Il rilancio dell’Istat di quella che in qualche modo è una non notizia e certamente non inaspettata, ossia che l’Italia al primo di gennaio del 2024 è scesa sotto i fatidici 60 milioni di abitanti avendone perso qualche migliaio, esattamente 58.990.000 (per la cronaca 7000 in meno rispetto al 2023 con 6 neonati e 11 decessi ogni mille abitanti oltre che col massimo storico di ultracentenari), è stata accolta con contenuto disappunto e seguita da qualche giorno di analisi preoccupate da parte di stampa, forze politiche e opinione pubblica. Ma poi tutto è passato nel dimenticatoio senza neanche costituire oggetto di dibattito nella campagna elettorale europea, visto il collegamento del problema, come vedremo tra poco, col resto del Continente. Davvero il fenomeno è così serio oppure no, come dimostrerebbe il disinteresse generalizzato o l’interesse di circostanza della classe dirigente riscontrato su questo tema?
E neanche la coincidenza con altre sciagure nazionali ha giovato a tenere desto l’interesse sui confini di questo tema. Eppure ha fatto da sfondo alla notizia che ancora una volta andava sottacque gran parte del Nord Italia con il Po e la rete di fiumi piccoli e grandi della Padania che si rigonfiavano minacciosamente mentre qualche giorno dopo molti abitanti dei Campi Flegrei e del Napoletano preferivano dormire in auto o nelle tende allestite dalla protezione civile dopo che un bradisismo aveva scosso la zona minacciando prima di tutto, quasi per la legge del contrappasso, le non poche costruzioni abusive. Noi siamo abituati a vedere la popolazione in termini di massa come consumatori, clienti, tifosi, follower, elettori, audience e forse per questo motivo abbiamo bisogno di essere attorniati da tanta gente intorno a ciò che facciamo e vogliamo essere valutati. Ma, nel caso specifico, siamo sicuri di riuscire a dare una sistemazione decente a una popolazione così vasta in un territorio sempre più compromesso come quello nazionale? Non è tanto un problema di capienza perché se è vero che, come osservò qualche tempo fa un demografo francese, una popolazione mondiale di dieci miliardi di persone potrebbe essere comodamente ospitata nel territorio degli Stati Uniti presentando la stessa densità abitativa della Règione Parisienne, qualcosa del genere si può sopportare anche da noi.
Si, va bene, ma in Italia rimane il problema alla fine dove mettere questa gente quando ci ritroviamo un suolo dichiarato totalmente sismico tranne la mia Sardegna, dove io appunto proporrei di ospitare le popolazioni montanare dell’Appennino (in fondo la Sardegna è solo un immenso territorio montuoso circondato dal mare e interrotto da qualche pianura)? Abbiamo infatti una dorsale appenninica in costante rischio per via dei periodici sussulti della crosta terrestre che si mangiano abitazioni e edifici storici e artistici con costi che la collettività fa fatica a sostenere a cui tiene il bordone il costante mugugno delle popolazioni investite e mai messe in sicurezza e perciò costrette a vivere in condizioni precarie per tutta la vita, anche se poco più sotto un’altra parte di società civile pare che non abbia altra scelta che dare la scalata urbana del Vesuvio per avere un tetto sopra la testa.
Se il Centro Sud italiano piange il Nord certo non ride. Gran parte del territorio settentrionale, frutto anche di un’antropizzazione eccessiva, ha visto letti di fiumi e torrenti coperti o deviati e corsi d’acqua impermeabilizzati da non contenerne più il deflusso, coinvolgendo tragicamente chi si è sistemato in prima fila negli argini. Se si va a guardare le montagne con i loro piccoli e incantevoli borghi le cose non vanno meglio: valanghe, frane e smottamenti ne minacciano frequentemente l’esistenza. Se vogliamo non sta meglio il territorio della Pianura padana, l’area economicamente più avanzata del Paese, dove nel Dopoguerra si riversarono masse di meridionali alla ricerca di lavoro e di fortuna, che si rivela sempre meno salubre per effetto di un tasso di inquinamento che, soprattutto in certi periodi dell’anno come l’autunno e l’infinito avvelenamento del terreno, la rende infida per chi ci vive.
Che dire poi delle nostre ridenti perle marine che, con l’innalzamento delle acque conseguenti al surriscaldamento terrestre, un domani potrebbero essere destinate a scomparire sotto i flutti come numerose isolette del Pacifico o dei Caraibi? Perciò a dover scegliere tra Scilla e Cariddi, soprattutto a Sud, è diventata solo una questione di sopravvivenza. Quando non c’è il terremoto ci pensa il cambiamento climatico a mettere in ginocchio l’agricoltura, esaurendo le risorse idriche e desertificando i terreni (fenomeno quest’ultimo che oggi tocca il 20% del territorio nazionale) per cui non deve sorprendere se gran parte di questa popolazione reagisce rifugiandosi al Nord o all’estero. Tutto ciò per dire che rimane sempre in piedi l’interrogativo in Italia: dove sistemarsi senza vivere con l’ansia di essere costretti a tenere costantemente pronta una valigia con gli effetti personali indispensabili e l’auto parcheggiata sotto casa per rifugiarsi quando brontola la terra o un pied à terre sulla costa o in città (o di più fortunati parenti) se cade giù il cielo? Già nelle città, in cui il fenomeno dell’urbanesimo le ha fatte crescere a dismisura a scapito delle campagne, ma che ora anche queste mostrano centri storici vuoti perché vi abitano sempre meno residenti contro tanti visitatori precari o palazzi delle istituzioni e della cultura, come a Roma, con gli abitanti spinti sempre più in periferie degradate e mal servite.
In buona sostanza, ha senso invocare un aumento di popolazione in un territorio forse definitivamente compromesso? E, se anche si potesse fare qualcosa – per esempio costruire abitazioni antisismiche come in Giappone, in cui le scosse telluriche che mettono in ginocchio l’Italia lì fanno appena il solletico – dove trovare i soldi per ricostruire, riparare, rinforzare, mettere in sicurezza territorio e abitazioni, oltre che rendere tutto più green come vuole l’Europa? Nelle casse ormai vuote dello Stato italiano che le ha rese tali anche per i prossimi decenni? Ci sarebbe la tanto conclamata ripresa della crescita economica per la quale Mario Draghi avrebbe accettato un debito “buono”: ma se anche fosse, si può fare tutto ciò senza mettere in campo forze giovanili? E così arriviamo al punto.
Certo, visto che la forbice tra nascite e morti si allarga sempre di più a discapito dei primi, si potrebbe rassicurare chi non intende fare nulla ma è disposto a pazientare, che a bocce ferme una sensibile diminuzione di popolazione prima o poi sicuramente ci sarà. Tuttavia, il vero problema non è costituito tanto dallo spopolamento e dall’invecchiamento (quest’ultimo oltretutto segno di una buona salute nazionale che indirettamente dovrebbe attenuare il grido di dolore delle cassandre della sanità: ci si cura per vivere più a lungo e, possibilmente, anche meglio, sennò per cosa?), quanto da quello del suo ringiovanimento che se non avviene in tempi abbastanza rapidi comporta solo inconvenienti. Come stiamo da questo punto di vista in Italia?
Negli ultimi due decenni, oltre alle cifre sopra citate, si sarebbe riscontrata nel nostro Paese una contrazione di circa tre milioni e mezzo di giovani under 35, con un tasso del – 21% (23% donne, 20% uomini). Una fuga di giovani che dagli anni 2011 al 2021 ha visto ben 18.000 “cervelli” espatriare dall’Italia con un incremento del 281% nel corso di questo arco temporale e con una poco equa suddivisione tra Nord (237%), Centro (283%) e Sud (402%). Una cosa che hanno capito un po’ tutti in casa nostra, anche se a molti non sembra facile accettare, è che i due momenti – ringiovanimento e invecchiamento – possono e devono convivere e, in qualche modo, divenire complementari. Su questo punto forse è più facile raggiungere un accordo piuttosto che su altre soluzioni. E sarebbe già un progresso.
Ma andiamo avanti con la nostra analisi, constatando che, in fondo, l’unica cosa di cui sembriamo rallegrarci è il mezzo gaudio che deriverà dal male comune di trovarci in compagnia di tanti Paesi, non solo europei. Infatti, il problema sembra riguardare tutto il mondo e lo sarà in modo definitivo quando l’India rientrerà dalla straordinaria fertilità che ormai l’ha portata a superare numericamente la Cina mentre l’Africa, forse già alla fine di questo secolo, si stancherà di fornire al pianeta uno su due neonati, cosa che dovrebbe accadere solo per stanchezza considerando che il numero di bimbi che, nel 2021, nel Continente Nero era del 29%, pare sia destinato a crescere entro il secolo fino al 54% con un tasso di fertilità (tfr) di 4 figli per donna. Ciò non impedirà a tutti i Paesi del mondo di ritrovarsi in quella figura statistica che mostra la crescita di popolazione non più a piramide, con tanti bambini e adolescenti alla base e scorrendo verso l’alto sempre meno attempati e vecchi, bensì ad anfora con le tempie grigie destinate a divenire la maggioranza al centro della figura.
Tanto per valutare qualche trend, se nel 2000 i Paesi cosiddetti ricchi avevano 26 ultra sessantacinquenni per ogni 100 persone in età compresa tra i 25 e i 64 anni, nel 2050 questo numero sembra destinato a raddoppiare. In Italia la fascia di età prevalente è quella dei 59 anni, cosa che avviene in un quadro europeo in cui gli ultrasessantenni si accingono a divenire la parte maggioritaria della popolazione residente rappresentandone il 23,3 per cento con un vertice che vediamo allargarsi grazie anche agli ottuagenari che, bontà loro, sembra che abbiano sempre meno voglia di contribuire a riportare la figura statistica alla forma piramidale. In questa poco invidiabile classifica naturalmente è sempre l’Italia leader europea per numero negativo di nascite, dacché i 400 mila bambini attuali sono ben 170 mila in meno rispetto alla rilevazione precedente. Non solo ma al primo gennaio 2023, in cui il Vecchio Continente per 448,8 milioni di abitanti presentava un’età media di 44,5 anni (ma anche circa 4 milioni in meno di bambini), in testa a tutti stava ancora il nostro Paese con un’età media di 48,49 anni.
Non mancano altre importanti distinzioni a caratterizzare il distacco dal gruppo di testa in questa nostra impazzita corsa solitaria: mentre in Europa, per esempio, lavorano tre persone su una che sta in pensione, in Italia su 39 milioni di abitanti in età lavorativa solo 22 milioni si rimboccano effettivamente le maniche, quindi meno di uno su due, e quest’ultima cifra sembra destinata solo a calare. La conseguente lettura è che le persone sotto i 25 anni oggi in Italia sono la metà di quelle di 65 e nel 2050, secondo i calcoli dei demografi, se continuerà questa tendenza saranno meno di un terzo. Per conseguenza dalle nostre parti il tasso di fertilità nazionale dovrebbe essere destinato a passare dall’1.2 del 2021 all’1.1 nel 2050 per abbassarsi all’1.09 nel 2100. Ma prima di stracciarci definitivamente le vesti vediamo come si affronta il problema in giro.
Con queste preoccupazioni e proiezioni il problema demografico è passato ai primi posti nell’agenda politica di molti Paesi sia pure con risposte che appaiono tutt’altro che univoche e così pure le diagnosi non sempre si mostrano convincenti. Il primo problema intanto è che si dimentica che la decisione di avere figli è strettamente personale e appare paradossale che ancora molti governi siano convinti che sia in loro potere regolare la fertilità, e quando cercano di farlo causano più problemi di quelli che intendono risolvere: davanti agli occhi abbiamo il caso di scuola della Cina che, nel 1979, per contenere l’aumento della popolazione decise di varare la politica dell’unico figlio e che, dal 2013 quando ha stabilito di porne fine, per effetto dello sgradito invecchiamento nazionale, si trova in grandi difficoltà. Certo fa effetto sui policy maker sapere che non si sarà più in grado di pagare le pensioni come in passato se non si ristabilisce un rapporto corretto tra chi lavora e chi si ritira, come pure crea preoccupazione nei rispettivi governanti che Paesi come la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, l’Italia e tanti altri condannati definitivamente all’invecchiamento non saranno in grado di mantenere i ritmi di sviluppo sperati per mancanza di forze giovanili, le cosiddette intelligenze “fluide”.
Pochi in realtà credono che la soluzione di questi problemi passi attraverso misure di sviluppo della natalità. A scegliere da fiore a fior in testa vi è il Giappone che punta molto sull’innovazione tecnologica e la robotica per sopperire alla carenza di giovani. Tra i più convinti della validità delle “soluzioni” interne spiccano quelli che si considerano più “forti”, come alcune “democrature” segnatamente Ungheria e Russia, con politiche che sembrano destare interesse anche in Italia, ma che, osserva l’Economist, non paiono godere della necessaria credibilità in quanto poco improntate a razionalità. D’altro canto, la constatazione che il tasso di fertilità internazionale negli ultimi 70 anni si è praticamente dimezzato passando dai circa 5 figli per donna del 1950 al 2.2 del 2021 con la metà dei Paesi (110 su 224) ormai sotto il livello di rimpiazzo della popolazione, significa che misure pubbliche alla lunga non hanno funzionato. Perciò, messe insieme tutte queste ragioni, l’autorevole rivista scientifica medica inglese Lancet, prevede che il tfr occidentale scenderà all’1.44 nel 2050 e, peggio, all’ 1.37 nel 2100.
Unica eccezione a questa tendenza dovrebbero essere i casi di Israele, Islanda, Danimarca, Francia e Germania che oscilleranno tra una fertilità dello 2.09 e l’1.4 alla fine di questo secolo, comunque tendenzialmente in decrescita. Dando uno sguardo alle politiche dei governi per incentivare la fertilità nei Paesi più avanzati, spiega ancora l’Economist, oggi la sola eccezione sembra essere costituita da Israele che ha toccato il 2.1, unico quindi in grado di rimpiazzare con le nascite le morti. In forte controtendenza si pongono alcuni interessanti casi di studio, per prima la Corea del Sud destinata nei prossini decenni a divenire il Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone. Qui il tasso di fertilità è passato addirittura dal 4.5 del 1970 al 1.7 attuale con la prospettiva che, se alla fine del secolo rimarrà invariata questa tendenza, crollerà allo 0.7 con la popolazione che, nel 2100, scenderà complessivamente del 60%. Il tutto sembra avvenire peraltro in un quadro economico non insensibile al problema giacché il governo coreano ogni anno dedica l’1% del Pil, circa 270 miliardi di dollari, in incentivi per mantenere le famiglie più prolifiche, con agevolazioni fiscali, assistenza alla maternità e cura della famiglia. Quando si troverà sull’orlo del precipizio il Paese asiatico sarà costretto ad assistere impotente, commenta il settimanale britannico, a un fatto prima per esso inimmaginabile e cioè che sarà sempre più difficile indurre le donne coreane, un tempo così prolifiche, a fare figli.
Tornando a rivolgere lo sguardo alla nostra Europa va sottolineato che l’impegno a sostenere la natalità, a mantenere i bambini e incentivare le famiglie, è stato negli ultimi decenni il tratto distintivo soprattutto delle politiche nordiche con il caso classico della Svezia e della Danimarca che ancora mostrano un tfr dell’1.7 e dell’1.8, seguiti appena dopo dalla Norvegia che, oltretutto, esenta le donne incinte da un anno di lavoro ponendolo a carico dello Stato. Paesi quindi apparentemente vicini a sostituire la popolazione che scompare, ma non in grado di farlo totalmente.
Il caso di scuola che ci tocca più da vicino è quello della Francia, che già dall’inizio del Millennio ha varato decise politiche di sostegno alla natalità e per questo motivo è stata inclusa da Lancet tra i Paesi che in qualche modo si potrebbero salvare: ma al più autorevole settimanale economico del mondo ciò non risulta giacché proprio nel 2022, in questo Paese si è registrato il maggiore calo delle nascite dalla Seconda Guerra mondiale. Certo sappiamo che il Paese d’Oltralpe ha una notevole popolazione straniera, in gran parte inserita e divenuta francese e che al pari delle autoctone italiane, anche in quel segmento etnico, le donne incominciano a fare meno figli rientrando quindi nello tfr occidentale e dei Paesi ricchi e sicuramente lo Stato francese non discrimina gli interventi a sostegno tra francesi doc e altri acquisiti. Il governo dell’Esagono, incoraggiato all’inizio dai piccoli incrementi di popolazione che rendevano ottimisti i governanti perché si riteneva che nel tempo avrebbe funzionato, si è impegnato in tutti i modi a rendere più facile alle mamme conciliare famiglia e lavoro. Così da alcuni anni destina annualmente il 3,5-4% del Pil alle politiche familiari, costituite da una serie di misure fiscali, assistenza e cura dell’infanzia che rappresentano la spesa più elevata nell’OECED per realizzare quella politica che Macron ha deciso di lanciare per «riarmare demograficamente la nazione». Ma il fallimento ormai è davanti agli occhi di tutti.
Tornando alle ragioni più profonde dell’inadeguatezza delle politiche statali di incentivo alla natalità, va notato che è vero che negli anni Ottanta i ricercatori si rivelarono ottimisti circa il sostegno all’infanzia e alle famiglie, incoraggiati anche dal successo che sembravano ottenere i Paesi nordici. Ma non potevano certo prevedere, spiega l’Economist, che le donne svedesi, danesi e norvegesi che avevano iniziato a fare figli, a un certo punto incominciassero a farne meno addirittura delle concittadine del decennio precedente. Una spiegazione di questo fenomeno sarebbe che le donne che rimanevano incinte grazie a generose concessioni statali, abituatesi a questi bonus finivano comunque per ritenere insufficienti i successivi aiuti per fare altri figli. In buona sostanza sembrerebbe che certi schemi di ridisegnare la società alla fine non abbiano funzionato, in primo luogo perché nei Paesi OECED le politiche di dilazione della maternità hanno spinto le donne a posticipare sempre più in avanti la nascita del primo figlio e, in secondo luogo, a farne pochi per il resto della loro esistenza anche perché assentarsi troppo a lungo dall’attività lavorativa era visto come uno stigma sociale. Poi, lo stesso fatto di avere coinvolto i padri non avrebbe aiutato ad avere più figli, dal momento che gli uomini si sarebbero rivelati meno adatti alla maternità di quanto si pensasse.
Tornando alle politiche dei governi, ciò che sicuramente ha funzionato veramente è stato di mettere soldi nelle tasche dei genitori e consentirli di decidere come usarli senza interferire troppo nelle loro priorità. Tuttavia, le conseguenti politiche non solo non hanno avuto un impatto significativo nella fertilità ma si sono rivelate costosissime per le casse dello Stato. E così ogni figlio che risulta rientrare nel programma “Famili 500+”, varato generosamente dalla Polonia dal 2016 al 2019 per sostenere la maternità, la famiglia e combattere la povertà (e, non detto esplicitamente, contenere le immigrazioni), è costato per ciascun anno un miliardo di dollari ed egualmente, in Francia, l’iniziativa già illustrata ha pesato quasi del doppio nelle casse dello Stato. Quindi, anche se questi due ultimi Paesi sostengono un costo 1-2 milioni di dollari per ogni bambino che vada oltre la crescita zero (“il figlio del commercialista”, così indicano i nostri cugini il terzo figlio messo in cantiere per accedere a sostegni e agevolazioni fiscali), solo un ridotto numero di cittadini genera benefici economici in grado di coprire questa spesa, spiega l’Economist. È vero che molte politiche sulla fertilità presentano effetti collaterali che a prima vista fanno bene sperare, come l’aiuto ai genitori indigenti in modo da non trasmettere la povertà ai figli, o alle madri che verosimilmente potranno permettersi di lavorare pur allevandoli, ma nessuno degli interessati penserà solo per questo di volere altri eredi.
Se si analizza più da vicino, poi, la convinzione abbastanza diffusa che la caduta del tasso di fertilità sia dovuta all’impegno lavorativo della donna, con la conseguenza che questa non vorrà avere figli oltre quelli che appaghino il suo senso di maternità perché ciò comporterebbe un ulteriore impegno per allevarli e che a questo inconveniente si può ovviare solo con politiche pubbliche che offrano esenzioni fiscali e assistenza gratuita per seguirli, in modo che le donne non siano costrette a scegliere tra la carriera e la famiglia, in realtà si è visto che anche in questo caso ci troviamo solo di fronte a un Wishful thinking. Per esempio, analizzando il caso USA si è osservato che le donne con una formazione universitaria tendono ad avere i figli piuttosto in là negli anni e per giunta pochi. Infatti, l’età media in cui le donne americane erano solite fare il primo figlio è salita dai 28 anni del 2000 ai 30 attuali e nemmeno queste ultime hanno presentato un aumento di figli rispetto alle coetanee della generazione precedente. Quindi nulla alla fine è successo che cambiasse il tasso di fertilità nel primo Paese del mondo. Con l’aggravante, se si vuole, che in Occidente il vero crollo della fertilità sembra sia avvenuto proprio tra la fascia delle donne più giovani e più indigenti, ossia quelle che ne costituivano il vero serbatoio.
Ancora in America, per esempio, la scarsa fertilità si avvertiva già dal 1990 nelle donne sotto i 19 anni, praticamente la fascia di età in cui si cerca di fare più figli, trattandosi di quelle che per la gran parte andava ancora a scuola ma non proseguiva all’università. In tutti i casi, si vide che anche queste ragazze avrebbero deciso di fare figli solo più avanti negli anni, tanto che nel 1994 la media dell’età di procreazione di chi non proseguiva all’università si era già spostata dai 19 ai 20 anni, che oggi costituisce comunque la fascia di età in cui non si è ancora provveduto a fare il primo figlio. Tutto ciò indusse a suo tempo molti policy maker a ritenere che con adeguate politiche di sostegno si potesse incrementare la fertilità proprio in quella fase più fresca dell’esistenza, fino a quando non ci si rese conto che si trattava di frange di società in cui la gravidanza era legata soprattutto allo stato di indigenza e alla scarsa igiene, votando all’insuccesso le politiche di sostegno che invece in qualche modo erano riuscite nel Dopoguerra.
A ben vedere oggi puntare su donne le cui condizioni di vita siano legate all’indigenza e a stati di salute precari appare meno adatta alla tipologia di donna moderna, proprio perché finirebbero per rappresentare tutto il contrario di cui ha bisogno la società moderna in termini di energie giovanili. D’altro canto, proprio in Usa si è stabilito che, a causa della mobilità sociale, solo l’8% dei figli nati da genitori senza un diploma universitario riesce a conseguire un analogo titolo di studio. Anche per queste ragioni, secondo l’Economist, il declino demografico nella prossima decade sarà ancora più marcato di quanto si aspettino gli stessi demografi e in tutti casi, sempre secondo il settimanale britannico, se non si allunga la vita lavorativa anche adottando nuove tecnologie per tenere più a lungo le persone al lavoro, le politiche rivolte a sviluppare la fertilità risulteranno ancora più costose finendo per costituire in ultima analisi solo una battaglia sociale di retroguardia. Ricorda il settimanale britannico che negli anni Sessanta, quando si presentarono i fenomeni dell’entrata in massa delle donne nel mondo del lavoro e il declino della natalità, il Premio Nobel dell’economia 1992 Gary Becker, ebbe a suggerire che era ora di considerare il figlio alla stregua di un bene economico che i genitori si possono permettere solo in termini di tempo e di denaro, per cui alleggerire il peso del lavoro e aumentare la disponibilità economica della famiglia potrebbe in qualche modo giovare a incrementare la natalità.
Volgendosi a guardare da un’altra parte vediamo che le risposte che danno gli Stati preoccupati dello spopolamento e dell’invecchiamento sono sempre più articolate e non mancano di trovare un rinforzo proprio negli “stranieri”. Per combinazione si tratta di quelle prese in minore considerazione proprio in Italia. Diamo intanto uno sguardo alle potenzialità del fenomeno a livello internazionale. Secondo i dati IOM del 2020, 3,6% della popolazione mondiale emigrava (pari a 231 milioni) e il 96,4% continuava a risiedere nei Paesi in cui era nata. E neanche tutto il mondo sembra votato a reggere questo impatto poiché due terzi dei migranti internazionali vivono in venti Paesi e altri sono sparsi nelle principali economie, compresa la nostra. Per avere un’idea riguardo alla provenienza in testa vi è l’India con 18 milioni di emigranti seguita dal Messico e dalla Federazione russa con 11 milioni ciascuno, la Cina con 10 milioni e la Siria con 8 milioni.
Altro poi è il desiderio di emigrare e altro farlo realmente, giacché il grande sondaggio Gallup del 2021, sulla base dell’intervista a 127 mila individui di 122 Paesi, inclusi quelli ad alto reddito, rappresentanti l’80% della popolazione umana e a cui si chiedeva se intendevano trasferirsi all’estero, ben il 16% rispondeva positivamente. Questa percentuale corrisponderebbe a 900 milioni di individui, e tra queste al 37% si tratterebbe della popolazione residente prevalentemente nell’Africa Subsahariana e in America Latina, il 27% in Medio Oriente e in Nord Africa: tuttavia solo il 7% riesce a realizzare i propri progetti. In tutti i casi le analisi di economisti che sono seguite stabilivano che se ciò accadesse il Pil mondiale potrebbe addirittura raddoppiare. A questi dati si è aggiunto l’ultimo più recente dell’UNHCR, l’agenzia per i rifugiati dell’ONU, che ha calcolato in 120 milioni gli abitanti del pianeta in fuga dai loro territori per guerre, carestie e cambiamenti climatici. Comunque dove si dirige il flusso? È già qualcosa che se ne incominci a parlare e non pensare che risolvano i problemi le stragi o i flutti procellosi dei mari.
La destinazione non a caso è la parte più attiva e consapevole dei problemi della natalità e al momento la più “ricca” del pianeta. In testa vi è l’Europa, che ospita 87 milioni di stranieri, seguita dal Nord America, che ai suoi confini ne conta 59 milioni. Scindendo i dati europei abbiamo la Germania, che nei propri confini gestisce 16 milioni di stranieri e anche grazie a questi di recente ha raggiunto una ragguardevole presenza di 85 milioni di abitanti registrando un aumento del 4% della popolazione residente. Dietro questo incremento c’è un mix politico fatto di sostegno alla natalità e di aiuti agli stranieri per trovare casa, agevolazioni fiscali, sostegni alle famiglie e di recente anche la concessione della doppia cittadinanza, con quella tedesca che si associa all’altra di origine; a ciò si aggiunge che il 53% di lavoratori immigrati ha un regolare contratto di lavoro e così entra nel novero dei contribuenti che sostengono welfare e pensioni. Tutto ciò varrebbe in Germania a circa 80 miliardi di euro di investimento (contro i 20 italiani, per esempio). L’antifona è stata compresa pure dalla Gran Bretagna, in cui ormai un abitante su sei è nato all’estero e il governo conservatore nel solo 2023 ha aperto le frontiere a 300 mila immigrati, conscio della forte carenza di manodopera e di intelligenze funzionali al suo sviluppo. Un altro caso interessante, anche se più ristretto, in termini di tendenza è rappresentato dal Lussemburgo che pur avendo un tasso di incremento tra i più bassi di popolazione, l’1%, lo deve agli immigrati, di cui buona parte italiani.
Come si colloca il nostro Paese in questo quadro? Come abbiamo detto, la tendenza e la politica dichiarata è di trovare una soluzione interna, puntando sull’incremento della fertilità nazionale, e ciò soprattutto perché pesa l’avversione dello strumento dell’immigrazione oggi accentuata dall’avvento di un governo di destra che, lasciando l’espressione più epidermica di questa convinzione alle frange più estreme di esso, ai livelli più elevati giustifica politiche di respingimento con ragioni di ordine pubblico (“tratta dei migranti”, “trafficanti di esseri umani” “infiltrazioni terroristiche e criminali”, ecc.) o di difesa dei ‘valori’ fondanti della nostra civiltà occidentale, allo scopo di rendere più credibile e accettabile una politica anche interna che in nessun modo possa compromettere l’immagine internazionale di “nazione” equilibrata e ben inserita nel contesto occidentale. Quindi la soluzione individuata, a parte l’immissione di un minimo di forze di lavoro straniere per accontentare le richieste delle organizzazioni imprenditoriali, soprattutto agricole, da cui proviene buona parte del consenso ai partiti di maggioranza, si è pensato bene di risolvere il problema in maniera univoca puntando tutto sulla famiglia e la fertilità femminile, cercando conforto all’occorrenza anche sull’insegnamento del Pontefice (ma ignorando i suoi inviti a vedere gli immigrati come fratelli ed evangelicamente come immagine di Cristo).
Tuttavia, anche nel Paese dove al momento un po’ per tutti e per tutti i problemi sembra prevalere il principio “meglio un voto oggi che la soluzione del problema domani”, la politica sembra andare inconsciamente nella direzione di accettare le fait accomplie, vale a dire la presenza di 5 milioni di stranieri, risultata determinante per mantenere la popolazione residente in un certo equilibrio. Infatti, a onta di tutti i pericoli che provengono dal mare, vale a dire i barchini dei fastidiosi migranti, che costituiscono non più del 16% degli ingressi, la gran parte di stranieri entra comodamente con visti turistici e ricongiungimenti familiari oltre con le “quote”, reputate dagli esperti solo espedienti per ottenere un permesso di soggiorno legale e poi magari rimanere illegalmente in Italia (oggi agevolati anche dalle ultime disposizioni di legge). Quindi, la presenza degli stranieri nel nostro Paese, o “nazione” se si preferisce, costituendo l’8,7% della popolazione, con relativi figli, consente appunto di mantenere l’equilibrio demografico giacché l’Istat ha censito al primo gennaio 2024 ben 5.308.000 di stranieri residenti nella Penisola.
Tutto ciò ci narra, quindi, che l’approccio a questi problemi demografici epocali non può essere univoco e che per nessuno vi è a disposizione una bacchetta magica che li risolva. Il fatto che tutti i principali Paesi del mondo cosiddetto “ricco” siano impegnati da tempo ad affrontarli ci rivela solo la loro complessità e, anche se hanno bisogno di tempo prima che facciano effetto, che occorre metterli subito sul tavolo.
Chi stende queste note oltre che essere convinto che non esistano approcci a senso unico al problema, ritiene che possedendo questo un elevato profilo politico non sia, appunto, “politico” e di buon senso procedere con atti di forza ma sia più opportuno farsi carico delle esigenze e delle obiezioni della parte più estesa delle forze politiche e dell’opinione pubblica. In questo senso, riguardo al discorso dell’incremento delle nascite non vi è dubbio che si tratti di una politica da sostenere, come fa la stessa Francia che ha una popolazione straniera più numerosa della nostra. Per di più non bisogna dimenticare che in Europa vi sono molti settori di popolazione, non solo aderenti ai partiti più conservatori ma anche a quelli più liberal e socialisti, che sono preoccupati della perdita dell’identità cristiana non meno di quella liberale e democratica e della sua millenaria cultura. Al riguardo si osserva con preoccupazione che nel vecchio Continente continua ad avanzare numericamente la popolazione di fede islamica giacché si parla oggi di un 5%, per una presenza complessiva di 15 milioni di abitanti, destinata a crescere fino a costituire nel 2050 1 su 5 europei grazie anche al tfr della donna musulmana che oggi è del 2.6 rispetto al 1.6 di quella europea.
Secondo la Fondazione Farefuturo, che si è impegnata a tenere sotto osservazione il fenomeno, gli immigrati irregolari in Italia per il 78% sono musulmani e su questi dati occorre fare i conti quando si parla di diritti e di valori. Questa etnia, ad avviso di alcuni opinion leader, essendo oltretutto portatrice di una cultura patriarcale, omofoba e maschilista minaccerebbe non solo le nostre radici ma anche le conquiste egalitarie e la nostra tavola dei diritti. Anche se la questione oggi è alquanto controversa perché non vi è dubbio che trasferendosi in Europa molti vanno incontro a processi di secolarizzazione che li allontanano dalle fedi primigenie oltre a fare tendenzialmente meno figli, più in linea quindi nei comportamenti sociali con i residenti, si tratta tuttavia di cautele rispetto alle quali non è opportuno passarci sopra troppo in fretta in nome della necessità di colmare i vuoti demografici, ma, estendendo a quest’ambito i suggerimenti di Mao, è meglio marciare col passo dei soldati più lenti. E poiché la questione oggi è abbastanza dibattuta anche chi ritiene che il ricorso agli stranieri sia inevitabile deve farsi in qualche modo carico di tutti i risvolti, senza chiudersi in un oltranzismo ideologico ammantato di umanitarismo e di universalismo. Come dire, un occhio politicamente va tenuto anche alle conseguenze delle decisioni che si prendono dando quanto più possibile spazio alle indicazioni della scienza e della ragione (e anche ai comportamenti dell’elettorato che, nelle ultime elezioni europee, ha penalizzato proprio i Paesi più accoglienti con gli stranieri, in testa Francia e Germania). Troppe volte, infatti, si ha la sensazione di incontrare su questi temi opposte tifoserie, l’una che ragiona con la pancia animata solo da sentimenti razzisti ed egoisti e l’altra con il cuore guidata dal desiderio di salvare il resto del mondo più infelice, non pensando che intorno a questi temi sarebbe più opportuno usare parti del corpo meno centrali e più deputate al raziocinio, come per esempio la testa.
In una direzione di un certo equilibrio demografico e di contemperamento di valori sembra andare la proposta di legge, presentata in Sala Stampa della Camera dei Deputati, mercoledì 15 maggio u.s., da un gruppo di deputati primo firmatario Fabio Porta, che istituisce un visto che inizia a essere quinquennale con la prospettiva di trasformarsi in permanente a favore dei discendenti degli emigrati italiani e degli stranieri di cultura italiana (definiti “italici”) che, sulla base di determinati requisiti (conoscenza della lingua e della cultura italiana, oltre che di una indispensabile formazione professionale se intendono inserirsi a breve nel mercato del lavoro italiano), intendano stabilirsi e operare nel nostro Paese, con l’obiettivo di ripopolare le aree più bisognose e soprattutto di favorire l’incremento della popolazione giovanile. La legge, non a caso definita di “semplificazione”, intende sottrarre questa particolare categoria di “italiani” e di “italici” dalle pastoie della burocrazia nostrana rinomata per rendere difficile anche le cose più giuste e più elementari, prevedendo tra l’altro l’utilizzo di lingue straniere negli atti pubblici (la cui esclusione in un mondo dominato dall’intelligenza artificiale appare solo ridicola) e più rigorosi istituti di silenzio-assenso in caso di inerzia delle amministrazioni.
L’obiettivo della semplificazione non è irrilevante perché proprio nel campo degli stranieri oggi esiste il monumentale T.U. 268 del 1998, cosparso di trappole e di tagliole burocratiche che, pur tenendo larghe le maglie per l’ingresso, ne complica tutto il percorso; una legge che risulta attenuata soltanto dall’impossibilità di fare fronte ai suoi adempimenti proprio da quelle forze dell’ordine che sono sotto di organici e appaiono sotto pressione dall’opinione pubblica per essere assenti dalle strade (e quindi, per quanto ci riguarda, non contribuendo ad arrestare la morìa nel fine settimana di quella gioventù che tanto ci sta a cuore) e dalle periferie in mano alla microcriminalità e a quella organizzata. La proposta di legge, inoltre, prevede agevolazioni fiscali per chi intenda farsi carico di giovani discendenti di emigranti italiani (potrebbero essere le stesse e più allargate famiglie di origine) e la liberazione dagli impacci delle “quote” entro le quali gli stranieri debbono stare in Italia e che se costituiscono un divertissement per i funzionari ministeriali sono solo un grattacapo per gli imprenditori agricoli, turistici e manifatturieri che non riescono a trovare personale. Infine essa sposta sulle regioni, gli enti locali e le associazioni di volontariato varie responsabilità della gestione del fenomeno.
Si tratta di uno strumento che può solo arricchire gli altri che in qualche modo si cerca di sperimentare nel Paese: il sostegno alla famiglia (meglio a tutte, anche a quelle di stranieri come fa la Germania) e alla natalità (che comunque non potrà dare risultati prima di un paio di decenni mentre qui siamo con Hannibal ad portas) e, infine, l’utilizzo degli immigrati per i quali sarebbe meglio farla breve andando in Germania a copiare esattamente cosa fanno senza adagiarsi nelle amenità burocratiche e sulle pregiudiziali ideologiche italiane.
In questo discorso non potranno rientrare chiaramente tutti i discendenti degli italiani all’estero, ma solo quelli che o per scelta personale o per convenienza economica e sociale trovino più vantaggioso il trasferimento. Da questo punto di vista l’adesione maggiore proverrà prevedibilmente da Paesi dell’America del Sud, con il Brasile che ha una popolazione di origine italiana di circa 35.000 milioni di persone e l’Argentina poco meno. Abbiamo visto dai dati generali che l’intenzione di spostarsi dal proprio Paese rientra nei desiderata del 37% della popolazione dell’America Latina, mentre oggi solo l’8% avrebbe in concreto questa possibilità in Italia. In questa direzione si può avanzare con politiche concrete e non con pannicelli caldi come si è fatto per esempio col Venezuela.
A questo proposito si presenta interessante il caso di scuola dell’emigrazione venezuelana studiato dal IOM, l’ente dell’Onu per le migrazioni, appunto, che offre quella che potrebbe essere una best practice valevole anche per l’Italia. Qui si dimostra come l’impatto fiscale dell’emigrazione venezuelana – che complessivamente somma a 7,7 milioni di persone di cui 6,6 fermatisi nell’America latina e caraibica –, nella sola Colombia abbia contribuito a innalzare quasi del 2% le entrate fiscali del Paese americano, per circa 804,3 milioni di dollari Usa, e si proietti a crescere ancora di più nel 2023 con la regolarizzazione di tutti i venezuelani rifugiatisi nel Paese. Altro aspetto interessante è l’elevato livello occupazionale degli immigrati venezuelani che ne abbraccia il 90% in età lavorativa con ben il 20% in possesso di un’istruzione superiore. Analogo impatto sarebbe in corso anche in altri Paesi come Aruba, Costa Rica, Cile, Rep. Dominicana e Perù. Così pure a Panama è capitato che imprenditori venezuelani abbiano investito 1,8 milioni di dollari Usa nell’ultimo decennio creando 40 mila nuovi posti di lavoro, il 70% dei quali andati a vantaggio dei panamensi. Qui si potrebbe innestare una riflessione riguardante l’Italia giacché dovrebbero essere circa due milioni i venezuelani di origine italiana e ben 176 mila con cittadinanza italiana che non hanno per nulla attirato l’attenzione del nostro Paese, che si è attivato appena per mandare medicinali e cibaria ai più bisognosi.
Altro caso che oggi possiamo considerare istruttivo di come si possa trattare la propria “diaspora” è quello dell’India che guida la classifica dei Paesi con il maggior numero di cittadini emigrati, 18 milioni come si è visto. Tuttavia, stime governative dicono che questa cifra, sommando coloro che non hanno la cittadinanza indiana, raggiunge i 32 milioni (e pensare che gli italiani all’estero secondo calcoli analoghi dovrebbero essere circa 80 milioni). Questa forza, secondo la banca Mondiale, si traduce nelle più alte “rimesse” al mondo con 125 miliardi di dollari corrispondenti al 3,4% del Pil indiano. Cifra che si può spiegare anche con le condizioni economiche dei migranti indiani. Per esempio, in Usa l’80% degli indiani è laureato e il reddito medio della famiglia indiana è di $150.000, ossia il doppio della corrispondente americana.
Il caso indiano è paradigmatico perché dimostra che un Paese può mettere in atto una politica di solidarietà nazionale anche senza avere necessariamente in casa i propri cittadini, in pratica ciò che si vorrebbe fare con gli “italici”, dai quali l’istituzione del visto permanente previsto nella proposta di legge Porta, oltre che il riconoscimento di questa nuova categoria di utenti propugnata da Piero Bassetti, si ripromette di migliorare il contributo delle forze giovanili e professionali per lo sviluppo del Paese. Per di più quest’ultima costituisce una possibilità che può sfruttare anche il discendente di italiani – e i casi non sono pochi – che non può acquisire la relativa cittadinanza perché nella linea di discendenza un genitore l’ha persa o vi ha rinunciato.
Come si può procedere su questa linea che potremmo definire mediana tra la fertilità nazionale e le immigrazioni di popolazioni etnicamente differenti da quella italiana? Il percorso non è facile. Già alla ricerca di una firma bipartisan la proposta di legge Porta si è dovuta accontentare di quelle dell’opposizione, segno che esiste un’indicazione politica di maggioranza sia pure non esplicita per cui il solo strumento da utilizzare per ripopolare in modo “permanente” la “nazione” debba essere solo quello della fertilità interna, costi anche il suicidio etnico e che gli “stranieri” rimangano nel nostro Paese il tempo necessario per raccogliere le mele e i pomodori ma poi vadano via. A questi si sono aggiunti alcuni mugugni dello Stato profondo, segnatamente dai reperti archeologici del vecchio Stato/nazione ottocentesco che non si è mai pensato di adeguare alle esigenze di un Paese moderno: perché volete mettere sotto pressione i consolati che hanno già tanto da fare (sic!) o perché volete tenere fuori le questure dal divertimento di mettere timbri e firme su pezzi di carta, a tacere dai comuni che non hanno il personale necessario? Come si vede un po’ si tratta di problemi veri, un altro po’ inventati o corporativi, magicamente comparsi quando una proposta di legge cercava di ridurre al minimo indispensabile gli adempimenti e snellire le procedure, così come vuole tra l’altro il PNRR.
A prescindere, quindi, dalla lunghezza e dall’accidentalità del percorso questa proposta presenta un contenuto politico che può essere attuato anche prima che sia tradotta in legge dello Stato sempre che esista la relativa volontà. E questa si può realizzare immediatamente anche utilizzando i barocchi istituti attuali sia pure esercitando le doti della pazienza e della tolleranza giacché esistono di già nel nostro ordinamento una decina di possibilità di ottenere un visto di ingresso permanente (lavoro, capacità economiche, scienziati, docenti universitari, ecclesiastici, diplomatici, manager, ragioni di studio, attività imprenditoriali, ecc.). ma perché ciò sia possibile è necessario, in primo luogo, far arrivare il messaggio alle comunità italiane all’estero attraverso le strutture pubbliche e, soprattutto, il mondo dell’associazionismo, analogamente a quanto si è fatto con il turismo delle radici. In secondo luogo, nei luoghi dove si prevede che la risposta sarà più interessata, come l’America latina e caraibica, occorre motivare e attivare le strutture italiane già notevolmente presenti (sindacati, patronati, enti di formazione, istituzioni culturali, associazioni regionali, ecc.) a mettere in campo attività di formazione linguistica, culturale e professionale più di quanto già oggi non si faccia a favore dei giovani che sono interessati a entrare nel nostro Paese ma non sono ancora in possesso della cittadinanza italiana.
In terzo luogo, occorre preparare il terreno di ingresso in Italia, sia allargando le “quote” attuali sia informatizzando le pratiche in questura e nei comuni, e, infine, mobilitando le regioni e gli enti locali più interessati a promuovere politiche di insediamento e di sensibilizzazione dei rispettivi territori. Si tratterebbe di fare ciò che, in fondo, la proposta di legge Porta intende promuovere, ossia evitare inutili code, dispendio di tempo che, nell’era dell’informatica e dell’intelligenza artificiale, si sarebbe potuto fare già da qualche tempo. D’altro canto, che senso ha, per esempio, dividere per la stessa funzione il visto dal permesso di soggiorno, che invece giustamente unifica la proposta di legge di cui trattiamo, se non quello di affollare gli uffici e i servizi di mezzemaniche? Poniamoci queste domande quando parliamo di burocrazia e di procedure, tante delle quali sono solo monumenti all’inutilità e alla stupidità istituzionale studiate per ostacolare l’attività economica e infastidire il cittadino.
Come si può concludere questo discorso? Intanto utilizzando il vantaggio di essere, come al solito, i primi ad andare incontro a problemi difficili, come quelli che abbiamo appena esposto, e gli ultimi ad accorgersene e ad affrontarli. Dalle esperienze degli altri Paesi al mondo più o meno del nostro livello possiamo trarre l’insegnamento che le soluzioni, come vado ripetendo nel corso di questo articolo, non possono essere univoche, ma gli approcci vanno mescolati. Il sostegno alla fertilità si è rivelato insufficiente a risolvere da solo il problema ma può aiutare a valorizzare a pieno il ruolo della donna che oggi lavora e apprezza maggiormente l’indipendenza. Dopodiché ciascuno Stato ci metta i mezzi che gli consentono le casse pubbliche. Oltretutto anche un minimo di presenza di esseri umani che provengono dal contesto geografico con valori e tagli culturali più coerenti col Paese in cui si trovano, giova all’integrità nazionale, facilita l’integrazione e rassicura la popolazione residente che, non dimentichiamolo, andando avanti negli anni presenta tutte le paure e le intolleranze della vecchiaia circa il diverso, il futuro, il nuovo arrivato, ecc. E poi… vota. E in misura maggiore vota più della parte più giovane che è più aperta, più tollerante, più coraggiosa, più disposta al rischio, sì…ma è ancora troppo marginale o assente dalla vita politica.
Il secondo strumento è quello di accettare l’immigrazione o di andarsi a cercare all’estero cittadini stranieri, possibilmente giovani. Il vantaggio di questa soluzione rispetto alla precedente è la disponibilità quasi immediata di persone che possono occupare posti di lavoro e rinforzare da adulti la popolazione mancante. Per queste ragioni è lo strumento preferito dai vari Stati, anche se inizialmente incontra diffidenze nell’opinione pubblica interna. Or bene in questo caso vi sono Paesi che, per collocazione geografica, come l’Italia, dovendo subire la pressione diretta dei migranti non hanno la possibilità di selezionare gli ingressi. Viceversa altri, non avendo analoghi problemi, possono più liberamente permettersi la scelta. In realtà le soluzioni sono quasi sempre intermedie perché anche chi seleziona, come Usa, Germania, Francia o Polonia, per citarne alcuni, hanno frontiere esposte e devono fronteggiare chi cerca di entrare a forza.
La battaglia, quindi, è sempre aperta e si può condurre solo se si hanno idee chiare e si comunica correttamente con la propria opinione pubblica, senza aizzarla contro gli stranieri o strumentalizzarla elettoralmente. Questa alla lunga finirà per accettare la realtà. Che sia l’anziano che rimane senza la badante orientale o il patron della grande squadra che ha bisogno del goleador sudamericano, per non parlare del dirigente dell’atletica che riesce a fare medaglie solo con atleti di colore naturalizzati rapidamente come italiani oppure il fedele che non trova neanche un prete africano che celebri la Messa domenicale non meno del vinificatore disperato che non sa a chi rivolgersi per estrarre l’uva dalla vigna; tanti italiani, anche molto avanti negli anni o nei bisogni vitali o ricreativi prima o poi si dovranno fare una ragione di una presenza più colorita nel proprio Paese come hanno iniziato a farsene in Germania i tedeschi dell’ovest.
In cima a tutti rimane il problema della mancanza di giovani. Qui, almeno in Italia, la lotta è basata ancora tutta sulla retorica: diminuire la disoccupazione giovanile, aumentare i salari, dare posti di lavoro perché non fuggano all’estero e così via. Quasi tutte porte chiuse e slogan inapplicabili soprattutto nella misura in cui mancano lavori allettanti con retribuzioni competitive con quelle dei Paesi esteri. Certo, è difficile per una società invecchiata, patriarcale e paternalistica ammettere che i giovani hanno la vista più lunga dei loro padri quando si rendono conto che l’Italia è un Paese privo di opportunità e che la china economica nel quale sembra immesso grazie anche all’immenso debito pubblico non renderà roseo alcun futuro. Ma i giovani questo lo vedono e lo capiscono meglio dei genitori. La retorica corrente del Grande Paese col sessanta per cento della produzione artistica mondiale, la dolce vita, il made in Italy o la dieta mediterranea incanta sempre meno i giovani che capiscono che si vorrebbe solo contrabbandare con una supposta qualità dell’esistenza un primato che tutti sanno essere merito di chi c’era molti secoli prima: imperatori romani, papi, dogi di Venezia e di Genova, Granduchi di Milano o di Toscana, regnanti Borboni, ecc. e non dei moderni governanti o mecenati. Anche perché il genio italiano modernamente se si esprime avviene fuori dall’Italia. Un discorso così amaro per dire che cosa? Che bisogna accettare che i giovani italiani si sistemino pure fuori e che i piezz’‘e core di mamma’ possano essere sostituiti dai coetanei di altri Paesi o altri continenti. D’altro canto, i giovani italiani trasferitisi all’estero non sembrano sentire più come un tempo la distanza dalla famiglia grazie agli smartphone, ai voli low cost e alle elevate retribuzioni che consentono loro di tornare a riprendere più rapidamente e per tempi anche molto brevi i rapporti con la vecchia famiglia senza che le tasche ne risentano più di tanto.
Il problema vero è che, a prescindere dagli effetti negativi sullo spopolamento e sull’invecchiamento, gli esponenti della generazione Z occorrono oggi e non domani per sostenere, avviare e mantenere lo sviluppo economico (e anche la fertilità del Paese, se si crede veramente a questa) e non solo per garantire lo welfare e il pagamento delle pensione ai Boomers o a farli divertire quando si accomodano sul divano davanti al televisore mentre fanno i gol o le schiacciate o vincono le gare atletiche. Occorrono tutti e accorrano tutti qualunque sia il colore della pelle o la provenienza geografica. Che sia questa la strada giusta? Chi lo sa, forse anch’io non saprei? Ma almeno se ne parli.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Aldo Aledda, ha rivestito importanti cariche istituzionali nella regione Sardegna e nel Coordinamento interregionale italiano, è autore di I sardi nel mondo. Chi sono, come vivono, che cosa pensano (Cagliari, Dattena 1991), Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche. (Milano, FrancoAngeli 2018), Sardi in fuga in Italia e dall’Italia. Politica, amministrazione e società in Sardegna nell’era delle grandi migrazioni. La politica italiana nei confronti dell’emigrazione e delle sue forme di volontariato all’estero (Milano, FrancoAngeli 2023).
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