di Mario Sarica
Sulla scena incessantemente mutevole del presente, dominata da persuasivi, pervicaci e sempre più omologanti stili di vita, dai fatali effetti di spaesamento, resistono tenacemente alcuni dei segni forti della cultura di tradizione orale siciliana, che per generazioni hanno plasmato lo “stare al mondo”, riempiendo di senso e valore l’esperienza esistenziale, individuale e collettiva.
Sfaldata per sempre la cornice sociale ed economica entro la quale si replicavano coerentemente, entro una trama di produzione di senso, gesti lavorativi, azioni rituali e forme di comportamento afferenti ad un sistema culturale che bastava a sé stesso, perché in grado di autorigenerarsi in una circolarità rassicurante, oggi non ci resta che osservare frammenti alla deriva di una cultura smarrita.
Ciò nonostante, si avverte, quasi per difendersi dalla invasiva globalizzazione, e dal “diverso” e dal “lontano” entrati prepotentemente nella nostra vita, una diffusa e piena consapevolezza della necessità di ritrovare le proprie radici culturali per coniugarli al presente, senza improbabili fughe nostalgiche verso un passato per sempre perduto.
E così, nelle complesse dinamiche relazionali, che rimettono in gioco pezzi di cultura popolare orientandoli sui nuovi bisogni individuali e collettivi, spesso piegandoli a tentativi di recupero di un’identità frammentata e controversa, la Settimana Santa in Sicilia si configura in molti casi come un territorio estremo di resistenza della tradizione, con un catalogo di spettacolari messinscena, facendo riemergere un’antica memoria rituale di religiosità e pietà popolare.
Fuori dal tempo ordinario, lo spazio festivo concede ancora, nonostante le contaminazioni del contemporaneo, il dominio assoluto ai gesti rituali, ai segni e ai simboli che incarnano il salvifico martirio del Figlio di Dio, in una pluralità di apparati cerimoniali, talvolta esclusivi, di ogni singola comunità di lungo periodo storico.
Le forme di comportamento, le inderogabili sequenze cerimoniali sedimentate nel tempo, fino a diventare prescrittive, sulla scena della Settimana Santa, illuminano le ragioni del vivere, offrendo un’esperienza catartica, un tempo centrale ed ineludibile, ora fortemente relativizzata, che proclama alla fine il trionfo della vita sulla morte, sulla sfondo di una religiosità cosmo-vitale connessa alla rigenerazione primaverile della natura.
Tra gli elementi costitutivi, che, più degli altri, modellano gli spazi fisici e rituali della Passione nella cultura popolare siciliana, c’è da annotare il canto nella forma polivocale maschile, dominante rispetto alla marginale espressione femminile, anch’essa in alcuni casi processionale, codificato in una pluralità di stili vocali e livelli verbali, dal registro linguistico, siciliano, italiano e latino. Canale privilegiato di comunicazione e mediazione con le figure del sacro, i canti della Passione si configurano come esperienza narrativa-catartica, in grado di far rivivere l’evento salvifico in una dimensione mitica, dove si ritorna ad essere “testimoni oculari” della Passione di Cristo, della sua morte e della sua risurrezione. Il canto opera così esemplarmente una congiunzione-riappropriazione tra la memoria del passato e l’immagine dell’umanità redenta, saldando, nella sospensione della precaria scansione del quotidiano, il tempo della vita e il tempo del mondo.
Caratterizzati da ardite e virtuosistiche escursioni vocali del solista o dei solisti, dai tipici caratteri di vocalità popolare melismatica e quasi sempre modale (voce sforzata, quasi gridata, solitamente di testa), i canti della Settimana Santa operano un’impressionante dissoluzione sonora dei versi intonati dalla “prima voce” solista, spesso replicati da una “seconda voce”, cui si aggiungono talvolta i registri vocali “alto” e “basso”, la cui crescente tensione drammaturgica-vocale si esalta nella risposta ad accordo o a parti delle altri voci del gruppo.
Riempiendo lo spazio rituale penitenziale, il canto si offre come emblematica immagine verbale-sonora drammatica dell’evento pasquale, assurgendo a canto-narrativo del martirio di Cristo, che risuona fisicamente lungo gli itinerari del Giovedì e Venerdì Santi, sacralizzandoli, in un continuum vocale dagli accenti dolenti, immediatamente percepibile da tutti i fedeli. È interessante, poi, rilevare che il rapporto tra il livello verbale e quello vocale-sonoro, nel caso di ricorso a testi dialettali, quindi di un codice linguistico familiare, pur mantenendo immutati i profili e i caratteri del modello polivocale, si configura paritario, non raggiungendo gli eccessi della dissoluzione della parola a favore del supporto vocale riscontrata quando la tradizione adotta testi liturgici in latino.
E a proposito dei titoli liturgici storici, quelli più ricorrenti sono lo Stabat Mater, il Popule Meus, il Miserere salmo 50, Jesu e Vexilla Regis. Più in particolare, il Popule Meus fa parte degli Improperia, ovvero i lamenti che il Signore muove al popolo giudaico, composti nel sec. VI, e giunti in Occidente dalla Chiesa di Gerusalemme, cantati il Venerdì Santo al momento dell’adorazione della croce unitamente al trisagio bizantino.
Il Vexilla Regis, composto da Venanzio Fortunato, fra V e VI secolo, vescovo di Poitiers, in occasione del trasferimento di alcune reliquie offerte da Santa Redegonda, alla chiesa del monastero da lei fondato, fa parte invece dell’Antiphonarium Missae, ed è un Inno per il Vespro della Ia domenica di Passione eseguito, anche, nell’ufficio della Settimana Santa.
Lo Stabat Mater, il cui testo poetico è attribuito a Jacopone da Todi, è invece una delle cinque sequenze latine rimaste nel Graduale, la cui melodia, nel II modo gregoriano, risale al XIII secolo. Fino al 1960 lo Stabat Mater, con diversa melodia, nel VI modo, era destinato come Inno anche all’ufficio del Venerdì dopo la Ia Domenica di Passione.
Il Miserere salmo 50 può invece essere considerato uno dei testi biblici più diffusi nella liturgia e nella vita religiosa cristiana. Esso, in particolare, è il quarto dei sette salmi penitenziali della Vulgata. Si osservi che a partire dal XVI secolo i compositori cominciarono a dare al Miserere una veste polifonica.
Un altro testo latino, dalle oscure origini, probabilmente medievale, da mettersi forse in relazione allo Jesu rex admirabilis di S. Bernardo di Chiaravalle, abate cistercense dell’XI secolo, che diventa inno a tre voci nel Cinquecento grazie a G. Pierluigi da Palestrina, o ad altro titolo analogo pervenuto dal mistico San Giovanni da Campis, è Jesu, che si canta in una lezione locale a Novara di Sicilia, sede storica di cistercensi fondata dall’abate San Ugo, intonato nel corso del corteo dei Misteri del Venerdì Santo. Un’altra versione di Jesu ricorre a Casalvecchio Siculo per la Cerca che ha luogo fra Giovedì e Venerdì Santo, in un singolare montaggio linguistico, con la coesistenza paritaria dei registri italiano, siciliano e latino.
Ritornando alla prassi di canto polivocale di tradizione, che marcava un tempo tutti i riti della Settimana Santa, si osservino anche le licenze che si concedevano i cantori sul piano esecutivo, ovvero le improvvisazioni e le microvarianti individuali. Al di là del senso delle parole e del loro rivestimento in forma cantata, c’è da rilevare come lo specifico vocale sia strettamente correlato alla gestualità, alla mimica, ai movimenti corporei, ovvero al linguaggio del corpo dei cantori.
Mutuando alla nostra osservazione quanto scritto da Roland Barthes a proposito della voce come «luogo primario della tessitura fonica e musicale», è possibile individuare come elementi costitutivi della grana della voce del canto polivocale il fenocanto, situato nella zona di contatto tra musica e linguaggio, che, come ci informa lo stesso Barthes, ricopre tutti i fenomeni dipendenti dalla struttura della lingua cantata: regole del genere, forme del melismo, stile di interpretazione, di tutto ciò, insomma, che nell’esecuzione è al servizio della comunicazione, della rappresentazione e dell’espressione.
Specularmente al fenocanto Barthes individua il genocanto, vale a dire ciò che attiene al volume della voce che canta, al godimento corporeo, alla pulsione ritmica da cui sgorga, in altri termini al gioco significante presemantico, estraneo alla comunicazione ed espressione dei sentimenti. Appare, dunque, evidente come il processo di articolazione e spazializzazione della forma polivocale, connessa ad eventi rituali o itinerari processionali, si modella su una fitta trama dialettica, che fa interagire elementi vocali e segmenti di comunicazione non verbale.
I canti di tradizione orale intonati ancora oggi in molte località siciliane lungo i cortei penitenziali della Settimana Santa, costituiscono un catalogo “vocale-rituale” di rilevante interesse sotto il profilo etnomusicologico, ampiamente documentato dai rilevamenti sul campo, sin dal 1948, grazie alla campagna promossa fino al 1969 dall’Accademia di S. Cecilia di Roma e dalla RAI, oltre che da un manipolo di ricercatori che hanno dato continuità alla ricerca fino ai giorni nostri. La ricchezza delle fonti attesta una resistenza tenace dei valori di religiosità popolare siciliana, e così, le voci dolenti del martirio di Cristo, emergono ancora oggi come segni distintivi dell’identità delle tante comunità siciliane di origine rurale.
Fonte narrativo-musicale del dramma del Calvario, il canto si irradia da gruppi polivocali maschili che, nel rispetto di un rigoroso modello esecutivo – prevede uno o più solisti e un coro che “accorda” – fa ricorso a livelli verbali dialettali, centrati soprattutto sul dolore della Madre di Cristo, o a testi liturgici “riscritti” sul registro verbale e vocale popolare, all’interno degli itinerari penitenziali promossi solitamente dalle confraternite di origine plurisecolare.
Uno degli esiti più singolari di questa pratica polivocale, funzionale al teatro sacro della Passione che trascende il perimetro liturgico, un tempo diffusa anche in area urbana messinese, è la dissoluzione del supporto testuale a favore di una dimensione sonora di forte suggestione, connotata da accenti di accorata e dolente umanità, con un forte rispecchiamento della sofferenza esistenziale individuale e collettiva.
Canale privilegiato di comunicazione con le figure del sacro, il canto a più voci introduceva la comunità dei credenti nel “tempo sacro”, rendendo tutti partecipi di un’esperienza catartica di rinascita a nuova vita, indicata dal martirio e resurrezione del Figlio di Dio, che spiegava anche, secondo un modello antropologico di più antica memoria, il rinnovarsi del ciclo vegetale primaverile.
“U lamentu” di Condrò, “I doli du Signori” di Alcara Li Fusi, “Lu venniri di mazzu” di Tusa, “Affaccia Maria” di Capizzi, “O Matri trafitta” di Militello Rosmarino e, ancora, “Visilla” di Barcellona Pozzo di Gotto, “Li parti ra cruci” e “Stabat Mater” di S. Stefano di Camastra, “O Santa Cruci” di Mistretta, “Stabat Mater” di Caronia”, “Jesu” di Novara di Sicilia e di Casalvecchio Siculo, sono solo alcuni titoli esemplificativi del cospicuo repertorio di canti della Settimana Santa rilevati nel territorio messinese da una ricerca etnomusicologia, che ha preso le mosse a partire dagli anni 80 del XX secolo.
I rilevamenti sul campo hanno avuto l’indubbio merito non solo di salvaguardare un patrimonio immateriale inestimabile di tradizione a rischio di estinzione, che tuttavia, purtroppo, nel frattempo, in alcuni centri, per l’interruzione generazionale della trasmissione, è svanito per sempre, ma anche, per fortuna, in molti casi di riattivarlo, riconoscendolo come forma fondativa di religiosità popolare. D’altra parte, la stessa natura del canto, costituito da materia impalpabile, facilmente deperibile, vive esclusivamente grazie alle performances, ovvero all’esecuzione di tradizione orale, senza dunque alcun supporto di notazione musicale, per cui necessita di una maggiore cura ed attenzione nella trasmissione dei saperi.
Volgendo ora lo sguardo al repertorio polivocale di tradizione della Settimana Santa nella provincia di Messina, esso risulta, nella generalità dei casi, costituito principalmente da brani, a due o a tre voci soliste, caratterizzati dall’impianto ad accordo e parti. Le linee melodiche, più o meno gregorianeggianti, sono quasi sempre aderenti ad una scrittura performativa tonale moderna, in cui, comunque, è possibile individuare modalità di canto arcaiche, nel caso di Tusa, dove si fa ricorso di una scala modale e a una tessitura di inconsueti ed estranianti rapporti intervallari. L’uso della voci soliste – si alternano due voci che riprendono e replicano spesso i versi di cui si compone il testo – risulta spiccatamente popolare, ovvero lacerata e sforzata, quasi gridata, con il ricorso frequente a glissati e melismi.
Circa le origini e le influenze colte che i canti polivocali di tradizione conservano, il cui flessibile modello performativo era un tempo ricorrente in altri contesti di vita popolare, anche festivi e lavorativi, è sufficiente segnalare l’indubbio ruolo svolto dalla cappelle musicali siciliane, quelle di Palermo, Messina e Caltagirone, poli di irradiazione della pratica polifonica liturgica, con il ricorso al cosiddetto Falso Bordone, a partire dal 1500.
Altre più remote ascendenze del canto polivocale di tradizione connesso ai riti della Settimana Santa, oltre che in epoca medievale secondo il modello dell’Organum e del Concentus, si possono rintracciare nei repertori siciliani di lamentazioni, come quella a doppio coro scritte da Placido Cafaro, decano del ricco monastero benedettino di S.Placido Calonerò, sulle estreme propaggini ioniche del territorio messinese, pubblicate a Venezia intorno alla metà del Cinquecento.
Ai canti polivocali di tradizione, un tempo espressione centrale del vissuto devozionale, si affidava, dunque, e si affida ancora in molti casi, una funzione narrativa essenziale, quella di rievocare il dramma sacro, spesso con un’intensità interpretativa di rara e autentica pietas popolare. La parola cantata, che sacralizza gli spazi del quotidiano, sembra quasi animare i gruppi scultori della Via Crucis, dando singolare rilievo figurativo, fra sacro e profano, liturgia e devozione, ad un vero e proprio teatro sacro popolare, che rinnova, nonostante l’assordante rumore di fondo del presente, il suo profondo legame con i valori condivisi della tradizione, regalando, sorprendentemente, una rigenerante e singolare esperienza di intensa e coinvolgente emozione esistenziale.