La religione come comunicazione mediata dal computer (RCMC) è diventata un consolidato oggetto di studio su cui convergono specialisti di diverse discipline: dagli esperti di comunicazione e di nuove tecnologie ai sociologi, dai semiologi agli psicologi e, per finire, dagli informatici ai linguisti. L’attenzione è andata crescendo negli ultimi venti anni, da quando, in particolare, c’è stata una massiccia irruzione in Internet di una pluralità di attori religiosi che hanno compreso le potenzialità dello strumento per allargare il raggio della loro azione comunicativa. In ciò, in prima approssimazione, non c’è nulla di nuovo rispetto a un recente passato, quando grandi chiese o predicatori indipendenti hanno utilizzato ampiamente i mezzi di comunicazione di massa, come la radio, prima, e la televisione, poi, per entrare nelle case delle persone che non frequentavano più i luoghi di culto.
Tra il 1970 e il 1990 negli Stati d’Uniti d’America, per esempio, pastori di storiche denominazioni protestanti si sono messi in proprio, fondando una chiesa personale (come i moderni partiti politici personali), affidandosi completamente alla potenza comunicativa dei vecchi media, gestendo direttamente reti televisive, predicando la Bibbia con uno stile simile al talkshow. Alcuni di questi pastori hanno fatto fortuna e accumulato ricchezze che hanno investito, come abili e moderni imprenditori del carisma, nell’apertura di mega-chiese, grandi auditorium capaci di contenere elevati numeri di fedeli, dove il servizio religioso è uno spettacolo di suoni, luci, miracoli e parole oracolari del leader carismatico.
Allo stesso tempo si sono moltiplicati luoghi o spazi elettronici in Internet che hanno ospitato sin dal 1980 bollettini, riviste e giornali elettronici prodotti da chiese o gruppi religiosi con un’estesa riconoscibilità nell’ambiente sociale di riferimento oppure per far circolare idee, messaggi etici e teologici, com’è avvenuto con i siti Usenet di contenuto religioso. In tutti questi casi, pur con differenze a volte non irrilevanti da un sito a un altro, il flusso della comunicazione seguiva lo schema classico emittente-ricevente: chi produceva la comunicazione si preoccupava di raggiungere più facilmente un potenziale ampio popolo di fruitori di Internet. Quando un telepredicatore interagisce con i fedeli-seguaci dei suoi programmi, invitandoli a sottoscrivere e donare fondi per la chiesa elettronica che ha creato, siamo di fronte al potere della parola che un leader carismatico riesce a incrementare (e a misurare in base non solo all’audience, ma anche al flusso di denaro che affluisce nelle sue casse), grazie all’efficacia del mezzo televisivo; mezzo che, entrando in ogni casa, può stabilire un contatto con il fedele in poltrona e conquistare, così, la sua fiducia a distanza, prima ancora forse che la sua fede. La fiducia è misurata dal fatto che egli non cambia canale e resta fedelmente incollato allo schermo durante tutta la performance del predicatore stesso.
Il fedele in poltrona può anche non andare di persona in chiesa; la parola (sacra) entra tuttavia nella stanza dove sta comodamente seduto e lo convince, o perché, in fondo, era già convinto o perché era predisposto a farsi convincere. La parola data attraverso il medium televisivo è una parola accolta, perché essa appare fondata agli occhi (e agli occhi della mente) di chi è solo (apparentemente) spettatore. Questi non è un credulone. Il credere è selettivo. Nelle mappe cognitive di ciascuno di noi esso può occupare un posto centrale o marginale e variare a seconda delle situazioni, del ciclo di vita, delle condizioni sociali, degli eventi collettivi o delle singole esperienze individuali, intimamente irripetibili. Ciò vale anche nella comunicazione tramite i media, vecchi e nuovi.
Dalla fine degli anni Novanta a oggi l’attenzione degli studiosi interessati al tema delle religioni nel web si è sempre più spostata dalla TV ad internet. Il primo tentativo di cominciare a mettere ordine nella materia lo si deve a Christopher Helland che ha introdotto la distinzione fra religion online – istituzioni religiose che si adattano a comunicare via internet – e online religion, nuovi network capaci di promuovere la formazione di comunità religiose virtuali nelle quali la definizione dei contenuti e dei significati religiosi o spirituali è affidata all’interazione via computer fra gli individui –.
Quest’ultima distinzione, che negli scritti più recenti l’autore stesso ha arricchito di nuovi elementi, a ben guardare, riassume le nuove prospettive che internet sembra aprire alle religioni: se con il primo modello (religion online) siamo di fronte ancora alla sequenza emittente-ricevente, il secondo (online religion) descrive un rilevante cambiamento socioculturale. Un sito, infatti, che rientra in questa tipologia offre uno spazio creativo e interattivo per una vasta (più o meno anonima) platea di utenti, i quali, in tal modo, possono sperimentare come ci si possa fare una religione a loro misura.
Più si espandono e si differenziano le forme di comunicazione mediata dal computer – come, per esempio, con la diffusione di youtube, facebook, blog, twitter, tiktok – più si ampliano le possibilità da parte degli individui che interagiscono con questi mezzi di costruire assieme agli altri internauti un universo di credenze e pratiche religiose in cui l’individuo è al centro della comunicazione religiosa, non più le autorità religiose istituzionali che le religioni storiche in vario modo hanno stabilito. Tali forme di comunicazione mediata sono caratterizzate non solo dalla interattività, ma anche dalla provvisorietà e variabilità nel tempo (un sito oggi può esserci, domani non più). Inoltre, presentandosi come democratiche arene di incontri e scontri, i nuovi media hanno un deficit strutturale di autorità. Per le religioni, in linea generale, vale il principio che è l’autorità a definire e garantire l’autorità di un messaggio (che si annuncia di verità e di verità assoluta, un dubbio risolto una volta per tutte). Quando il discorso religioso circola con ampi gradi di libertà nella comunicazione via web o nei social media, la prima vittima è proprio la pretesa di autorità che una determinata tradizione religiosa reclama per sé.
Ci si può chiedere, allora, se la cyber-religion non sia un nuovo prodotto della secolarizzazione? Oppure se non sia più banalmente una variante di ciò che i teorici dell’economia religiosa chiamiamo il libero portfolio religioso che ognuno ormai può costruirsi, rivolgendosi al miglior offerente, promotori di beni di salvezza che possono essere trovati nella rete, alla stessa stregua di un’assicurazione auto o sulla vita? Oppure, ancora, ci troviamo di fronte a una crisi verticale delle autorità religiose, comunque organizzate, che non riescono più a controllare i loro prodotti, a marcarli come se fossero di origine controllata, giacché in rete uno stesso set di simboli religiosi riceve potenzialmente n interpretazioni e manipolazioni tali da rendere, alla fine, sovrana la singola mente che muove il mouse, piuttosto chi, tradizionalmente, nelle religioni ha rivendicato il monopolio dell’interpretazione del capitale simbolico? Non siamo, allora, di fronte a una sorta di liberalizzazione del mercato dei beni di salvezza che mette in crisi la pretesa assolutezza dei sistemi di credenza, così come li conosciamo storicamente?
Cosa accade quando una chiesa o un’organizzazione religiosa decide di chiudere i battenti (per mancanza di fedeli, del clero o dei pastori) e trasferirsi in rete? È già successo con la Fisrt Church of Cyberspace, quando un pastore presbiteriano nel 2000 ha compiuto tale passo non indolore. A un anno di distanza, egli poteva affermare, rispondendo alle critiche ricevute da altri esponenti della sua stessa Chiesa, che, prima aveva una cinquantina di fedeli ogni domenica al servizio religioso, mentre ora poteva contare su duemila contatti alla settimana. Una diaspora di fedeli-seguaci che virtualmente formano una sorta di corpo mistico invisibile, che la rete riesce a generare. Il medium in tale caso può anche rigenerare ciò che appariva in via d’estinzione.
Proviamo a rovesciare il processo: cosa accade quando qualcuno decide di aprire un sito per lanciare una nuova religione o qualcosa di simile a essa? Se l’operazione ha successo, la comunità di credenti, che si forma spontaneamente tramite la comunicazione interattiva che il sito consente di attivare, si tiene assieme sin tanto che i soggetti si sentono parte del gioco creativo che è stato loro proposto: inventare una nuova religione. L’esempio più noto è la Chiesa del Prodigioso Spaghetto Volante, fondata nel web nel 2005 da Bobby Henderson, allora brillante studente di fisica all’Università dell’Oregon, per sfida contro la decisione presa dallo Stato del Kansas di obbligare i docenti di scienze naturali a spiegare la teoria del Disegno Intelligente (del Dio creatore dell’universo) ogniqualvolta si parlasse in classe della teoria dell’evoluzione.
Nel primo caso una comunità reale (quella presbiteriana) diventa virtuale continuando, tuttavia, ad apparire agli occhi del pastore e dei fedeli come un’esperienza in continuità con le attività precedenti. Nel secondo, si è passati da una prima aggregazione di utenti della rete che hanno manifestato il loro like all’idea, che hanno poi iniziato a chiedere al fondatore della chiesa virtuale quale fosse la teologia (risposta: il pastafarianesimo!) o il simbolo da poter indossare (risposta: lo scolapasta!) o la preghiera comune (risposta: una lode al ragù che si conclude con Ramen, il nome dello spaghetto giapponese!), alla formazione reale di piccoli gruppi che hanno cominciato a trovarsi per delle performance o flashmob in pubblico.
In tutti e due i casi, l’aspetto interessante che vale la pena mettere in evidenza è il superamento della distinzione tra religion online e online religion, poiché il confine tra virtuale e reale non è poi così netto e invalicabile. Da qui l’idea sviluppata da una sociologa canadese, Heidi Campbell e da altri studiosi, della religione digitale, una terra di mezzo nei processi comunicativi che i nuovi media finiscono per delimitare, tra reale e virtuale. Il che implica un cambio di prospettiva: cercare di capire se l’ibridazione tra virtuale e reale nel mondo della comunicazione non costituisca un’estensione dell’immaginazione religiosa alla portata non più delle grandi istituzioni che storicamente hanno definito dottrine e rituali, ma degli individui in poltrona, seduti davanti a uno schermo o con l’occhio fisso sul proprio cellulare, seguendo magari una seduta di meditazione zen o per compiere il pellegrinaggio virtuale alla Mecca [1].
Se a tutto ciò aggiungiamo come i programmi di Intelligenza artificiale, che cominciano a essere alla portata di una platea più ampia degli addetti ai lavori, si siano già evoluti nel proporre siti dove immergersi nell’aldilà, costruirsi un avatar che anche dopo la propria morte possa continuare a interagire con il mondo dei vivi, con i propri cari e con la cerchia più vasta di amici e conoscenti, il confine tra il reale (il vivere) e il virtuale (del post-mortem) può non sembrare invalicabile. Chi resta s’illude coscientemente di poter comunicare con un mondo di morti che sembrano vivi (anche i toni della voce saranno presto perfezionati), chi muore sa di aver costruito un suo paradiso artificiale, dove potrà continuare a essere sempre connesso.
Siamo solo agli inizi, ma si possono intravvedere già gli effetti dell’impatto di tale tecnologia sull’immaginario dell’aldilà e sul senso del morire che le religioni storiche hanno accumulato. Un sapere che sinora non ha trovato grandi concorrenti. Nei processi di secolarizzazione l’ultimo rito di passaggio che resiste rispetto a altre pratiche religiose è proprio la cerimonia di commiato, il rito funerario, che condensa il senso che una religione ha elaborato sul morire, la morte e il dopo-morte. L’immaginario dell’aldilà su cui le grandi religioni hanno investito energie intellettuali, emotive, estetiche, estatiche e via dicendo per ora è solo scalfito dalle nuove possibilità offerte dal metaverso per disegnare altri immaginari possibili, alla portata delle esigenze degli individui moderni di restare vivi anche dopo morti, grazie a quel grande magazzino di pensieri, parole, opere, stili di vita, preferenze e gusti di cui ognuno di noi lascia tracce quando naviga in rete. Il paradiso non più in cielo, ma tutto al più in un cloud alla nostra portata. Gli studiosi parlano di immortalità digitale [2] in continuità con la nozione di religione digitale sin qui discussa.
La comunicazione digitale sembra, dunque, poter superare una sorta di barriera del suono che le religioni storiche hanno eretto soprattutto attorno all’esperienza individuale del morire e alla morte come fatto sociale. In primo luogo, perché essa permette di addomesticare la morte di una persona che può continuare a sopravvivere in un’immagine sospesa nella nuvola (cloud), ma visibile. In secondo luogo, con la comunicazione assistita via computer si può continuare a comunicare da morto con il mondo dei viventi e viceversa – saltando le figure dei mediatori che popolano sistemi di credenza i più diversi tra loro: dallo spiritismo sino al culto delle pezzentelle a Napoli [3]– fin tanto che le sue tracce restano impresse in quel mondo di mezzo, fatto di materialità e immaterialità, che il metaverso sembra rendere possibile. Annoto solo un ato che traggo da una recente e in assoluto prima ricerca sociologica sul rapporto tra gli italiani e la morte: mentre credenze antiche come l’esistenza del Purgatorio o dell’Inferno, appaiono nettamente in regresso, un terzo del campione rappresentativo sondato (2000 soggetti, nel 2017-18) dichiara di parlare con i morti [4].
Infine, il sistema di comunicazione digitale in tal modo si presta all’azione di rinforzo alle forme post-moderne di credere, tra secolarizzazione e post-secolare, tra non credere più nelle narrazioni dell’aldilà delle rispettive religioni di nascita e credere di aver a portata di mano un paradiso artificiale, visibile, che si materializza ogni volta che accendiamo il PC o accediamo a un app scaricata sul nostro smartphone, dove il corpo sottile dei propri cari o dei propri moderni idoli parlano ancora come se fossero in mezzo a noi. Nel 2021 un programmatore di origine portoghese Henrique Jorge ha già lanciato un social network chiamato Eter9 (Eternity+Cloud9; quest’ultima formula corrisponde al modo di dire in inglese “essere al settimo cielo”). Non è il solo sito né il primo che si propone di sfruttare le potenzialità comunicative dei nuovi media e dell’intelligenza artificiale su questo terreno.
Nel mondo dei social media esistono già da alcuni anni siti che offrono la possibilità di trattare digitalmente il morire e la morte: dai riti funebri digitali alle commemorazioni che diventano magazzini della memoria del morto, sempre disponibili, visitabili individualmente o in gruppo. In questo ultimo caso, la visita diventa occasione per elaborare il lutto o semplicemente per rinnovare un legame di amicizia e affetto che lega i componenti del gruppo alla figura della persona deceduta. Invece di recarsi al cimitero a portare i fiori sulla tomba di una persona cara, la commemorazione digitale permette di accedere a un sito dove si può raccontare la vita di chi non c’è più attraverso le immagini che sono state immagazzinate nel sito stesso e che possono essere eliminate o arricchite nel tempo grazie all’apporto delle persone che lo ricordano con affetto. Negli Stati Uniti d’America, Australia, Canada e Giappone alcune imprese di pompe funebri hanno compreso la potenzialità del digitale e offrono servizi online che integrano le cerimonie tradizionali d’inumazione o cremazione.
Elaborare il lutto, ricordare il morto e garantirsi una sopravvivenza post-mortem costituiscono, dunque, tre diversi livelli che il mondo digitale tende a ridefinire già ora sia nelle pratiche connesse con il fine vita sia per quanto riguarda il senso stesso del morire e dell’immaginario dell’aldilà. Quando nel 2014-15 Henrique Jorge lanciò il progetto di Eeter9, lo slogan da lui coniato per pubblicizzarlo era: «Eternizing is a way of keeping your thoughts and posts for all time» [5]. Può far sorridere quanto dice, ma la coreografia digitale sull’aldilà, appena abbozzata, sembra in grado di intercettare il desiderio secolare di immortalità, non più soddisfatto dalle narrazioni sul post-mortem delle religioni tradizionali.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] E. Pace, La comunicazione invisibile. Religioni e internet, Milano, Edizioni San Paolo, 2013.
[2] Per una brillante analisi del tema si veda D. Sisto, La morte si fa social, Torino, Bollati-Boringhieri, 2018. Per maggiori approfondimenti, inoltre, dello stesso autore Ricordati di me, Torino, Bollati Boringhieri, 2020 e Porcospini digitali. Vivere e morire online, Torino, Bollati-Boringhieri, 2023. Infine, altrettanto interessante è la prospettiva di analisi di I. Testoni, Il grande libro della morte: miti e riti dalla preistoria al cyborg, Milano, Il Saggiatore, 2021.
[3] Anime pezzenti, capuzzelle (teschi) vaganti tra il mondo dei vivi e quello dei morti attorno a cui si svilupperà un culto popolare tra paganesimo e cristianità tra Seicento e Ottocento. Su questo culto si veda M. Niola, Anime. Il Purgatorio a Napoli, Roma, Meltemi, 2022.
[4] A. Colombo (a cura di), Morire all’italiana, Bologna, Il Mulino, 2022.
[5] https://eternime.breezy.hr/
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Enzo Pace, è stato professore ordinario di sociologia e sociologia delle religioni all’Università di Padova. Directeur d’études invité all’EHESS (Parigi), è stato Presidente dell’International Society for the Sociology of Religion (ISSR). Ha istituito e diretto il Master sugli studi sull’islam europeo e ha tenuto il corso Islam and Human Rights all’European Master’s Programme in Human Rights and Democratisation. Ha tenuto corsi nell’ambito del programma Erasmus Teaching Staff Mobility presso le Università di Eskishehir (Turchia) (2010 e 2012), Porto (2009), Complutense di Madrid (2008), Jagiellonia di Cracovia (2007). Collabora con le riviste Archives de Sciences Sociales des Religions, Social Compass, Socijalna Ekologija, Horizontes Antropologicos, Religiologiques e Religioni & Società. Co-editor della Annual review of the Socioklogy of Religion, edito dalla Brill, Leiden-Boston, è autore di numerosi studi. Tra le recenti pubblicazioni si segnalano: Cristianesimo extra-large (EDB, 2018) e Introduzione alla sociologia delle religioni (Carocci, 2021, nuova edizione).
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