimologicamente alla magia di una musica che avvince, che alimenta desideri ed evoca ricordi» [12].

Avvicinarsi alla Commedia è certamente esercizio difficoltoso ove si voglia smembrarne parole e significati in ragione di analisi che però perdono di vista l’umano a vantaggio del tecnico che pure c’è ed è importante; l’architettura dei luoghi e delle cantiche non è sovrastruttura certamente, ma non può essere il primo argomento che a scuola si affronta per presentare il poema dantesco. Potrebbe risultare utile a una maggiore/migliore intelligenza del testo la guida alle storie che si celano dietro a fulminei passaggi, rimandi, richiami che l’Alighieri usa nel suo poema. Di Paolo ne cita alcuni molto belli: la polvere che possiamo immaginare dietro e sotto i piedi di Egidio e Silvestro che decidono di scalzarsi per seguire frate Francesco; il dolore vegetale di Pier Delle Vigne; la richiesta di ricordo, il grido sommesso di Pia che al poeta fiorentino chiede di fare di lei memoria nel mondo: “Ricorditi di me”. Ci punge il cuore anche quel fugace “salsi” (“salsi colui che ‘nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma”) che incastona come una perla nera di dolore al centro della vita (e della morte violenta) di Pia una storia, il nome taciuto dell’uomo che l’aveva uccisa. Salsi è contrazione di sallosi e in me questo verbo chissà per quale ragione di certo tutta analogica faceva pensare al sale, al sale del deserto, a un’arsi profonda e indimenticabile che vale la rappresentazione di una vita. In me questo verbo contratto ha provocato l’effetto del sasso lanciato nello stagno di rodariana memoria: «Un sasso gettato nello stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore» [13].

Queste parole rappresentano bene quel che accade con la parola poetica: è un sasso che sommuove lo stagno, che crea legami tra mondi lontani, onde che toccano riva e centro dello specchio d’acqua della nostra mente. Il sasso non si limita a depositarsi al fondo perché un fondo non esiste, continua la sua discesa negli anni, continuano le onde a frangersi e ritornare al centro «in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere» [14].

Attraverso antologie scolastiche, poeti “desueti” (Cardarelli, Panzini, Corazzini, Marino Moretti, il Palazzeschi del poemetto I fiori, Arturo Onofri); la rilettura di un Carducci poeta dell’infanzia perduta messo a confronto con Ray Bradbury; la morte di un potere che sembrava eterno, quello di Napoleone Bonaparte letto da Alessandro Manzoni; l’ “amore scritto minuscolo” di Guido Gozzano; il canto del cigno di Harold Bloom che chiama a raccolta nell’ultima parte della propria vita gli autori a lui più cari attorno a un “canone sentimentale” nel segno, sono parole di Bloom, della “benedizione della letteratura”, Di Paolo ci racconta il proprio viscerale attaccamento alla poesia, che per lui è «realtà aumentata, vita più vita». Questo amore non è stato soltanto libresco ma proprio vivo, in carne, ossa e suoni alla cornetta del telefono: egli infatti telefonava a Sanguineti, ma non osò dire nulla a Raboni, riagganciando. Ricordo una conferenza di Mario Luzi tenuta al Don Bosco Villa Ranchibile di Palermo, ricordo quanto cordiale fosse quello straordinario poeta che avevo allora (1990) iniziato a leggere.

Ma non è soltanto di innamoramento per le poesie che Di Paolo ci parla in questo suo libro. Accade spesso infatti che alcuni poeti vengano messi da parte perché – e ritorniamo alle dolenti note – a scuola alcuni poeti sono stati studiati male o non è semplicemente scattata la scintilla. A Di Paolo accade con Foscolo, poi riabilitato nel corso dei suoi studi universitari con Luca Serianni. I poeti vivono pienamente e profondamente il loro tempo, non ne sono avulsi, non abitano torri d’avorio; Di Paolo ci ricorda come la poesia di Lucrezio, Emily Dickinson, Rilke porti i segni del fuoco della vita.

61f0w7nurxl-_ac_uf10001000_ql80_I versi sono esperienze e finché non diventano, come ci dice Rilke, “sangue in noi” ci risulteranno falsi, pretenziosi, “di maniera”: «Per scrivere un verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si aprono al mattino (…). Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti e di lievi, bianche puerpere addormentate che si rimarginano. Ma bisogna essere stati accanto ad agonizzanti, bisogna essere rimasti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori intermittenti. E non basta ancora avere dei ricordi. Bisogna saperli dimenticare quando sono troppi, e avere la grande pazienza di attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando diventano sangue in noi, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, soltanto allora può accadere che in un momento eccezionale si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso» [15].

È un bel giorno di dicembre ed è primo mattino nella casa di via Cristoforo Colombo. Il bambino è con suo padre, entrambi in una intimità che mai avevano conosciuto prima di quel mattino insolitamente tiepido. Ne è passato di tempo da quella luce di quella sera in campagna e ora il bambino è un uomo: ricorda le sue poesie, quelle che lo hanno cresciuto e che lo hanno assistito nell’ora della prova, del distacco. Ricorda, quel bambino divenuto uomo, “Voce giunta con le folaghe” di Eugenio Montale, la ripassa in mente, forse la dice piano: 

                                                                               Poiché la via percorsa, se mi volgo, è più lunga
                                                                               del sentiero da capre che mi porta
                                                                               dove ci scioglieremo come cera,
                                                                               ed i giunchi fioriti non leniscono il cuore
                                                                               ma le vermene, il sangue dei cimiteri,
                                                                               eccoti fuor dal buio
                                                                               che ti teneva, padre, erto ai barbagli,
                                                                               senza scialle e berretto, al sordo fremito
                                                                               che annunciava nell’alba
                                                                               chiatte di minatori dal gran carico
                                                                               semisommerse, nere sull’onde alte.
 
                                                                               L’ombra che mi accompagna
                                                                               alla tua tomba, vigile,
                                                                               e posa sopra un’erma ed ha uno scarto
                                                                               altero della fronte che le schiara
                                                                               gli occhi ardenti e i duri sopraccigli
                                                                               da un suo biocco infantile,
                                                                               l’ombra non ha più peso della tua
                                                                               da tanto seppellita, i primi raggi
                                                                               del giorno la trafiggono, farfalle
                                                                               vivaci l’attraversano, la sfiora
                                                                               la sensitiva e non si rattrappisce.
 
                                                                               L’ombra fidata e il muto che risorge,
                                                                               quella che scorporò l’interno fuoco
                                                                               e colui che lunghi anni d’oltretempo
                                                                               (anni per me pesante) disincarnano,
                                                                               si scambiano parole che interito
                                                                               sul margine io non odo: l’una forse
                                                                               ritroverà la forma in cui bruciava
                                                                               amor di Chi la mosse e non di sé,
                                                                               ma l’altro sbigottisce e teme che
                                                                               la larva di memoria in cui si scalda
                                                                               ai suoi figli si spenga al nuovo balzo.
 
                                                                               – Ho pensato per te, ho ricordato
                                                                               per tutti. Ora ritorni al cielo libero
                                                                               che ti tramuta. Ancora questa rupe
                                                                               ti tenta? Sì, la bàttima è la stessa
                                                                               di sempre, il mare che ti univa ai miei
                                                                               lidi da prima che io avessi l’ali,
                                                                               non si dissolve. Io le rammento quelle
                                                                               mie prode e pur son giunta con le folaghe
                                                                               a distaccarti dalle tue. Memoria
                                                                               non è peccato fin che giova. Dopo
                                                                               è letargo di talpe, abiezione
 
                                                                               che funghisce su sé… –
                                                                               Il vento del giorno
                                                                               confonde l’ombra viva e l’altra ancora
                                                                               riluttante in un mezzo che respinge
                                                                               le mie mani, e il respiro mi si rompe
                                                                               nel punto dilatato, nella fossa
                                                                               che circonda lo scatto del ricordo.
                                                                               Così si svela prima di legarsi
                                                                               a immagini, a parole, oscuro senso
                                                                               reminiscente, il vuoto inabitato
                                                                               che occupammo e che attende fin ch’è tempo
                                                                               di colmarsi di noi, di ritrovarci… 

 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
 
Note
[1] Rocco Scotellaro, Taccuini 1942-1953, a cura di Franco Vitelli e Giulia Dell’Aquila, Quodlibet, Macerata 2024: 202
[2] Cfr il sito del “Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica” (GISCEL) https://giscel.it/dieci-tesi-per-leducazione-linguistica-democratica/
[3] Cfr Giancarlo Cavinato, in Itinerari poetici. Raccolta di materiali ed esperienze, a cura di L. De Prezzo, L. Canetti, T. Roda e G. Santi, La nuova Italia, Firenze 1985: 1
[4] Cfr la poesia Il 4 è rosso in Alfonso Gatto, Poesie d’amore, Mondadori Milano 1973: 15
[5] Paolo Di Paolo, Rimembri ancora, op. cit.: 21.
[6] Ibidem: 24.
[7] Antonio Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi, Feltrinelli, Milano 2001 45.
[8] “Dora Markus” in Le occasioni. Cfr. Eugenio Montale, Tutte le poesie a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1984: 130
[9] Ibidem: 131
[10] “Poi l’erba”, in Fabio Pusterla, Le cose senza storia, Marcos y Marcos, Milano 2007: 46
[11] Franco Battiato, Alexander Platz, in Giubbe rosse, EMI 1989
[12] Ibidem: 28.
[13] Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 2010: 11
[14] Ibidem: 11
[15] Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte L. Brigge, Edizioni Clandestine, Marina di Massa (MS) 2012 :10

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Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”,“larosainpiù”,“Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo. Nel 2021 la casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto in arabo per la sua collana di poesia la silloge Le cassette di Aznavour. Con Giuseppe Oddo ha recentemente pubblicato Nostra patria è il mondo intero (Ispe edizioni).

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