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“Le Stanze del silenzio” nei luoghi di lavoro

231114-lavoro-e-interculturadi Federica Cattaneo 

I cambiamenti tecnici e sociali stanno determinando, piaccia o non piaccia, una società sempre più differenziata e multietnica; aumenta il pluralismo degli stili di vita, delle confessioni religiose e degli orientamenti filosofici, non solo a causa delle migrazioni. La costruzione di “muri” materiali e culturali non è riuscita a bloccare queste tendenze ma solo a alimentare il presunto “scontro di civiltà”, tra gruppi e tra Stati. Anche l’accettazione del pluralismo può essere problematica se porta alla formazione di ghetti multiculturalisti, come nelle periferie londinesi o nelle banlieue parigine, dove talvolta accade che cacicchi locali cristallizzino le differenze per consolidare il loro potere sulla comunità, anche a scapito della sostanziale libertà dei singoli (e soprattutto delle donne), riducendo l’intervento pubblico alla sola funzione di gestione del conflitto tra comunità.

Servono invece politiche laiche, finalizzate all’inclusione, che garantiscano libertà e rispetto, che favoriscano il dialogo e la contaminazione reciproca. I luoghi di lavoro svolgono una funzione importantissima, non solo economica; sono centrali anche per una “pedagogia”, dell’inclusione o viceversa ghettizzante. La Stanza del silenzio può essere un valido dispositivo interculturale.

Inizia così il rapporto “Linee guida per l’istituzione della Stanza del silenzio nei luoghi di lavoro” [1] utilizzato come base di discussione per il convegno che si è tenuto alla Casa della Cultura di Milano con l’obiettivo di estendere l’istituzione del dispositivo stanza del silenzio nei luoghi di lavoro italiani [2]. Questo articolo si collega idealmente agli articoli di Alessandro Bonardi pubblicati su Dialoghi Mediterranei [3] e alle iniziative presso la Casa della Cultura effettuate e programmate sempre sul filone delle politiche interculturali [4].

Le stanze del silenzio si trovano in molti luoghi: in ospedali, cimiteri, aeroporti, alberghi, università, carceri, ecc.; ma ancora poco nei luoghi di lavoro. Il prototipo è la “camera di meditazione” predisposta nel 1954 dal Segretario delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld per i dipendenti ONU a New York: «il senso di un vaso non è il suo guscio, ma il vuoto. In questa sala è proprio così. La sala è dedicata a coloro che si recano qui per riempire il vuoto, con ciò che riescono a trovare nel loro centro interiore di quiete». La stanza del silenzio è un luogo per fermarsi, pensare, raccogliersi, rigenerarsi, meditare o pregare; un luogo accogliente, privo di simboli e riferimenti religiosi per rispettare i riti e le tradizioni proprie di ogni culto.

La stanza del silenzio è un dispositivo interculturale, che vuole evitare il multiculturalismo dei ghetti e promuovere l’incontro con l’altro, un antidoto alle divisioni e ai muri dove chiunque possa esprimere liberamente il suo pensiero e la sua fede. È particolarmente diffusa negli ospedali perché svolge una funzione anche terapeutica; ormai è ampiamente riconosciuto che la salute dipende anche dal benessere psicologico, relazionale, spirituale dell’individuo.

Come ha sostenuto il prof. Enzo Pace nel convegno alla Casa della Cultura, da circa vent’anni l’Italia è diventata una società abitata da tutte le grandi religioni monoteiste, con le loro articolazioni. Nel contempo la società italiana si è molto secolarizzata, nonostante l’aumento di luoghi di culto. Questo processo ha aperto un nuovo campo di ricerca spirituale. Molte persone vogliono credere, ma lo fanno con vie diverse di ricerca spirituale – varie ricerche sociologiche le hanno definite “religioni a bassa intensità”, o “appartenenza senza credenza” – costruendo ponti tra religioni, fedi non in senso religioso, visioni del mondo e spiritualità diverse [5]. Dunque la stanza del silenzio – come è esplicitato nel rapporto – è molto di più di un semplice luogo di preghiera o di meditazione. 

Onu, Stanza del Silenzio

Onu, Stanza del Silenzio

La necessità di una pedagogia circolare

Il confronto tra culture, concezioni del mondo, stili di vita, ideologie diverse, per non diventare scontro settario, deve muoversi su un sentiero stretto tra omogeneizzazione forzata e formazione di ghetti, tra una anche inconsapevole riproposizione della superiorità dell’Occidente e un asociale “pluralismo” dell’indifferenza e dell’abbandono. Dunque servono buone pratiche basate sulla laicità e sul rispetto per l’altro, e strumenti che le favoriscano.

La stanza del silenzio è molto di più di un semplice luogo: è un luogo che costruisce relazioni, è un hardware dotato di un suo software, è un progetto politico inclusivo, è una pedagogia (una pedagogia circolare), è educazione alla democrazia, al rispetto, al dialogo. Il frequentare lo stesso luogo consolida uno schema cognitivo (che permane oltre l’episodio) per cui ci si educa reciprocamente a esprimere la propria identità non in contrapposizione ma insieme a altri. La compresenza nei luoghi di lavoro di diverse credenze culturali e religiose, determinate dalle migrazioni o più in generale da differenziazioni degli stili di vita, possono creare problemi ma possono anche diventare occasione di miglioramento delle relazioni nella comunità della fabbrica o dell’ufficio. I problemi possono nascere dall’intolleranza verso il diverso (per etnia, genere, orientamento sessuale, religione, ecc.) con riflessi negativi sulla qualità delle relazioni e sull’attività lavorativa in generale. È quindi interesse dei singoli lavoratori, delle organizzazioni sindacali e degli imprenditori cercare di trasformare questi problemi in opportunità.

Anche le relazioni nel citato convegno dei sindacalisti Bilongo e Mondellini hanno indicato le articolazioni degli stili di vita, che possono rappresentare un arricchimento se affrontati con approccio intersezionale. In vari contratti di lavoro sono già presenti alcune disposizioni interculturali, relative a ferie, permessi, mensa. Solo qualche esempio: permessi per attività burocratiche connesse alla condizione di migrante, per festività previste dalla religione di appartenenza, per lutto (art. 8 e 10 Ccnl ind. metalmeccanica); permessi retribuiti per la frequenza di corsi di apprendimento della lingua italiana (art. 45 Ccnl ind. alimentare); gestione delle ferie (art. 27 Ccnl ind. chimica); ecc.. Ma le stanze del silenzio sono ancora poco diffuse nei luoghi di lavoro italiani. 

Frankfurt Airport, Stanza del Silenzo

Frankfurt Airport, Stanza del Silenzio

Come gestire i diversi stili di vita sul lavoro

Per adottare linee guida interculturali, formalizzate o meno nella contrattazione collettiva (aziendale o nazionale) serve innanzi tutto avere uno scopo condiviso, che consiste nel riconoscere ragionevolmente le esigenze specifiche di gruppi o singoli senza provocare reazioni negative in altri. Eventuali misure non devono essere percepite come “privilegi” o “concessioni” per alcuni, ma come opportunità per tutti, sia pure diversificate.

Le diversità degli stili di vita si manifestano innanzi tutto nel rapporto con il cibo, per le intolleranze alimentari (p.es. al lattosio), per scelte di vita (vegetariani, vegani), per disposizioni religiose (halal, kasher), per abitudini e tradizioni. Nei luoghi di lavoro dove è presente una mensa può esserci un’ampia possibilità di scelta, oppure i “diversi” possono essere obbligati a arrangiarsi con un personale portavivande. Non mancano casi di stigmatizzazione degli orientamenti minoritari, che siano vegani o musulmani, e viceversa di attenzione per tutte le diversità, talvolta anche codificate nella contrattazione collettiva.

Le diversità si manifestano anche nella fruizione di ferie e permessi. Nel caso delle ferie con la possibilità di cumularle per immigrati che tornino dai parenti in Paesi lontani. Tali possibilità non sono ghettizzanti perché possono essere usufruite da tutti o compensate all’inverso con la possibilità di spezzettarle, come stabilito in vari contratti. La fruizione dei permessi dipende molto dal clima in azienda e dal rapporto con chi li autorizza. È auspicabile che costoro, sia pure nei limiti posti dalle esigenze produttive e dai contratti, riconoscano le diverse esigenze dei singoli (familiari, religiose, ecc.) senza “privilegiare” o contrapporre un gruppo a un altro.

La realizzazione in Italia di luoghi di preghiera nelle fabbriche e negli uffici è estremamente rara [6]. Attualmente in Italia le stanze del silenzio sono fruibili dalle lavoratrici e dai lavoratori dipendenti quasi solo dove sono già state istituite per gli utenti (ospedali, aeroporti, ecc.) ma ci sono buone ragioni per istituirle ovunque.

Partiamo da esempi “a costo zero”. Quasi ovunque si effettuano pause in orario di lavoro (formalizzate o meno) e sono disponibili locali (sala ristoro, mensa, spogliatoi) che possono essere utilizzati come stanza del silenzio. Il dispositivo Stanza del silenzio può assorbire i casi di concessione di spazi appositi a specifiche comunità religiose. Per esempio, istituire una “moschea in azienda” è una risposta immediata per i lavoratori musulmani, ma se ci fossero lavoratori cristiani ortodossi, evangelici, sikh, o di altre confessioni, si dovrebbero istituire altrettante “chiese” e “templi”? La Stanza del silenzio, essendo un dispositivo interculturale, utilizzabile anche da atei e agnostici, non toglie nulla a chi vuole utilizzarla per la sua credenza, anzi educa a esprimere la propria identità senza contrapporla a quella altrui.

Oltre ai casi più elementari e semplici, si possono immaginare anche casi più articolati e/o non a costo zero, nel caso le circostanze (numero dei lavoratori, risorse dell’impresa) consentano di “investire” in miglioramenti che possano produrre risultati economici e reputazionali. Per capire in anticipo le tendenze che probabilmente investiranno anche l’Italia, può essere utile osservare ciò che sta già avvenendo nel Regno Unito, dove c’è un’ampia diffusione delle multifaith room nelle grandi imprese e dove c’è anche un fiorente mercato di consulenza in materia. 

BT Headquarters London Prayer Contemplation Room

BT Headquarters London Prayer Contemplation Room

La contrattazione per la gestione delle diversità

Forme più strutturate di contrattazione possono distinguere definizione di linee guida generali e regolamenti specifici. Per esempio i contratti nazionali, o di gruppo con più unità operative, o interaziendali di sito, possono stabilire finalità, disposizioni generali e metodologie di confronto per adottare regolamenti dettagliati a livello di singola unità produttiva, sede, stabilimento. In questi casi è possibile che i contratti nazionali o di gruppo contengano già un capitolo (per esempio sulle politiche di genere, ambientali, ecc.) dove collocare per affinità queste linee guida per le politiche interculturali, oppure che l’impresa abbia adottato un codice etico o un codice di condotta dove integrarle.

In ogni caso la “funzione pedagogica” passa per il consolidamento di uno staff, costituito da rappresentanti sindacali e dell’impresa ai vari livelli, formati ad hoc o capaci di autoformarsi, dotato di “sensibilità” e competenze per gestire e elaborare regolamenti, per raccogliere la documentazione esistente, per individuare eventuali strumenti di indagine (questionari, ecc.), per redarre strumenti informativi (report, ecc.).

L’azienda può essere interessata a adottare queste misure non solo per migliorare il clima interno, ma anche verso l’esterno, per migliorare il suo capitale reputazionale nei confronti dei propri clienti e più in generale dei vari stakeholder. Le rappresentanze imprenditoriali e sindacali possono quindi patrocinare incontri con i rappresentanti delle istituzioni (Comune, Università, ecc.), delle associazioni che promuovono iniziative interculturali e delle comunità religiose, per informarli delle intenzioni o delle decisioni adottate, e eventualmente sottoscrivere protocolli di intesa. È comunque auspicabile che, nello sforzo per soddisfare le diverse esigenze, la rappresentanza dei lavoratori non venga frammentata, tanto meno se su base etnica e religiosa. Ciò non sarebbe gradito alle organizzazioni sindacali che promuovono una rappresentanza generale dei lavoratori (nonostante la crescente etnicizzazione del mercato del lavoro) e sarebbe pericoloso anche per le imprese che potrebbero trovarsi a gestire “corporazioni” in competizione tra loro “per bande”.

L’intervento del prof. Bruno Ciancio nel convegno alla Casa della Cultura si è concentrato sulle questioni delle diversità e dell’inclusione anche dal punto di vista dei vantaggi che ne trarrebbero le aziende pubbliche e private, se affrontate correttamente e in modo sistemico. Promuovere la competenza culturale, cioè l’acquisizione, da parte degli individui e dei sistemi, dell’abilità a rispondere in modo efficace e rispettoso ai componenti di tutte le culture, etnie, religioni in una maniera che riconosca, affermi e valorizzi le similarità e le differenze culturali e il loro valore, è un importante vantaggio in termini d’innovazione, creatività, produttività e voglia di futuro. Raggiungere la competenza culturale sistemica – ha ulteriormente affermato il prof. Ciancio – è la chiave del successo nella società contemporanea multietnica: il diversity management e l’inclusione sono pietre angolari dell’intero processo. La competenza culturale sistemica coinvolge, in pieno, anche i nuovi cittadini. Nel mondo del lavoro in una società multietnica si dovrebbe pensare in modo diverso l’immigrazione, la diversità e l’inclusione: non come una minaccia, ma come un’opportunità dove la diversità di uno può diventare la forza di tutti.

Il rapporto riassume schematicamente anche i principali riferimenti normativi europei e italiani per l’istituzione delle stanze del silenzio e più in generale per l’adozione di politiche interculturali nei luoghi di lavoro [7]. Il divieto di discriminazione nei luoghi di lavoro è chiaramente stabilito nella Costituzione italiana e nella normativa europea. La Direttiva CE 2000/78 mira a

«stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento» (art.1); principio inteso come assenza di qualsiasi discriminazione diretta («quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga») o indiretta («quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia … rispetto ad altre persone, a meno che: (i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari …» (art. 2).

Con la sentenza del 13 ottobre 2022, la Corte di Giustizia della Comunità Europea, chiamata a giudicare la legittimità di un regolamento interno aziendale che vieta l’esibizione di qualsiasi segno o abbigliamento religioso, lo ha ritenuto non discriminatorio in quanto il divieto è rivolto a tutte le religioni. Per la Corte il regolamento aziendale non rappresenta una discriminazione, né diretta, né indiretta, perché è un divieto generale e motivato. Il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, non costituisce una discriminazione diretta “basata sulla religione o sulle convinzioni personali”, qualora essa riguardi qualsiasi manifestazione di tali convinzioni, senza distinzione alcuna, e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa. Inoltre, «la volontà di un’azienda di porsi nei confronti della clientela in una posizione di neutralità politica e religiosa deve considerarsi una finalità legittima»; quindi non è una discriminazione indiretta perché è oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati sono «appropriati e necessari» (cioè non sono sproporzionati rispetto al fine dichiarato).

Thyssen Krupp, Torino, progetto

Thyssen Krupp, Torino, Stanza del Silenzio,  progetto

Alcune considerazioni conclusive

La possibilità di istituire le Stanze del silenzio nei luoghi di lavoro si scontra certamente con molte difficoltà culturali e strutturali. Il Gruppo Nazionale è disponibile a fornire un supporto socializzando le esperienze finora realizzate in materia, ma non bisogna dimenticare che le esperienze di diversity management si stanno realizzando soprattutto nelle grandi imprese e che la struttura produttiva italiana è invece caratterizzata dalla presenza di piccole imprese e dalla diffusione del lavoro precario, che si estende fino a forme di semi-schiavitù [8]. L’approccio intersezionale ci fornisce una linea per contrastare l’intreccio delle diverse forme di oppressione, e ci mostra anche le difficoltà dovute, appunto, alla sovrapposizione, alla stratificazione, alla persistenza delle disuguaglianze, discriminazioni, oppressioni.

La sindacalista della Cgil Lombardia Angela Mondellini ha sottolineato l’impegno quotidiano in materia ma anche i rischi che le disuguaglianze (occupazionali, professionali, salariali) possano essere accentuate dalle diverse tradizioni religiose e culturali. Ciò soprattutto in relazione al rapporto uomo-donna e ancora più alla fluidità degli orientamenti e dei generi. Le recenti manifestazioni contro il patriarcato hanno indicato un percorso di speranza ma anche le persistenti difficoltà, anche semantiche [9]. I giovani hanno un approccio meno sclerotizzato su questi temi ma senza politiche inclusive, senza il riconoscimento giuridico e sostanziale dei diritti di cittadinanza, senza politiche egualitarie, c’è il rischio concreto che nelle seconde e terze generazioni di immigrati si diffondano delusioni per le aspettative mancate, rancori, reazioni identitarie, come nelle banlieue parigine.

Le nuove generazioni, sia autoctone che immigrate, soprattutto se di seconda o terza generazione, sono indubbiamente più aperte dei loro genitori alla contaminazione culturale reciproca. I conflitti si moltiplicano ma possono ancora essere gestiti positivamente, come un rapporto con le istituzioni per garantire l’effettività dei diritti di cittadinanza.

Il sindacalista degli alimentaristi Jean-Renè Bilongo, responsabile nazionale delle politiche migratorie della Flai-Cgil, ha mostrato la sua preoccupazione per la mancanza di una visione lungimirante, non solo dei partiti di governo: non è la semplice tolleranza che determina la serena convivenza, al contrario è necessario attivare un percorso di consapevolezza e di conoscenza dell’altro, in un’ottica di contaminazione. Tutti dovrebbero promuovere una socializzazione egualitaria e inclusiva, non solo le famiglie e le comunità, come spesso sostengono le destre. Le istituzioni che meglio possono allontanare il rischio sia dell’esclusione che della ghettizzazione multiculturalista, e diffondere relazioni interculturali laiche, sono soprattutto la scuola e il lavoro, luoghi dove non si acquisiscono solo conoscenze e retribuzioni, ma dove si esprimono e si consolidano relazioni, schemi cognitivi e comportamentali, che sono fondamentali per la qualità della socializzazione.

Il convegno su Lavoro e intercultura e il rapporto sulle Linee guida hanno evidenziato la necessità, la possibilità e la convenienza di promuovere le Stanze del silenzio nei luoghi di lavoro. Bisogna riconoscere le molte difficoltà sistemiche, che si intrecciano e si moltiplicano, ma anche l’esistenza di uno spazio comune che può favorire la contrattazione tra le imprese che adottano il diversity management e le organizzazioni sindacali che promuovono l’uguaglianza dei diritti di tutti i lavoratori.

Siamo certamente solo all’inizio di un percorso ma l’interesse in materia già mostrato da molti suscita la fondata aspettativa che le politiche interculturali si affermeranno sempre più nei luoghi di lavoro, anche tramite l’istituzione delle stanze del silenzio. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Note
[1]   Il rapporto Linee guida per l’istituzione della Stanza del silenzio nei luoghi di lavoro (versione del 15 luglio 2023) è stato elaborato dal Gruppo nazionale di lavoro per la Stanza del silenzio e/o dei culti anche con il mio contributo e ne userò ampi stralci in questo articolo.
[2]   Il convegno Lavoro e intercultura: un confronto tra politica, università e sindacato si è tenuto presso la Casa della Cultura di Milano il 14 novembre 2023 con la partecipazione di Jean-René Bilongo (Flai-Cgil), del prof. Bruno Ciancio (UniMoRe), di Angela Mondellini (Cgil Lombardia), del prof. Enzo Pace (UniPd) e di Alessandro Bonardi, coordinato da Federica Cattaneo. Il previsto intervento dell’on. Susanna Camusso non si è realizzato per un suo concomitante impegno in Senato.
[3]   Vedi su Dialoghi Mediterranei: Alessandro Bonardi, Le Stanze del Silenzio e dei Culti: lo stato dell’arte in Italia e Alessandro Bonardi, Mounia El Fasi, Stanze del Silenzio e dei Culti nelle Carceri: un’esperienza a Parma, rispettivamente nei nn. 52 e 64.
[4]    Vedi i convegni Politiche interculturali per l’inclusione tenuti alla Casa della Cultura di Milano il 29 novembre 2021, Contro i ghetti nelle periferie delle città con Ivan Mario Cipressi, Valeria Ferraro, Vincenzo Greco, Lorenzo Lipparini, Giulia Mezzetti, Alessandro Bonardi; 6 dicembre 2021 Contro i ghetti nelle campagne con Jean-René Bilongo, Leonardo Palmisano, Federica Cattaneo; 13 dicembre 2021 Gli schemi interpretativi con Susanna Camusso, Enzo Pace, Cinzia Sciuto, Giancarlo Straini.
[5]    Vedi il convegno Spiritualità e intercultura: un confronto tra diverse visioni del 14 dicembre 2023 alla Casa della Cultura di Milano, con Miriam Camerini (regista e studiosa di ebraismo), Emanuele Campagna (Centro Evangelico Sondrio), Laura Rosella Schluderer (Abof, Phd Cambridge), Giancarlo Straini (Arciatea rete per la laicità), imam Abdullah Tchina (Centro Culturale Islamico Milano Sesto), conclusioni del prof. Enzo Pace (sociologo UniPd).
[6]   Vedi un articolo di Sussidiario.net del 18/4/17 e di L’inkiesta del 25/7/12 sulla Castelgarden di Castelfranco Veneto (Treviso) dove fin dagli anni Novanta è stata costruita una piccola moschea all’interno dell’azienda.
[7]   Oltre alla Costituzione italiana, i principali riferimenti normativi sono la Direttiva CE 2000/78, il suo recepimento in Italia tramite il Dlgs 216/03, l’interpretazione della sentenza del 13 ottobre 2022.
[8]    In una mia relazione a un convegno del PIME su “Tratta e nuove schiavitù”, ho sostenuto che il Caporalato è solo la punta di un iceberg, ben inserito nell’economia contemporanea, non un marginale residuo del passato.
[9]    La lotta politica si svolge anche sul terreno dei significati delle parole. Se uso ‘fragilità’ al posto di ‘oppressione’, ad esempio, faccio sparire gli oppressori. Poiché il lessico che utilizziamo indica e consolida una visione del mondo, contro il neoliberismo dominante è indispensabile condurre una battaglia culturale con un linguaggio autonomo e unificante: vedi Federica Cattaneo e Giancarlo Straini, Le parole sono importanti per cambiare il mondo, pubblicato su MicroMega+ del 5 novembre 2021 (pdf)

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Federica Cattaneo, è una sindacalista e attivista per i diritti civili, politici e sociali, attualmente fa parte della Segreteria della CGIL di Monza e Brianza e dell’Associazione di promozione sociale ArciAtea rete per la laicità.

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