La nostra realtà è una realtà mobilitata. Flussi, movimenti e relazioni permeano la società contemporanea e ne scandiscono dinamiche, prospettive e propensioni. È una mobilità articolata su piani e livelli differenti, i cui percorsi non sono disgiunti ma, interagendo, inevitabilmente si intersecano. Mobilità fisiche e materiali si associano a mobilità virtuali e simboliche e insieme attraversano lo spazio, generando interconnessioni e nessi globali. Il soggetto/oggetto mobile per eccellenza è la società odierna: essa deve essere intesa come un sistema globale di interdipendenze, in cui persone, merci, capitali, idee e informazioni sono al contempo esecutori, veicoli e destinatari di ogni forma di mobilità (Hannam, Sheller, Urry, 2006a).
La mobilità è, dunque, un fenomeno pervasivo della realtà sociale nel suo complesso (Mascheroni, 2007°: 18-20), esperibile sia su scala locale sia su scala globale; è, ancora, condizione e, al contempo, effetto della globalizzazione [1]. Indipendentemente dalla forma in cui si concretizzano – culturale, economica e/o politica – relazioni, contatti e legami sono propensioni intrinseche e peculiari degli uomini e tentare di reciderli o di bloccarli significa snaturare le società stesse. È per tale ragione che ogni tentativo di confinamento diviene in sé contraddittorio.
Nella platea delle mobilità che tracciano i contorni della realtà contemporanea, le migrazioni costituiscono il fenomeno più incisivo, riflesso delle problematicità che il nostro tempo si trova a vivere e che appaiono di difficile risoluzione. Gran parte delle migrazioni odierne scaturiscono, infatti, da condizioni di criticità economico-politiche e culturali (Guarrasi, 2011: 47), le quali, a loro volta, causano squilibri e conflitti a livello sociale. In un siffatto contesto, lo spostamento da una terra all’altra da prolifera opportunità si trasforma in impellente esigenza di evadere. Ogni giorno, migliaia di donne e uomini si concedono la possibilità di trovare lontano dalla propria terra d’origine uno spazio adeguato e sicuro per la propria esistenza, spesso a costo di ingenti sacrifici.
Oggi l’opinione pubblica veicola un’immagine distorta e parziale delle migrazioni: gli Stati europei costruiscono i loro discorsi politici – con evidenti accenti neo-nazionalisti – sui concetti di difesa e sicurezza, dirottando l’attenzione mediatica esclusivamente sugli immigrati, i quali divengono il simbolo di un’emergenza che deve essere arginata [2]. In tal modo, il binomio straniero-pericolo diviene la sintesi dei rapporti sociali della contemporaneità, promuovendo isolazionismo e disgregazione anziché solidarietà e integrazione.
Tale attenzione idiosincratica verso i flussi in entrata ha mostrato, tuttavia, solamente uno dei plurimi volti in cui la migrazione si declina, sottacendone gli altri. Tra i soggetti migranti dimenticati – o meglio, ignorati − dal focus politico-mediatico vi sono i cittadini dei cosiddetti Paesi ricchi, protagonisti delle emigrazioni volontarie di natura economica. Si tratta di una paradossale emigrazione, sorta dal sentimento di insoddisfazione e disillusione nutrito dagli individui nei riguardi della propria terra d’origine per l’impossibilità di riuscire a trovarvi una collocazione adeguata a esaudire aspirazioni e sogni. Paradossale perché un Paese ricco, per definizione proiettato verso trend globali e quindi compartecipe del principio positivo di «migrazione circolare»[3] (Sabbadini, 2018), dovrebbe possedere quegli strumenti capaci di rispondere alle richieste dei suoi cittadini, anziché spingerli altrove per una strutturale carenza di risorse.
L’Italia sta attualmente vivendo questa contraddizione. Entrato nel novero dei Paesi ricchi e industrializzati nel secondo Novecento, lo Stato italiano sembrava aver esaurito la sua spinta emigratoria al punto che, negli anni Settanta, l’opinione pubblica ha potuto unanimemente dichiarare la fine di una secolare esperienza che ha coinvolto milioni di Italiani. Gli effetti del boom economico nazionale congiunti al mutato clima economico-politico internazionale [4] hanno innescato una «migrazione al contrario» (Colucci, Sanfilippo, 2010: 28), in virtù della quale, e insieme a una riduzione delle partenze, i saldi migratori italiani hanno progressivamente acquistato il segno positivo. Contemporaneamente, una nuova imprevista dinamica vede come protagonista l’Italia: l’afflusso di genti provenienti dall’Est europeo e dal Nord Africa, le quali riescono a trovare nell’area mediterranea una più favorevole accoglienza a dispetto del mutato atteggiamento degli Stati dell’Europa centro-settentrionale in materia di immigrazione. In realtà, la transizione che il nostro Paese ha sperimentato nell’ultimo trentennio del Novecento è − per usare le parole di Enrico Pugliese – quella «da Paese esclusivamente di emigrazione a Paese prevalentemente di immigrazione» (2015: 27). Ciò significa che l’emigrazione ha continuato ad essere, dunque, una variabile presente nelle opzioni degli Italiani, sebbene le cifre delle partenze non abbiano raggiunto le dimensioni degli esodi passati. Ciononostante, da quel momento le élite politiche si sono concentrate unicamente sui flussi in entrata, obliando quelli in uscita.
Il movimento in uscita dalla Penisola assume una facies quantitativa importante a partire dagli anni Novanta, in concomitanza degli sviluppi politici internazionali che hanno inaugurato l’Unione Europea da una parte, il principio della libera circolazione delle persone dall’altra. Si tratta di un’evoluzione significativa in termini di crescita economico-politica e di mobilità socio-culturale per gli Stati aderenti – fra i quali vi è l’Italia – mediante il reciproco scambio di risorse umane. Tuttavia, la nostra Penisola, ben lungi dal raggiungimento degli standard europei, ha perso non solo la sua forza attrattiva, ma anche la capacità di trattenere al proprio interno i suoi abitanti. Da allora un’emigrazione silente e incessante ha ripreso vigore proseguendo sino a giorni nostri, dapprima registrando un andamento annuale altalenante, successivamente attestandosi su ritmi di costante crescita.
Siamo innanzi a un flusso composito, trascurato dalla classe politica italiana e superficialmente descritto dai media con i reboanti toni del brain drain, un fenomeno che sta assumendo – anch’esso, accanto a quello immigratorio − carattere d’urgenza. Del resto, ogni emigrazione è sintomo di un malessere o di una disfunzione che affligge la società di partenza e la consapevolezza circa l’esistenza di questa emorragia sociale è già un passo in avanti verso eventuali risoluzioni. Bisogna sondare il terreno socio-economico-politico e rintracciare le falle che ne hanno inceppato il corretto funzionamento e che hanno generato insoddisfazione, svalutazione e conseguente perdita del potenziale umano. Individuare e risolvere le problematicità non deve avere necessariamente come risultato il richiamo dei soggetti partiti, ma certamente deve auspicare a infondere nuova fiducia e a non tradire le aspettative di coloro che sono rimasti. Provvedere al corretto funzionamento della macchina istituzionale non significa nemmeno scoraggiare la mobilità, poiché darebbe luogo a esiti controproducenti e danneggerebbe una situazione già critica. Una possibile soluzione dovrebbe provvedere alla formazione di un terreno fertile per una mobilità a doppio senso, in uscita e in entrata, nella logica di un vicendevole scambio e investimento di risorse umane. Una mobilità mossa dall’opportunità e non dal bisogno.
Il terzo ciclo migratorio italiano, 1993-2017 [5]
Allo spirare del secolo XX, l’Italia si profila come terra di approdi, accoglienze e ritorni. È la terra di un’esperienza emigratoria che appare esaurita, la cui memoria resta sopita nelle menti delle generazioni passate. Ogni impegno politico migratorio, ogni attenzione, ogni focus mediatico hanno per oggetto i flussi in entrata poiché l’Italia ha ormai sperimentato, secondo la più diffusa opinione pubblica, l’evoluzione da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione. Anche il mondo della cultura, nel suo pullulare di studi sull’emigrazione italiana, esula da un’osservazione che avvolga la contemporaneità a cavallo tra i secoli XX e XXI, come se il vissuto emigratorio sia relegato esclusivamente a una dimensione lontana e passata della storia italiana. Eccezion fatta per alcuni importanti studi pubblicati nel corso del primo decennio del XXI secolo, solo dagli anni Dieci si è visto il proliferare di studi sulla mobilità italiana, rendendo improcrastinabile la riflessione sul fiume di persone in uscita dal nostro Paese.
Invero, l’Italia ha acquisito un ruolo emblematico all’interno del più ampio contesto delle migrazioni internazionali. La compresenza di flussi in entrata e in uscita da parte e di Italiani e di stranieri, entrambi protagonisti contemporaneamente e in egual modo anche degli spostamenti interni secondo la direttrice Sud-Nord (Pugliese, 2015), innalza la Penisola a «crocevia migratorio» (Pugliese, 2018: 121) dell’Europa. L’emigrazione italiana ha mutato la sua veste quantitativa e qualitativa, in modo speculare ai rivolgimenti che hanno caratterizzato la società sul finire dello scorso secolo. Cambiano le coscienze sociali, si ampliano prospettive e ambizioni e, di riflesso, cambiano numeri, modalità e obiettivi dell’esperienza migratoria. Il XXI secolo acuisce tali dinamiche e l’intensificarsi del viavai di uomini e donne di ogni nazionalità spoglia l’Italia dei veli che per diversi anni hanno celato le contraddizioni insite nel suo modus operandi e che oggi rendono impellenti le partenze di molti, connazionali e non.
Che le emigrazioni dall’Italia siano oggi una realtà concreta è, dunque, innegabile. Tuttavia, riuscire a effettuare una stima esatta del numero di partenze verificatesi nell’ultimo ventennio si rivela un’operazione complessa a causa dell’incongruità tra i dati registrati in Italia e quelli rilevati dagli Stati di destinazione. Per tale ragione, è indispensabile procedere con un’analisi comparativa dei dati desunti dai differenti istituti di statistica operanti a livello locale. Come notano i più attenti studiosi del fenomeno (Corti, 2007; Gallo, 2016b, Pugliese, 2018), in Italia la stima delle partenze è attualmente effettuata sulla base delle cancellazioni anagrafiche e delle concomitanti registrazioni all’AIRE.[6] Tali dati sono, però, suscettibili di un margine di imprecisione a causa dei ritardi riportati dai cittadini italiani nel comunicare l’avvenuto trasferimento di residenza dall’Italia per l’estero (Gallo, 2016b). D’altro canto, la registrazione presso gli enti locali dei Paesi di destinazione è necessaria al fine di usufruire di servizi e prestazioni sociali imprescindibili alla nuova vita. Ne consegue una discrepanza tra il numero delle notifiche di cancellazione pervenute in Italia e il numero delle registrazioni di Italiani presso gli enti sociali degli altri Stati, determinando da parte italiana una sottostima della reale entità del fenomeno. Ciononostante, nota Pugliese, «si tratta di cifre che danno un’idea abbastanza precisa della situazione e della sua evoluzione» (2018: 10), sebbene sia necessario tener sempre a mente la natura parziale – non errata, è bene precisarlo – delle informazioni espresse.
Secondo quanto rilevato dai dati Istat, tra il 1990 e il 2017 sono espatriati 1.542.820 cittadini italiani e solamente 1.060.552 sono coloro che hanno fatto ritorno, per un saldo migratorio di -482.268 unità (Tabella 2). Certamente, non sono ancora state sfiorate le cifre che hanno caratterizzato i due cicli migratori precedenti [7], eppure la connotazione di massa dell’odierna emigrazione non è negabile. Al progressivo aumento delle partenze si accompagna, inversamente, una graduale diminuzione dei ritorni, tendenza accentuatasi nel corso degli ultimi anni. L’ipotesi che siamo nel pieno di una nuova stagione dell’emigrazione italiana – un terzo ciclo migratorio − ottiene un riscontro positivo in autorevoli nomi del panorama accademico come Enrico Pugliese, Igor Gjergji, Matteo Sanfilippo. Tuttavia – e in questo mi discosto dalle loro tesi (Gjergji, 2015; Pugliese, 2018; Sanfilippo, 2017) – ritengo che il terzo ciclo migratorio italiano prenda avvio non dagli anni Duemila, bensì a partire dagli anni Novanta, individuando nel 1993 − il primo anno con saldo netto di espatri negativo dopo venti anni esatti dalla fine del secondo ciclo migratorio nel 1973 − il terminus post quem. Nell’ultimo decennio del secolo XX, infatti, si affermano le condizioni che innescano il nuovo ciclo di partenze, il quale tende a inasprirsi nel corso del primo decennio del XXI secolo, con un vero e proprio exploit negli anni Dieci. Siamo dinanzi a un fenomeno che, con i suoi elementi di continuità, si inserisce nel solco della tradizione storica italiana – a conferma di una tendenza di lunghissima durata − presentando al contempo quei tratti di novità che ci permettono di tracciare i contorni e riconoscere i connotati di una nuova fase emigratoria. Esso rappresenta, altresì, il monito per uno Stato troppo proiettato a difendere le sue frontiere dagli ingressi degli immigrati, non curandosi della ferita inferta dalla fuoriuscita copiosa di connazionali, sempre più inclini a preferire le mete estere.
Un esame accurato dei dati quantitativi desunti dall’Istat ci permette non solo di effettuare un computo esatto del saldo migratorio a partire dall’anno di inizio di questa terza stagione migratoria, ma anche di frazionare l’arco temporale 1993-2017 in due sotto-periodi: il primo datato 1993-2007 e il secondo datato 2008-2017 (Tabella 1, Grafico 1). Le due micro-fasi si differenziano prevalentemente per l’andamento migratorio – altalenante il primo, di progressiva crescita il secondo – e per il quantitativo di rimpatri, nettamente superiori nel primo sotto-periodo. Inoltre, a fare da cornice all’intero ciclo migratorio sono due successive crisi economiche di respiro sia nazionale sia internazionale, ognuna delle quali caratterizza uno dei due sotto-periodi.
PERIODO |
ESPATRI |
RIMPATRI |
SALDO MIGRATORIO |
1993-2007 |
653.756 |
561.072 |
-92.684 |
2008-2017 |
738.444 |
318.592 |
-419.852 |
1993-2017 |
1.392.200 |
879.664 |
-512.536 |
Tabella 1. Espatri, rimpatri e saldi migratori del terzo ciclo migratorio italiano sia nel suo complesso (1993-2017) sia ripartito nelle sue due micro-fasi (1993-2007 e 2008-2017). Fonte: Istat, Serie Storica; Istat, Trasferimenti di residenza. Mia rielaborazione dati.
Grafico 1. Differenziali tra espatri e rimpatri dei due sotto-periodi del terzo ciclo migratorio. Fonte: Istat, Serie Storica; Istat, Trasferimenti di residenza. Mia rielaborazione dati.
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Tabella 2. Espatri e rimpatri da e per l’Italia, anni 1990-2017. Fonte: Istat, Serie Storica; Istat, Trasferimenti di residenza. Mia rielaborazione dati.
Cause, protagonisti e direttrici della nuova emigrazione italiana
Presa coscienza dei riferimenti quantitativi che ci hanno permesso di avallare l’idea di un terzo ciclo migratorio italiano, bisogna adesso capire quali fattori abbiano innescato la nuova ondata di partenze e chi siano i protagonisti. Certamente, l’inscindibile connessione tra vicende nazionali e vicende internazionali ha giocato un ruolo non secondario proprio a partire dall’ultimo decennio del XX secolo. Lo spettro della depressione economica – nelle due rispettive ondate del 1992-1993 e del 2007-2008 – si traduce in instabilità politica, precarietà occupazionale, disancoramento culturale e sfiducia sociale, producendo quella deleteria miscela che funge da detonatore dell’ondata emigratoria.
Gli anni Novanta si configurano come un periodo cruciale per l’Italia, di generalizzata preoccupazione, incertezza e sfiducia – sono gli anni di Tangentopoli e Mafiopoli, che accompagnano e, per certi aspetti, identificano la crisi nazionale, battezzando la Seconda Repubblica (Lupo, 2013). In quegli anni, lo Stato italiano si ritrova, da una parte, a combattere contro la drammatica situazione economico-finanziaria nazionale esplosa tra il 1992 e il 1993 e, dall’altra, a rincorrere i trend internazionali per riuscire a uniformarsi ai parametri economico-politici e socio-culturali fissati dalla neonata Unione Europa. L’evoluzione politica europea palesa, infatti, le contraddizioni e gli svantaggi della Penisola: carenza di investimenti nei settori della ricerca e delle tecnologie, assenza di grandi compagnie internazionali in un periodo di accelerata proiezione finanziaria su scala mondiale e marcata debolezza in settori-chiave della produzione di beni di consumo mostrano il volto di un’Italia poco concorrenziale rispetto agli altri Stati dell’Europa (Ginsborg, 1995). L’economia italiana appare claudicante, impantanata nei recessi del deficit del bilancio, del crescente debito pubblico e dell’elevata inflazione. La necessità di inseguire i ritmi europei e di arginare il dissesto finanziario impongono la svolta neoliberista, che con il suo bagaglio di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, delocalizzazioni e riforme dell’apparato occupazionale produce un incremento del tasso di disoccupazione, solamente parzialmente recuperato alle soglie del nuovo secolo (Istat, 2013; Svimez, 2001).
Il nuovo millennio con il suo carico di novità, progresso e innovazioni scientifiche e tecnologiche avrebbe potuto risollevare le sorti di un Paese che ha salutato il vecchio secolo con ingenti difficoltà socio-economiche e politiche. Tuttavia, l’Italia ha scelto di non sganciarsi dal vagone di ritardi su cui ha viaggiato la sua amministrazione politica nel ventennio conclusivo del secolo XX, sprofondando dinanzi al soverchiante peso della concorrenza estera, della crisi e della recessione. I primi anni Duemila sono stati caratterizzati, infatti, da una quadratura economica positiva di respiro internazionale, i cui effetti benefici hanno giovato anche al nostro Paese (Svimez, 2001). Ciononostante, la carenza di strumenti innovativi e l’assenza di un piano politico proiettato a ristrutturare in toto i settori produttivi e occupazionali hanno contribuito ad alimentare l’atrofia dell’apparato economico, abbandonando l’Italia nel baratro dell’arretratezza. In effetti, a fronte di uno standard socio-economico europeo improntato sul pieno investimento in risorse umane giovani e altamente qualificate – prerequisito dell’era post-fordista – l’Italia ha completato solamente negli anni Novanta il processo di terziarizzazione della sua economia e, attualmente, risulta ancora incompleto quello di quaternarizzazione con conseguente appiattimento e deterioramento del tessuto socio-culturale nazionale. Ciò spiega perché i timidi miglioramenti registrati all’inizio del XXI secolo in termini sia produttivi sia occupazionali (Svimez, 2007) siano stati vanificati dinanzi all’imperversare della Grande Recessione globale del 2007-2008, prolungatasi nell’area mediterranea sino al 2011.[8]
L’endemica carenza di risorse e novità progettuali ha gettato l’Italia nel circolo vizioso dell’involuzione economica, per cui la diminuzione della ricchezza in entrata esige che si effettuino ripetuti tagli della spesa pubblica con conseguente riduzione degli investimenti, che, a sua volta, strozza il comparto delle innovazioni, catalizzatore nell’epoca odierna del mercato del lavoro al cui traino dovrebbero stare i giovani. È il peccato mortale dello Stato italiano: «l’esclusione di un’intera generazione dal patto sociale» (Sanfilippo, 2017: 367), della parte giovane ed economicamente e culturalmente attiva della società, ha depotenziato il nostro Paese della sua componente più prolifera, essendo quest’ultimo incapace di escogitare una politica occupazionale che miri a valorizzarla. L’insipienza del ceto politico-amministrativo con la mancata scommessa sul tessuto giovanile e la persistenza di un sistema economico asfittico hanno generato un diffuso sentimento di sfiducia nelle istituzioni italiane, il quale proietta al di fuori dei confini nazionali dapprima i più giovani e, successivamente, come in una reazione a catena, coloro che appartengono alle altre fasce d’età (Sanfilippo, 2017: 366).
Oggi sembra che l’Italia sia riuscita a lasciarsi alle spalle i tormentati effetti della crisi: l’occupazione è tornata ai livelli pre-crisi del 2008 e significativi progressi sono stati riscontrati in alcuni comparti produttivi, sebbene lo sfondo su cui la crescita muove i suoi passi non è rassicurante. Sul versante estero, il rapporto tra l’Italia e i Paesi dell’Unione è caratterizzato da una rimarcata discrepanza in ogni settore, da quello economico a quello sociale, fino a raggiungere lo scarto più pregnante in ambito scientifico-culturale, rendendo complesso il conseguimento dei target europei. Sul versante interno, la persistenza del dualismo tra Sud e Centro-Nord è sintomo di politiche economiche non adeguatamente incisive e performative, non idonee dunque a innescare un appropriato stravolgimento della situazione corrente, perpetuando, al contrario, una condizione di difformità produttiva e reddituale. Il medesimo innalzamento dei livelli occupazionali non è altro che un’applicazione delle logiche lavorative figlie del Neoliberismo, le quali hanno introdotto, in nome della flessibilità e della lotta alla disoccupazione, tipologie contrattuali inedite – i cosiddetti contratti atipici – e di breve durata, corroborando in realtà l’instabilità e la precarietà del mercato del lavoro e aumentando il divario generazionale tra vecchi e nuovi lavoratori. E invero, una nuova «stagione di incertezze» (Svimez, 2018: 5) incombe sui mercati internazionali, suonando da monito per quegli Stati economicamente meno forti.
Un altro potente catalizzatore della nuova emigrazione italiana è la Convenzione di Schengen. Nonostante le difficoltà economiche, l’Italia non ha mai abbandonato il suo cammino di convergenza verso gli obiettivi europei e, così, nel 1997 sancisce l’entrata in vigore su tutto il territorio nazionale della Convenzione di Schengen.[9] Quest’ultima mira alla progressiva eliminazione delle frontiere interne all’Unione Europea e riconosce a tutti i cittadini europei il diritto di circolare liberamente nei territori degli Stati firmatari e/o aderenti, incoraggiando la mobilità e l’interscambio di risorse umane. I pluriennali sforzi di collaborazione, coesione, integrazione e unione condotti a livello europeo trovano la loro nobilitazione nel principio della libera circolazione delle persone, in virtù della quale viene riconosciuto a ogni cittadino europeo il diritto di poter impiantare la propria vita ovunque egli desideri e secondo le personali aspirazioni. La Convenzione di Schengen è, quindi, il motore della mobilità europea, una mobilità pluridirezionale che segue le traiettorie delle opportunità.
Schengen ha rappresentato per gli Italiani l’incentivo a lasciare la Penisola in modo definitivo, poiché in essa non hanno trovato − e continuano a non trovare − alcuno spazio di soggettivazione (Gjergji, 2015: 18). Malgrado l’elevata mobilità abbia innescato un mutamento della mentalità italiana mediante l’instillazione di elementi transnazionali, la nostra Penisola ne sta tuttavia subendo gli effetti in termini economici e, soprattutto, culturali e sociali.[10] La bi-direzionalità – uscita ed entrata − è la cifra minima che la mobilità umana deve possedere per essere vantaggiosa; diventa fertile e prolifera nel momento in cui le traiettorie dei singoli, accavallandosi, si muovono nelle pieghe della multi-direzionalità. Finché la mobilità sarà unidirezionale – allorché è più idoneo il termine movimento – se ne potranno ricavare solamente svantaggi e perdite. Qui risiede un’altra urgenza dell’Italia: lo Stato non riflette più i cambiamenti dei suoi cittadini. A fronte di un popolo predisposto alla mobilità e al confronto produttivo, lo Stato italiano rimane saldamente ancorato a una staticità oramai anacronistica e nociva, che si traduce in fughe e perdite di braccia e cervelli o, nel caso di chi rimane – ed è, questo, il rovescio della medaglia − in sentimenti di insofferenza, che trovano sfogo contro lo straniero.
Infine, nel gioco di partenze e ripartenze non è trascurabile il ruolo delle innovazioni introdotte nei settori dei trasporti e delle telecomunicazioni: rendendo possibile rinegoziare le coordinate spazio-temporali – attutendo così il peso della distanza – tali innovazioni incentivano l’esperienza migratoria. Le offerte propinate periodicamente dalle compagnie aeree con biglietti a costi vantaggiosissimi agevolano gli spostamenti a lungo raggio e incoraggiano i trasferimenti, sostenuti dall’idea che casa è soltanto a poche ore di distanza. In egual modo, i social network e le varie applicazioni di messaggistica istantanea per computer e cellulari contribuiscono a mantenere inalterati e – aspetto ancor più rilevante – costanti i contatti con le persone – familiari e amici, in primis – che sono rimaste in patria, infondendo al migrante fiducia e calore affettivo in virtù dei quali egli riesce a gestire con maggiore forza l’esperienza del distacco. I viaggi low cost e i virtual social contacts assurgono, in tal modo, a simbolo della nostra epoca e della nuova generazione di emigranti, divenendo gli anelli di congiunzione tra il desiderio di una vita migliore costruita altrove e il bisogno di sentire vicino il mondo degli affetti rimasto qua.
Come è avvenuto in passato, l’odierna emigrazione si articola su due binari paralleli: la direttrice Sud Italia-Nord Italia e la direttrice interno-estero. Il prezzo più oneroso di queste partenze è pagato dal Meridione, il quale, già penalizzato dalla sua endemica debolezza economica, vede acuire il dislivello con le altre due macro-aree economiche della Penisola a causa del deflusso del suo capitale umano (Svimez, 2001; Bartoletto, Chiarini et alii, 2017). Tuttavia, nell’ultimo decennio si è affermata una nuova tendenza, insolita rispetto alle ondate migratorie precedenti: la settentrionalizzazione dei flussi in uscita. Infatti, se da un lato le migrazioni interne registrano unicamente la partecipazione dei Meridionali per l’intero arco cronologico 1993-2017, dall’altro lato le migrazioni verso l’estero sono caratterizzate nel periodo iniziale (1993-2007) dal quasi esclusivo protagonismo del Mezzogiorno e nel secondo periodo (2008-2017) dal protagonismo del Settentrione (Grafico 2, Grafico 3, Grafico 4, Grafici 5). Enrico Pugliese spiega tale peculiarità, definendola «emigrazione di rimbalzo» (2018: 127), intendendo che buona parte dei Meridionali sceglie di vivere una doppia esperienza emigratoria: dapprima dal Sud Italia tentano di inserirsi nei circuiti socio-economici del Centro-Nord, in un secondo momento decidono di trasferirsi all’estero. Pertanto, i centri gravitazionali dei movimenti interni sono, al contempo, i trampolini di lancio verso l’estero. Ciò non significa, però, che si debbano escludere i Settentrionali dal flusso emigratorio.
Chi sono, dunque, i soggetti di questo terzo ciclo migratorio? Secondo l’opinione pubblica, sono i cervelli in fuga, quei giovani altamente qualificati che, non riuscendo a trovare una collocazione ottimale alla loro preparazione in Italia, scappano all’estero per trovare sistemazioni più gratificanti e prestigiose. In realtà, la situazione è ben diversa e la retorica del brain drain è diventata un comodo alibi che cela la complessità della reale composizione del flusso in uscita. La fascia di età maggiormente interessata è quella compresa fra i 18-39 anni, seguita con significativo distacco dalla fascia di età 40-64 anni; vi è, inoltre, la compresenza di donne e uomini con una lieve preponderanza dei secondi (Istat, 2017). Si può, quindi, facilmente dedurre che la componente giovanile della popolazione italiana è la principale protagonista dell’odierna migrazione. Non è altrettanto facile, però, immaginare cosa il destino abbia in serbo per questi giovani migranti. I laureati costituiscono solamente una piccola parte dell’intero flusso in uscita – circa l’11,9% (Istat, 2018; Svimez, 2018) – e di questi, pochissimi sono i cervelli in fuga.
Un emigrato è un «cervello fuggito» esclusivamente se riesce a investire la propria formazione altamente qualificata nel rispettivo ambito di pertinenza, divenendo quindi una risorsa prolifera per il Paese di destinazione (Pugliese, 2015). Il dato dei laureati in uscita diviene concretamente allarmante se posto in relazione alle stime di scolarizzazione terziaria dello Stato italiano. Rispetto ai livelli europei, il nostro Paese conta ancora un numero esiguo di laureati, percentuale che tende a diminuire notevolmente se si volge lo sguardo al solo Meridione (Svimez, 2016). Stando alle statistiche OCSE, l’Italia è uno dei Paesi che investe meno nell’istruzione collocandosi al quartultimo posto e costringendo i giovanissimi a lasciare prematuramente la propria terra per seguire corsi di studio all’estero al fine di conseguire una formazione più altamente qualificata. La scelta di proseguire all’estero gli studi universitari è motivata anche dal problema del mancato riconoscimento – delle volte totale, delle volte parziale − dei titoli accademici conseguiti in Italia. Ciò spiega perché spesso l’emigrazione dei laureati si qualifica, in realtà, come un’emigrazione di braccia. A completare il quadro sociale dei soggetti migranti intervengono i diplomati della scuola secondaria e quanti detengono un grado d’istruzione medio-basso, i quali rappresentano la componente più numerosa. La presenza della «componente proletaria» (Pugliese, 2018) assume un peso non indifferente poiché esprime il fallimento di uno Stato nel suo sforzo di adesione e adeguamento ai trend globali, non riuscendo quindi a fornire risposte soddisfacenti alle richieste di riassestamento dei settori occupazionali in conseguenza della svolta post-fordista.
Gran parte dei migranti si trova a convergere laddove il mercato del lavoro appare più prolifero e le possibilità di guadagno più elevate, richiamati sovente anche dalla presenza in loco di parenti o amici. Tuttavia, i settori occupazionali di facile accesso per i migranti sono quelli più umili e dequalificati, non più ricercati dagli autoctoni. Si tratta del settore della ristorazione, del settore alberghiero o dei lavori domestici, in cui a un monte orario elevato corrisponde una retribuzione medio-bassa e contratti atipici, fonte di instabilità e precarietà (Haug, 2015; McKay, 2015; Pugliese, 2017). In un simile contesto, il supporto economico delle famiglie si rivela spesso imprescindibile per poter condurre un tenore di vita dignitoso e riuscire ad ottemperare a tutti gli obblighi economici mensili. Si innesca, così, il meccanismo delle «rimesse al contrario» (Pugliese, 2015: 33), il quale diventa il simbolo di un fenomeno che, diversamente dal passato, non si dimostra più proficuo, ma viceversa produce unicamente perdite. Ciononostante, la scelta migratoria non viene mai messa in discussione poiché, sebbene i migranti vivano «una condizione strutturalmente precaria in tutti i Paesi di destinazione» (Pugliese, 2018: 13), una condizione figlia del nostro tempo, ovunque la precarietà è vissuta in modo migliore che in Italia.
Grafici 2 e 3. Saldi migratori interregionali per singola regione dei due sotto-periodi migratori. Fonte: Istat, Trasferimento di residenza. Mia rielaborazione dati.
Grafici 4 e 5. Saldi migratori con l’estero per singola regione dei due sotto-periodi migratori. Fonte: Istat, Emigrati per provincie di origine. Mia rielaborazione dati.
Direzione Europa: nuove partenze, vecchie destinazioni
Come detto poc’anzi, uno dei fattori che ha incentivato l’odierna migrazione italiana è la Convenzione di Schengen, emblema del principio della libera circolazione in Europa. In virtù di tale principio, ai cittadini europei si riconosce la possibilità di lavorare, studiare e abitare in uno degli Stati membri o comunque aderenti alla Convenzione senza la necessità di dotarsi di un permesso di soggiorno. È un passo in avanti importante in termini di garanzie e integrazione sociali poiché è il godimento della cittadinanza europea che sancisce l’accesso al diritto della libera circolazione. Al fine di incoraggiare la circolazione dei cittadini europei, il Parlamento europeo ha varato nel 2004 una direttiva[11] volta a snellire le formalità amministrative, definire al meglio lo status di familiare e limitare le possibilità di rifiuto del diritto di soggiorno. In definitiva, la regolamentazione del soggiorno dei cittadini europei nei Paesi aderenti allo Spazio Schengen sancisce che: per soggiorni inferiori ai tre mesi unico requisito richiesto è il possesso di documento d’identità o passaporto e la registrazione presso enti locali, ove previsto; per soggiorni superiori ai tre mesi, qualora i cittadini ospiti non lavorino, sono richieste risorse economiche sufficienti e la stipula di un’assicurazione sanitaria per non gravare sui servizi sociali dello Stato ospitante, nonché la registrazione presso le autorità locali; infine, l’ottenimento del diritto di soggiorno permanente si verifica dopo cinque anni di ininterrotta residenza legale presso lo Stato ospitante.
Malgrado il principio della libera circolazione sia diventato un baluardo della politica europea, esso incontra ancora significativi ostacoli alla sua piena realizzazione come dimostrano le ripetute ammonizioni da parte del Parlamento europeo agli Stati aderenti, l’ultima delle quali risale a maggio 2018. Inoltre, gli eventi internazionali degli ultimi anni – dal pericolo terroristico dell’Isis alle ingenti tornate migratorie avvertite come minaccia dalla Fortezza Europa, sino al fenomeno Brexit – hanno posto delle limitazioni alla stessa Convenzione di Schengen mediante la sua sospensione e la reintroduzione temporanea delle frontiere tra i singoli Stati,[12] complice anche la generalizzata svolta conservatrice dei governi statali. A quasi trent’anni dalla ratifica della Convenzione, la strada da percorrere per la piena realizzazione della libera circolazione delle persone appare ancora lunga e tortuosa, a tratti sottoposta a dure prove che minacciano gli stessi valori di integrazione e unità (Recchi, 2014), scopo ultimo e supremo della UE.
Pur con i suoi limiti, la libera mobilità europea ha nutrito il massiccio slancio migratorio italiano avviatosi alla fine del secolo scorso, dal momento che ha reso più agevolmente fruibili le opportunità esistenti altrove senza contemplare l’ipotesi di un ritorno forzato (Bonifazi, 2017; Pugliese, 2018). Non stupisce allora se le traiettorie odierne ricalcano quelle battute nel corso del secondo dopoguerra, annoverando Germania, Gran Bretagna e Svizzera tra i Paesi più ambiti (Istat, 2017).
PAESE |
1993-2007 |
2008-2017 |
Germania |
163.603 |
115.138 |
Regno Unito |
22.130* |
117.639 |
Svizzera |
94.229 |
80.915 |
Tabella 3. Espatri di Italiani verso i principali Paesi europei, anni 1993-2017. *Nel computo dei dati non è stato possibile reperire gli espatri degli Italiani verso il Regno Unito per l’arco temporale 1993-2001. Fonte: Istat, Serie storica. Mia rielaborazione dati.
Tabella 4. Immigrati Italiani per Paesi di destinazione secondo gli enti di statistica locali, in valori assoluti. Si noti che per quanto concerne la Germania non è stato possibili reperire i dati anteriori al 2010, invece per quanto concerne la Gran Bretagna quelli anteriori al 2002. Fonte: Bundesamt für Migration und Flüchtlinge; Office for National Statistics; Ufficio Federale di Statistica. Mia rielaborazione dati.
La lettura comparata dei dati riportati nella Tabella 3 – desunti dall’Istat − e quelli riportati nella Tabella 4 – desunti rispettivamente dagli enti nazionali di statistica tedesco, inglese e svizzero − consente di avere un’idea più esatta e pertinente dell’entità del fenomeno migratorio. Come detto in precedenza, le rilevazioni compiute in Italia forniscono un’immagine parziale dei trasferimenti effettivi, per cui è indispensabile consultare anche le rilevazioni effettuate negli Stati di destinazione. La discrepanza fra i dati registrati in Italia e quelli registrati nei singoli Stati è notevole, indice del fatto che solamente un numero limitato di Italiani emigrati all’estero comunica l’avvenuto trasferimento. In tutte e tre i Paesi la stima degli immigrati Italiani – seppur in valori assoluti − risulta maggiorata più del doppio rispetto alle cifre italiane, con l’unica eccezione della Svizzera per ciò che concerne il primo periodo migratorio (1993-2007), il quale è addirittura inferiore rispetto al dato italiano. Tali rendiconti avallano la tesi di un odierno esodo di massa di Italiani, proiettati al di fuori dei confini nazionali e senza vagliare l’ipotesi di un ritorno, disposti a inserirsi all’interno del mercato del lavoro secondario – indipendentemente dalla qualifica formativa − (Pugliese, 2017: 50), del quale i giovani migranti sono i principali destinatari. Malgrado l’instabilità e la temporaneità dei mini-job, gli Italiani continuano a lasciare numerosi la Penisola perché ovunque la precarietà è vissuta meglio che in Italia.
Pur con le dovute differenze legate alle specificità dei singoli Stati, gli Italiani per circa un ventennio hanno goduto della libertà completa di accesso nei territori tedeschi, britannici e svizzeri per poter qui risiedere, studiare e/o lavorare. In quanto cittadini comunitari, gli immigrati italiani possono godere degli stessi diritti degli autoctoni, accedendo al sistema di previdenza sociale in caso di necessità o usufruendo del pacchetto normativo di protezione sociale del flexsecurity [13] (Perri, 2016) in caso di disoccupazione o, ancora, studiando presso gli atenei locali grazie alla quota di posti riservati agli studenti stranieri. Inoltre, esistono numerose agenzie del lavoro o centri per l’impiego che assistono gli immigrati durante il primo periodo di permanenza nel nuovo Paese, aiutandoli nella ricerca di un impiego e nell’inserimento nella comunità. In alcuni casi – e questo si verifica soprattutto in Germania – presso le suddette agenzie vengono organizzati corsi di lingua ad hoc per gli immigrati affinché coloro che emigrano senza conoscere la lingua non riscontrino eccessive difficoltà comunicative. Tuttavia, l’inserimento nel mondo del lavoro non è semplice e i settori destinati ai migranti sono quelli del mercato del lavoro secondario con contratti poco sicuri e precari. A tal proposito, emblema del lavoro migrante in Gran Bretagna è diventano il cosiddetto zero hour contract, una forma legalizzata di sfruttamento lavorativo. Il lavoratore è soggetto alla totale volontà del datore di lavoro, il quale decide quando e per quanto tempo usufruire delle prestazioni dei propri dipendenti nell’arco della settimana. Il salario è proporzionato alle ore di lavoro effettivamente eseguite, per cui più ore un lavoratore riesce ad accumulare nell’arco della settimana più alta sarà la sua paga.
La generalizzata svolta conservatrice che ha investito l’Europa negli ultimi anni si sta ripercuotendo non solo verso gli immigrati extracomunitari, ma anche verso gli stessi cittadini Europei. I risvolti negativi di tale atteggiamento di chiusura si stanno abbattendo anche in quegli Stati che fino a poco tempo fa si sono fatti promotori della libera circolazione. Germania, Gran Bretagna e Svizzera ne sono una chiara esemplificazione. Da una parte vi sono Germania e Svizzera che hanno varato rispettivamente nel 2017 e nel 2016 provvedimenti restrittivi in materia di immigrazione: la prima sta tentando di ridimensionare la libertà di circolazione, la seconda ha introdotto il sistema di contingentamento degli ingressi. Dall’altra parte vi è la Gran Bretagna, che con il referendum sulla Brexit del 2016 sembra voglia recidere ogni precedente legame instaurato con l’Unione; in che modo questo influirà sulla sorte dei cittadini europei ivi immigrati ancora non è chiaro.
Il manto di ipocrisia che ha avvolto le politiche integrazioniste, ridondanti di nobili ideali e valori umani, si è squarciato dinanzi al consolidarsi delle altissime frequenze raggiunte dalla mobilità umana a cavallo fra XX e XXI secolo. Il sentimento di unità e reciprocità maturato negli anni Novanta e rifrancatosi nel corso del primo decennio del Duemila, è stato mutilato in più parti nel corso degli ultimi anni. I provvedimenti messi in atto dalla Svizzera e dalla Germania o il fenomeno Brexit sono solamente poche ma esemplificative occasioni di un’inversione di tendenza generalizzata molto più grave. Pugliese cita un altro esempio: il Belgio ha disposto delle limitazioni agli ingressi dei cittadini UE qualora essi rappresentino un carico eccessivo per le finanze statali (Pugliese, 2018: 142). La drammaticità degli eventi mondiali che ha visto protagonisti migliaia di persone provenienti dai cosiddetti «Paesi Terzi», quelle stesse persone che per spostarsi in Europa hanno bisogno di permessi specifici e di essere catalogati nel Sistema Informativo Schengen (SIS) affinché i loro movimenti siano prontamente monitorati, ha fatto crollare l’impalcatura faticosamente costruita a Maastricht. Infatti, il terrore dell’altro – ingiustificato, ma continuamente alimentato – ha palesato in modo schiacciante l’asimmetria relazionale esistente non solo tra «noi» e «loro», ma anche tra «noi» e «noi». Se scopo ultimo della cittadinanza europea è riconoscerci parte di un’unione più vasta e se finalità di Schengen è garantire la nostra reciprocità in qualità di persone per mezzo della circolazione libera tra i nostri territori, allora tale utopia è nata già corrotta e deficitaria: finché continueremo a guardare gli individui come meri strumenti politici ed economici anziché come persone umane a noi eguali e finché perseguiremo l’ideale dell’esclusivo personale tornaconto battagliando contro futili e inesistenti nemici, ogni politica votata alla coesione sarà un bagliore effimero e, perciò stesso, destinato a fallire.
L’emigrazione da un Paese annoverato tra i più avanzati al mondo – quale è l’Italia − è sintomo di una grave disfunzione interna, confermata inoltre dall’incapacità del medesimo Stato di attrarre persone altamente formate da collocare in settori-chiave e trainanti dell’economia e della cultura. Una realtà statale che espelle i suoi abitanti e non detiene i mezzi per attirare altre persone è un Paese immobile. L’immobilità politico-economica e socio-culturale ha paralizzato l’Italia, facendo riemergere in modo prepotente la sua natura di terra di esodi irreversibili.
La sussistenza di un impietoso deflusso di Italiani, appartenenti per la maggior parte alle fasce giovanili della popolazione, è una verità non più trascurabile malgrado l’ingeneroso silenzio e il disinteresse delle istituzioni politiche. I più attenti esperti del fenomeno come Pugliese, Sanfilippo, Bonifazi e Gjergji hanno dichiarato che siamo in presenza di una nuova ondata emigratoria italiana, caratterizzata da un consistente – e crescente – numero di partenze. Un terzo ciclo emigratorio, dunque, che prende avvio − secondo la mia interpretazione – nel decennio conclusivo del secolo XX ed è a tutt’oggi in atto. Si deve, infatti, risalire agli anni Novanta per rintracciare i fattori che hanno innescato la nuova emigrazione italiana: il consolidamento del processo di integrazione europea culminante nella Convenzione di Schengen, cuore della libera circolazione dei cittadini UE; la svolta economica di stampo neoliberista attuata dalla Penisola italiana, dettata dalle esigenze di uniformità europea e mondiale; infine, il susseguirsi di crisi economiche nazionali – la prima del 1993 – che hanno minato e destabilizzato a livello strutturale l’economia italiana, svelandone il volto endemicamente debole e precario. Una simile evoluzione ha incoraggiato quanti non hanno trovato una collocazione soddisfacente nella propria regione a lasciare l’Italia per immettersi nel mercato del lavoro estero, percepito come più gratificante e rassicurante. E se inizialmente il trasferimento in un Paese europeo è stato visto come un’opportunità, con il passare del tempo e a causa del continuo deterioramento del quadro italiano in ogni sua declinazione è diventato una necessità (Pugliese, 2018: 139). D’altro canto, la situazione italiana non sembra proiettata verso un miglioramento né interventi incisivi vengono varati dal Governo per mutare radicalmente il panorama economico nazionale. Secondo le analisi economiche pubblicate nel Bollettino Economico n.1 del 2019 (Banca d’Italia, 2019), l’economia del nostro Paese ha registrato un rallentamento della crescita a partire dal terzo trimestre del 2018, sfociato in una vera e propria contrazione nei mesi conclusivi del medesimo anno. Le previsioni per l’anno in corso non fanno sperare in una ripresa dell’attività produttiva, paventando il rischio di una nuova fase recessiva che potrebbe ulteriormente acuire le attuali dinamiche migratorie.
Infine, i recenti sviluppi politici internazionali stanno gettando una nuova luce sulla mobilità intraeuropea, fino a poco tempo fa considerata esclusivamente in termini positivi. Il fenomeno Brexit è la manifestazione più eclatante di una temibile involuzione del principio di libera circolazione dei cittadini UE nonché dello stesso processo di integrazione europea. Altri preoccupanti segnali sono ravvisabili in taluni provvedimenti adottati in Germania, Svizzera, Belgio e, più in generale, nella frenesia antieuropeista diffusa in diversi Stati membri. Ciononostante, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è la questione cocente e prioritaria all’interno del dibattito politico internazionale. L’accordo siglato nel novembre 2018 tra Theresa May e Bruxelles, volto a stabilire i termini e le condizioni della Brexit, è stato bocciato dal Parlamento inglese nella seduta di voto del 15 gennaio 2019, procrastinando ulteriormente la decisione finale circa le modalità di uscita della Gran Bretagna dall’Unione, la quale dal 29 marzo 2019 è stata rimandata al prossimo maggio. Le conseguenze per gli Italiani non saranno irrilevanti, dato che il Regno Unito è, insieme alla Germania, la principale meta dei nostri connazionali emigrati.
In generale, un sentimento di chiusura con accenti xenofobi si sta diffondendo in Europa – ma, a ben guardare, sta assumendo una connotazione globale – accompagnato da una rimarcata riproposizione delle gerarchie di potere e della polarizzazione delle ricchezze, con risvolti preoccupanti in termini di diritti umani e civili. Ciò non implica che la mobilità umana subirà un arresto, scenario altamente improbabile nell’era odierna. Tuttavia, il timore di un suo significativo ridimensionamento in direzione di un movimento monitorato e limitato a pochi – coloro, cioè, che detengono i mezzi economici e formativi e che perciò sono identificati come «risorse» − potrebbe diventare un’ipotesi concreta e ampiamente generalizzata, giacché in modo parziale – nostro malgrado – una simile tendenza sia già in atto.
Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019
Note
[1] La complessità semantica del concetto di mobilità è stata messa in luce dall’orientamento scientifico noto come mobility turn o new mobilities paradigm, affermatosi nel Regno Unito a partire dal 2006 a opera del sociologo inglese John Urry. L’obiettivo dei fondatori del mobilty turn è stato quello di coinvolgere studiosi appartenenti ai vari settori disciplinari delle scienze umane nel nuovo progetto teorico al fine di analizzare la mobilità sotto profili e prospettive diverse, facendo emergere le valenze sociali, politiche, economiche e culturali che in essa risiedono.
[2] La medesima retorica politica fa leva, spesso, sul concetto di invasione per enfatizzare il pericolo rappresentato dallo straniero. In realtà, gli immigrati cercano solo riscatto e tutela per la propria vita, fuggendo dalle loro terre martoriate da guerre e regimi politici oppressivi.
[3] La «migrazione circolare» è un movimento fluido di persone che coinvolge diversi Paesi e da cui traggono giovamento tutti i soggetti coinvolti in termini di arricchimento socio-culturale ed economico. Tale principio è sostenuto dall’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.
[4] Mi riferisco agli effetti provocati dallo shock petrolifero del 1973. Tra le conseguenze, si registra un netto cambiamento di tendenza in materia di immigrazione, legato alla rimodulazione del mercato del lavoro.
[5] L’ultimo aggiornamento dei dati statistici risale attualmente al 31 dicembre 2017, per tale motivo è stato considerato il 2017 come limite cronologico della presente riflessione.
[6] Il computo delle cancellazioni e delle iscrizioni anagrafiche da e per l’Italia è pertinenza dell’Istat, invece il computo delle cancellazioni e delle iscrizioni anagrafiche da e per l’estero è pertinenza dell’Aire. Spesso, i dati censiti dai rispettivi enti sono tra loro divergenti.
[7] Mi riferisco rispettivamente all’ondata emigratoria a cavallo tra Otto e Novecento e a quella del secondo dopoguerra.
[8] Mi riferisco alla cosiddetta crisi del debito sovrano, che ha colpito maggiormente Grecia, Spagna e Italia.
[9] La Convenzione di Schengen è stata ratificata dai Paesi della CEE nel 1990, sebbene sia entrata in vigore nella UE solamente cinque anni più tardi, nel 1995. Essa sancisce la libera circolazione dei cittadini europei nei territori degli Stati aderenti.
[10] Negli ultimi tre anni, a livello mediatico, è stato posto l’accento in modo particolare sui costi economici dell’odierna emigrazione giovanile italiana, argomentando l’esodo dei nostri connazionali in termini di perdite e guadagni. Certamente, non è irrilevante la perdita di denaro che ne consegue. Ciononostante, ritengo sia molto più dolorosa e profonda la ferita inferta al tessuto socio-culturale, poiché un problema economico, per quanto complesso possa essere, è risolvibile, al contrario la sfiducia di un intero popolo è molto più difficile da colmare.
[11] Si fa riferimento alla direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio europeo. In tale direttiva viene chiarito lo status di familiare del cittadino che si trasferisce in un altro Stato europeo; esso include: il coniuge (anche dello stesso sesso), i discendenti di età inferiore ai 21 anni e gli ascendenti a carico.
[12] Tra il 2015 e il 2016 diversi Stati UE hanno ordinato la sospensione temporanea della Convenzione di Schengen per la «crisi migratoria», che ha indotto migliaia di persone in fuga dalle terre martoriate dell’Asia e dell’Africa a richiedere asilo in Europa. Gli Stati europei, appoggiandosi alla retorica dell’invasione, hanno promosso una politica anti-immigratoria – tutt’ora in atto – per bloccare i flussi in entrata, in particolar modo provenienti dai cosiddetti Paesi terzi.
[13] La flexsecurity è una strategia politica che si propone di favorire, al contempo, la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza sociale delle categorie più deboli.
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Valentina Tringali, laureata nella triennale in Studi Filosofici e Storici presso l’Università di Palermo e neo-laureata magistrale in Studi Storici, Antropologici e Geografici presso il medesimo ateneo, è interessata al tema dell’emigrazione italiana, avendo dedicato la tesi triennale allo studio dell’emigrazione siciliana di fine Ottocento, attingendo direttamente al database di Ellis Island e, successivamente, effettuando ricerche sugli attuali flussi in uscita dall’Italia.
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