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L’esilio come metamorfosi, identità in transito

Beuchat André, Gli uomini, acquaforte,  2000.

Beuchat André, Gli uomini, acquaforte, 2000.

di Giorgia Rubera 

Tengo sangre de lemosín, árabe, castellano y murciano, y me hago por necesidad solidario de todas las atrocidades y aun crímenes que los invasores cometieron en nuestro territorio. Si usted suprime a los romanos y a los árabes, no queda de mí quizás más que las piernas; me mata usted sin querer, amigo Unamuno (Ganivet 1898). 

La presente analisi esplora l’esilio come processo di metamorfosi identitaria nelle vite di alcuni poeti, artisti e intellettuali arabi. Non intende essere una riflessione sul dolore dell’esilio, quanto piuttosto si propone di esplorare l’attraversamento, il transito identitario. L’esperienza di sradicamento si configura come una trasformazione profonda dell’identità che, nel suo mutare, trova nuove forme di essere tra il dolore della separazione, la nostalgia per le radici perdute e nuove appartenenze. 

La parola poetica, la scrittura, l’arte diventano uno spazio in cui l’identità si esprime non più su basi geografiche, ma su un orizzonte più vasto, quello della memoria, dell’immaginazione e della critica culturale. È proprio in questa concezione di appartenenza identitaria ibrida che oggi si può trovare una forma di resistenza alle derive identitarie nazionaliste.

In questo contesto le persone che giungono “a Lampedusa, a Tijuana o verso altri lidi” come sottolinea l’antropologo Massimo Canevacci (2024) diventano parte di un’avanguardia che sfida i confini tradizionali della cittadinanza e dell’appartenenza. Esse incarnano un nuovo paradigma politico, culturale e giuridico a cui aspirare, che va oltre lo Stato-nazione, una diversa visione che investe chiunque rifiuti di rimanere ancorato in un «territorio identitario stabile visto come oppressivo, tradizionale, inadeguato, autoritario, illiberale, patriarcale, coloniale» (Canevacci, 2024: 9-10).

Svincolare l’identità da confini rigidi e immutabili ci permette anche di riscoprire le tante radici culturali della nostra identità europea, compresa quella di Cuando Fuimos árabes (Ferrin 2018).

È nell’erranza che si disegna un’appartenenza nuova, oltre i confini, oltre ogni tentativo di irrigidire l’identità in categorie fisse e immutabili, quantomeno “alleggerendola” (Remotti 2012, 104) e rendendola più vicina all’ ibridazione e al mescolamento. 

Tabula Rogeriana, al-Idrisi

Tabula Rogeriana, al-Idrisi

Ibn Ḥamdīs 

Come la Tabula Rogeriana del geografo arabo al-Idrisi presenta una visione del mondo da un’altra prospettiva, anche questa riflessione si propone di osservare il fenomeno dell’esilio in Ibn Ḥamdīs come metamorfosi identitaria. 

Ibn Ḥamdīs, Abū Muḥammad ‛Abd al-Giabbār ibn Abĭ Bakr ibn Muḥammad, poeta arabo siciliano, nasce a Siracusa intorno al 447 dell’egira islamica, (1055-1056 d. C.) e lì trascorre la sua giovinezza nel privilegio di una vita agiata nella Valle d’Anapo. La sua poesia presenta i canoni dello stile poetico arabo e una sofisticata conoscenza linguistica, ci ricorda Francesca Maria Corrao analizzando la sua vasta opera poetica (Corrao 2015).

Nell’antologia Diwan che comprende seimila versi che passano da lunghi componimenti poetici classici qaṣīda (sing.), a brevi poesie, racconta la sua Sicilia che emerge come un luogo ideale, un paradiso perduto, un mito su cui fondare la sua identità. La sua poesia è un canto nostalgico per una terra che non gli appartiene più, ma che rimane viva attraverso il ricordo.

Leonardo Sciascia nelle sue opere tornerà più volte sul poeta Ibn Ḥamdīs, in un articolo nel giornale ‘Il Pioniere’ nel 1960 scrive:

«La Sicilia era la sua patria così come la nostra, era la casa, la famiglia, l’infanzia, la giovinezza e gli amici era la campagna e il mare, il particolare sapore del pane e dei frutti, l’odore del vino, le feste, i divertimenti, le dolci abitudini e gli incontri d’amore era la terra dei suoi morti» (Sciascia 1960).

Ibn Ḥamdīs visse alla fine della dinastia dei Kalbidi in Sicilia che, divisi e in lotta crearono l’ambiente ottimale per la loro sconfitta. All’arrivo normanno in Sicilia andrà via dalla Sicilia, dalla sua casa, scriverà:

¡Oh custodisca Iddio una casa in Noto, e fluiscano su di lei le rigonfie nuvole! Ogni ora io me la raffiguro nel pensiero e verso per lei gocce di scorrenti lacrime (Ibn Ḥamdīs  in F. Gabrieli 1948: 24).

Noto rappresentò l’ultimo baluardo arabo della Sicilia, come sarebbe stato poi per Granada secoli dopo l’ultimo rifugio del governo musulmano nella penisola iberica. A quel tempo Ibn Ḥamdīs ha 24 anni, inizia così il suo esilio. La prima tappa sarà nella città di Sfax, in Tunisia, paese in cui inizia la sua metamorfosi.

È interessante osservare che, andato via dalla sua terra natale, la sua identità è già cambiata, non è più e non è ancora altro, a lui viene attribuito il nominativo di al Siqilli, Ibn Ḥamdīs al Siqilli (il siciliano).   

Fin quando durerà il mio esilio
amici per malasorte non diversi
dai nemici che mi assetarono
(Ibn Ḥamdīs in  Corrao 2004: 284). 

Anche alla stessa Sicilia spetteranno vari cambi identitari nel tempo storico e nel giro di pochi secoli; la stessa identità arabo islamica [1] siciliana verrà via via cancellata dalla memoria.

Lo storico Franco Cardini ci ricorda come a partire dal Quattrocento e con maggior forza poi dal Settecento, in quello che si può definire Occidente si è costruita «una Weltanschauung fondata sul presupposto d’una sua discendenza in linea diretta e quasi esclusiva dalla cultura ellenica, a sua volta avvertita e interpretata come qualcosa di esclusivamente europeo e occidentale, distinto quindi e contrapposto rispetto all’Oriente (o agli Orienti)» (Cardini 2020: 137).

È quindi estremamente importante recuperare le storie non raccontate, nascoste e soppresse dalla narrativa dominante. Questo compito dell’antropologia e della storia è fondamentale per sfuggire al rapto de la historia in questo caso delle radici islamiche europee, operato dall’Occidente (Alcantud 2002, 2014a, 2014b, Ferrín 2018).

È interessante osservare questa figura storica in transito continuo tra luoghi che essi stessi cambiano nome e identità. Il suo esilio lo porterà poi a Siviglia alla corte del re poeta Al-Mutamid dove passerà degli anni tra poesia e nostalgia. 

Fig.3 Al-Mutamid

Al-Mutamid

Al-Mutamid: Il Re-Poeta 

Al Mutamid di Siviglia, il re poeta, además de poeta fue Rey y no viceversa, ci dice Miguel José Hagerty (Al-Mutamid 2006: 16) parlando di Al- Mutamid e aggiunge che Siviglia a quel tempo era talmente infusa di poesia e cultura da essere definita «una feliz y fortunata mezcla vital de poesia y pueblo, pueblo y poesia» (ibidem).

Nato in una delle epoche più floride di al-Andalus, Al-Mutamid governò una corte che divenne emblema di splendore culturale e raffinata vita intellettuale. Quando salì al trono del regno di Taifa nel 1069, Siviglia era già celebrata come la capitale poetica di al-Andalus. Qui, nel palazzo al-Mubarak, il sovrano fondò un’accademia di poeti, trasformando la sua corte, riunendo alcuni tra i più brillanti intellettuali e poeti del tempo. Tuttavia, il suo regno fu segnato dall’instabilità politica e dalla crescente pressione dei cristiani del nord.

Sconfitto dagli Almoravidi, il 7 settembre 1091, fu condannato all’esilio ad Agmat, alla periferia di Marrakech, privato del suo regno, del Real Alcázar, del Palazzo e dei giardini della Buhaira, e soprattutto della fervida vita intellettuale e artistica che aveva contribuito a sviluppare a Siviglia, Al- Mutamid non fu però privato della poesia. Visse anche lui l’esilio trascorrendo gli ultimi anni della sua vita in prigione, scrivendo versi pieni di dolore e nostalgia. Nei suoi versi si alternano il ricordo dello splendore culturale di Siviglia e l’amarezza per la condizione di esiliato, costretto a vivere lontano da tutto ciò che un tempo aveva definito la sua identità. Scrive Al- Mutamid in dei versi dedicati ad Ibn Ḥamdīs:

No te dejaron entrar, pero no fue por orden mía, [por Alá.
Atiende mi excusa para que mi alma te recupere. Mis nobles acciones no han cambiado, ni tú me das [vergüenza.
Mi suerte cambió por la horrible mano del destino. No tengo criados educados ni de confianza con quien Despachar mis asuntos personales. Sólo me queda un criado negro, mudo y mal del oído.
Es un burro cuando camina, un buitre en vuelo. ¡Malditos los dos!
Ni el burro necesita una burra, ni el buitre un nido.
Pero tú eres agua fresca, Único remedio contra la abrasadora sed de mi pecho.
Si yo pudiera beber vino, vino serías tú para siempre. Que mi alma deseara la delicia de la vid.
Eres Ibn Ḥamdīs de Sicilia, el que nos galardona [hechizos.
¡Qué lejos esos tiempos hechiceros! [2] (Al-Mutamid 2006: 197). 

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To me, nothing more painful and paradoxically sought after characterizes my life than the many displacements from countries, cities,abodes, languages, environments that have kept me in motion all these years (Said 2000: 184) [3]. 

Lamentando la sua vita in esilio, il senso di sradicamento e l’ambiguità identitaria che ha vissuto fin dall’inizio della sua vita, Edward Said, nelle ultime pagine della sua autobiografia, scrive che infine si rende conto di aver sperimentato una trasformazione, di percepire cioè la sua identità non statica, per cui si trova a vivere l’esperienza di essere attraversato da un ammasso di correnti fluide, in movimento continuo, destabilizzanti a volte, contraddittorie. Said abbraccia la condizione di essere out of place, fuori posto.

«A volte mi sembra di essere un ammasso di correnti in flusso continuo. Preferisco quest’immagine all’idea di un Io solido, di un’identità fissa alla quale, pure, la gente attribuisce tanta importanza. Queste correnti, come i temi della nostra vita, ci attraversano fluide durante le ore di veglia e, nei momenti di grazia, non hanno bisogno di essere né riconciliate né armonizzate. Sono un po’ eccentriche, forse, e fuori posto, ma almeno sono mobili, formano di continuo strane combinazioni, si muovono di continuo nello spazio, nel tempo, non necessariamente in avanti, a volte si scontrano, in contrappunto ma senza un unico tema centrale. Una forma di libertà: così mi piace pensarle, benché non sia del tutto sicuro che lo siano. E questo scetticismo è a sua volta qualcosa che voglio tenere ben stretto. Date le tante dissonanze della mia vita, ho imparato a preferire la diversità e lo spaesamento» (Said 2023: 307-308). 

Quella di Edward Said effettivamente è stata una vita in costante cambiamento. Nasce a Gerusalemme da genitori palestinesi cristiani protestanti, nel 1948, dopo la proclamazione dello Stato di Israele, la sua famiglia viene espropriata di tutti i beni, inizia la sua militanza per la causa palestinese, per la soluzione “due Popoli due Stati”, diventa rifugiato politico. Said cresce tra Egitto e Libano prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Il padre, durante la Prima guerra mondiale si era arruolato nell’esercito americano ottenendo la cittadinanza statunitense, cambiando nome e identità e così tutta la famiglia.

Lo stesso nome, dunque, segna sin dalla sua nascita quella che sarà un’identità in between. Edward, infatti, nome tipicamente inglese convive in lui accanto ad un cognome “inequivocabilmente arabo” (Said 2023: 17), dalla sua infanzia è un’identità ibrida quella che si trova a vivere.

«“Che cosa sei?” “Ma Said è un cognome arabo!”, “Dici di essere americano e una non hai un nome americano non sei mai stato in America!”, “A vederti non sembri americano!” “Come mai, sei nato a Gerusalemme, vivi qui?,  “Va bene, sei arabo, ma di che tipo? ¿Un arabo anglicano?!”» (Said 2023: 19)

Questa situazione di displaced in Said diventa importante spazio di osservazione critica. Compito dell’Intellettuale in esilio per lui è proprio la critica, data la posizione privilegiata di essere in between (Said 2008). Per Said ogni tentativo di recuperare un’origine perduta deve passare attraverso la consapevolezza della sua inevitabile trasformazione.

Dalla stessa situazione di esilio e di metamorfosi identitaria ci parla un altro poeta esule strappato dalla sua terra, Mahmoud Darwish. Durante la Nakba nel 1948 con la sua famiglia in fuga dalla guerra trova rifugio temporaneo in Libano. Al loro ritorno, appena un anno dopo, scoprono che il villaggio natale era stato raso al suolo e la loro terra d’origine era ormai parte dello Stato di Israele. Quel ritorno segna per Mahmoud Darwish e per ogni palestinese la condizione lacerante di sentirsi straniero nella propria terra, un “illegale”.

«You saw yourself at the next airport a persona non grata because documents lack the logic linking geography to names: He who was born in a country that does not exist . . . does not exist either. If you say, metaphorically, that you are from no place, you are told: There is no place for no place. If you tell the passport official: No place is exile; he answers: We have no time for rhetoric, so if you like rhetoric, go to another no place» (M. Darwish 2011: 14) [4].

I suoi versi in Man anā dũn manfà , Chi sono io senza esilio? ci aiutano ad osservare in profondità quello che  è il nucleo di questa riflessione:

Chi sono senza esilio?
Straniero come il fiume in riva al fiume…
Al tuo nome
mi lega l’acqua. Nulla mi riporta dal mio lontano
alla mia palma: non la pace, né la guerra. Nulla
m’incorpora ai Vangeli. Nulla…
Nulla scintilla nelle maree
fra il Tigri e il Nilo. Nulla
mi fa sbarcare dai vascelli
di Faraone. Nulla
mi porta o mi fa portare un’idea:
non la nostalgia, né la promessa.
Cosa farò? Cosa farò senza
esilio e senza una lunga notte
che scruta l’acqua?
(M. Darwish, Sarīr al-gharība, The Butterfly’s Burden 2007: 89). 

imagesChi sono io senza esilio? Questi versi ci riportano al discorso iniziale, all’identità e al transito e a Ibn Ḥamdīs: l’arrivo dei berberi Almorávidi nel 484 egira (1091) sancì la fine di quel periodo dorato in Andalusia e il suo esilio incontrò una nuova tappa presso la corte degli Zīriti ad al-Mahdiyyah in Tunisia dove visse come poeta di corte degli ultimi quattro principi ziridi.

Ma chi era a quel punto al Siquilli? Era ormai anche un po’ Andalusí, si accingeva a tornare in Tunisia e a entrare in contatto con un’altra parte del Mediterraneo islamico medievale. Se fosse tornato in Sicilia la sua identità sarebbe stata differente, mutata. La Sicilia è nelle sue poesie un mito, la radice della sua identità, ma chi sarebbe stato lui senza l’esilio? Cosa la sua poesia?

La vicenda di questi poeti esuli solleva interrogativi profondi sull’identità. Cosa significa essere “di Sicilia” o “di un altro posto” se si è in esilio? 

Considerando che l’identità non è mai statica né monolitica, ma un costante processo dinamico, in divenire, l’identità dell’esiliato è quindi diasporica, mai completamente radicata in un luogo, ma caratterizzata da un senso di appartenenza multipla e spesso contraddittoria. Le culture della diaspora rimangono in between tra mondi, vivono in un luogo ricordandone un altro, sono sincretiche.

«It’s not only possible to have multiple identities, but also, I would say, something to aspire toward. The sense of belonging to different cultures can only be enriching»  (Edward Said in Canevacci 2024: 100). 

Su questo tema tanto vasto da non poter essere trattato oltre in questa sede, riprendo i versi visionari della scrittrice e artista libanese Etel Adnan che ritornano sul trauma della guerra e dell’esilio. Con una scrittura visionaria in cui versi, segni, dipinti dialogano insieme come “altre lingue” tra le mille lingue che l’attraversano, Etel Adan è una figura straordinaria, in cui spiritualità e impegno politico si fondono.

Mi sento in esilio?” si chiede nel suo testo To Write in a Foreign Language (Adnan 1984), risponde

Sì, mi sento esiliata? è una condizione talmente antica che fa parte della mia stessa natura [5].

«Cercare di distrarsi con la poesia, gli alberi. Vedere gli alberi crescere, in fretta. Apparire e scomparire. Rifugiarsi dalla conquista bestiale in falsi ricoveri. Inseguire il rifugiato, stanarlo dal suo nuovo rifugio. Conficcare un proiettile nella testa e nella schiena di un palestinese. Aggiungere gli iracheni alla carneficina. Dipingere grandi tele col sangue poi prendere il treno della notte, poi un aereo. Sbarcare a Parigi. Sollevare il telefono, fare un numero a Beirut. Sentire l’amico dire che un giornalista palestinese è stato ucciso a sangue freddo da un fervido monoteista. Interrogarsi sulla necessità di Dio. Scacciare da parte il problema. Pensare a Cassandra. Ricordare il Codice di Hammurabi. Affondare nel grasso. Guardare la lunga e stretta strada che porta il mondo al mattatoio» (Adnan 2010: 113). 
   L’apocalypse arabe,Etel Adnan,Editions L’Harmattan,Paris,2006:8.

L’apocalypse arabe,Etel Adnan,Editions L’Harmattan,Paris,2006: 8

Etel Adnan nasce a Beirut nel 1925 da padre arabo di Damasco e da madre greca di Smirne, la sua città natale non smise mai di abitare i suoi pensieri, insieme ai resti della perduta casa della sua giovinezza. Utilizza testo, simboli grafici, pittura accostando immagini oniriche di raffinata poesia a forti immagini di denuncia della violenza della guerra, del colonialismo e del neoimperialismo. 

La sua lotta per i diritti del popolo palestinese permea il suo lavoro in modo potente.

Nel 2002, dopo la battaglia, l’occupazione e il massacro di Jenin, in Cisgiordania, Etel Adnan scrive un testo poetico di straordinaria e struggente intensità e attualità: 

e la miseria indossò abiti da donna,
e nessuno si fermò, poiché tutto ciò che era vivo
era morto […]
Viviamo all’interno del perimetro tempestato di stelle
dell’incubo che esaspera la bellezza di questa primavera,
una primavera abitata da alberi in fiore […]
Ecco il dolore di un popolo circondato
da carri armati e incarcerato nello sguardo
degli assassini che hanno attraversato i confini che non sono
altro che le prime linee delle loro
molteplici prigioni:
tutto ciò solo per aggravare la bellezza di un mondo
posseduto da un’altra follia, impermeabile al nostro
destino. […]
C’è qualcosa di più degradato della morte,
di più assente, è ciò che è stato cancellato
con la gomma da cancellare di un bambino dalla lavagna della Storia.
La Storia, l’ultima illusione.
Hanno cominciato con gli ulivi,
poi con i frutteti, poi con gli edifici,
e quando tutto era sparito, hanno gettato,
uno sopra l’altro, i bambini, gli anziani
e le giovani coppie, in una fossa comune,
tutto per dire al mondo dei mezzi-morti
che noi non esistevamo,
che non siamo mai esistiti, e quindi
che avevano ragione…
di sterminarci tutti  [6]. 

 

Fig. 5. Rachid Koraïchi Le poème de Beyrouth-1.[vii]

Fig. 5. Rachid Koraïchi Le poème de Beyrouth-1.[vii]

Conclusioni 

Queste esistenze in transito ci offrono una lente preziosa da cui osservare il presente. In un’epoca come la nostra, segnata da migrazioni e guerre, la prospettiva culturale con cui osservare l’identità è costitutivamente ibrida, essendo naturaliter plurale, dinamica e fluida. Celebrando patrie immaginarie Salman Rushdie (Rushdie 1991) esalta l’ibrido, la trasformazione che nasce dalla combinazione di esseri, idee e culture differenti. Nell’atto stesso di trasformarsi, l’identità non perde la propria essenza, ma si arricchisce, muta. Nel transito del tempo e nello svelamento delle narrazioni le stesse categorie, Oriente/Occidente, nativo/emigrante, si dissolvono, sfumano i loro confini. Osservare l’arabo siciliano Ibn Ḥamdīs ci aiuta inoltre a riflettere sulle categorie Occidente e Oriente, anch’esse inventate, dicotomiche. Occorre ripensare lo stesso  punto di vista monolitico con il quale sono state definite: «è problematico sostenere l’esistenza effettiva di un identità occidentale,  il proporre l’alterità rispetto a una orientale […] poche nozioni sono infatti più infide e scivolose di quella di Occidente» (Cardini 1994: 13). 

In Orientalism (1978) Edward Said analizza il modo in cui l’Occidente ha costruito l’identità dell’Oriente attraverso un discorso coloniale che lo rappresentava come “altro”, l’esotico, l’irrazionale, l’inferiore. Un meccanismo di rappresentazione in cui l’Occidente si definisce come razionale, moderno e superiore contrapponendosi a un Oriente immaginario, primitivo, passivo e decadente. Questa narrazione per Said è servita a giustificare il colonialismo ed è stata veicolata attraverso la politica ma anche attraverso la letteratura e l’arte, creando e consolidando stereotipi che ancora oggi influenzano la percezione dell’Oriente (Said 1999). 

Le poesie di Ibn Ḥamdīs il siciliano, Al Mutamid l’andaluso, la nomade Etel Adnan che si specchia nella Spagna islamica per ritrovare la memoria del passato (Adnan 1993: 56 )  ci ricordano che le radici dell’Europa sono anche collegate alla cultura islamica. Si pensi al contributo delle corti andaluse e siciliane nella trasmissione del sapere greco-arabo-latino, che fu fondamentale per lo sviluppo del pensiero rinascimentale. E come ci ricorda Francesco Gabrieli:

«Per quei secoli la Sicilia non fu l’avamposto dell’Italia verso l’Africa, il baluardo avanzato di una civiltà occidentale (greca o latina o bizantina) verso l’estraneo mondo semitico e barbarico che culturalmente possiamo chiamare orientale, ma fu essa, più profondamente e durevolmente che non l’età punica, assorbita è incapsulata in quel mondo […] Dal nono all’undicesimo, e in parte anche duodecimo secolo, la Sicilia non gravita più verso Roma o Napoli o Costantinopoli, ma verso le metropoli arabo-musulmane di Tunisia, d’Egitto e di Spagna, Qairawàn, Mahdiyya, Cordova e e Siviglia il Cairo stesso» (F. Gabrieli 1948: 5-6).

Nell’apertura del volume Pirandello e la Sicilia Sciascia riprende le idee dello storico Americo Castro e scrive: «indubbiamente gli abitanti dell’isola di Sicilia cominciano a comportarsi da siciliani solo dopo la conquista araba (come d’altra parte gli abitanti della Spagna)» (Sciascia 1996: 13). 

Leonardo Sciascia si fa portavoce del recupero dell’eredità del mondo siculo islamico arabo e denuncia la perdita nei discorsi identitari europei di queste radici.

«L’arrivo degli arabi per Leonardo Sciascia coincide con la metamorfosi della Sicilia, metamorfosi da granaio a giardino benedetto di Allah. In un contesto storiografico italiano che vedeva il Mediterraneo latino come Mare Nostrum Sciascia inserisce la Sicilia in una cornice diversa, quella di Mediterraneo arabo» (Pappalardo in Capecchi e Corrao 2020: 16). 

pirandello_e_la_siciliaQuesta necessità di recupero dell’eredità islamica e del senso plurale dell’identità, oggi la ritroviamo espressa proprio nell’arte, in moltissime opere di artisti, per citarne solo alcuni: Franco Battiato che nel 2011 mise in musica alcune opere del Diwan di Ibn Ḥamdīs in L’essenza del reale per i festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia per ricordare la ricchezza delle sue radici culturali, o nelle musiche dei Milagro Acustico o in tutta la musica di Enrique Morente y La Orquesta Chekara Andalusí, dell’ Ensemble Ibn Arabi, Eduardo Paniagua, Omar Metioui & Mohamed Mehdi Temsamani per la musica arabo-andalusa, Jose Heredia Maya arabo-flamenca in Spagna o nel recupero delle radici arabo-andaluse nei pittori come Ana Crespo, Hashim Cabrera, Ligia Unanue. 

E in questi tempi dove i venti nazionalisti e imperialisti ricominciano a soffiare in tutto il mondo è quanto mai importante denunciare le manipolazioni alla base delle narrazioni dominanti, riconoscere la dignità di ogni identità in esilio, in transito e sostenere il diritto ad una nuova cittadinanza e il diritto alla libertà di movimento per tutti.

É fondamentale sottolineare che il fulcro del gioco del consenso politico nazionalista e imperialista contemporaneo risiede nella disumanizzazione dell’Altro: del migrante, del rifugiato, dell’esiliato.

Concludo con quello che potremmo definire il Manifesto della nuova antropologia politica, nel concetto sviluppato dall’antropologo Massimo Canevacci che auspica un inedito diritto costituzionale cosmopolita, quando descrive il suo discorso sul soggetto diasporico.

«Questi rappresenta una tendenza sempre più determinante quanto diversificata, in quanto non si esaurisce con le persone migranti, bensì avvolge qualsiasi soggetto che rifiuti di rimanere in un territorio identitario stabile, visto come oppressivo, tradizionale, inadeguato, autoritario, illiberale, patriarcale, coloniale e via così» (Canevacci 2024: 9-10)

 È proprio in questa concezione di appartenenza fluida e inclusiva che si può intravedere una possibile resistenza alle derive identitarie nazionaliste e imperialiste.

«In quest’ottica, le persone che arrivano a Lampedusa, a Tijuana o verso altri lidi, non si considerano più poveri emigranti, bensì avanguardia per una nuova cittadinanza che affronta una diversa fase politica, culturale e giuridica. Oltre lo Stato» (Canevacci 2024: 113)

Un senso di appartenenza che non si radica nella fissità di confini culturali o geografici, ma che si nutre della molteplicità, dell’incontro e della trasformazione. In questo spazio di transizione l’identità non entità monolitica acquisita alla nascita è di fatto un processo in divenire, aperto alla contaminazione e al cambiamento, alla crescita e allo sviluppo di un uomo nuovo che appartiene, come dice il filosofo e critico culturale Homi Bhabha, a una grande storia di cui tutti facciamo parte.

«Il tribalismo non è la strada da percorrere, è nostra responsabilità creare una struttura democratica nella grande forma di una conversazione cosmopolita che si intersechi con il nostro senso nazionale di appartenenza, è solo così che possiamo andare avanti» (Homi Bhabha, 2000) [8].

E come l’identità per l’uomo, per un popolo è l’idea di nazione che si configura come una narrazione. Le origini delle nazioni, proprio come quelle delle narrazioni, si perdono nel mito e i loro confini esistono solo nella fantasia come ci ricorda Homi Bhabha (Bhabha 2020). La nazione è il racconto di una collettività che sceglie un’origine storica a cui far risalire la narrazione dell’appartenenza originaria. Ma il confine è in continuo movimento, sposta le frontiere della narrazione sulle nazioni. 

Il negro rosso che ama il mare
Io sono solamente un negro rosso che ama il mare,
ho avuto una buona istruzione coloniale,
ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese,
sono nessuno, o sono una nazione.
Derek Walcott, The Schooner ‘Flight’ (Walcott 1992)

 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] In questa sede si userà il termine islamico nel senso più ampio di cultura e non solo come religione.
[2] Non ti hanno lasciato entrare, ma non fu per ordine mio, [nel nome di Allah.
Accogli la mia scusa affinché la mia anima ti ritrovi. Le mie nobili azioni non sono cambiate, né tu mi dai vergogna.
La mia sorte è cambiata per la terribile mano del destino. Non ho servi educati né di fiducia con cui occuparmi dei miei affari personali. Mi è rimasto solo un servo nero, muto e che sente male.
È un asino quando cammina, un avvoltoio in volo. Maledetti entrambi!
Né l’asino ha bisogno di una giumenta, né l’avvoltoio di un nido.
Ma tu sei acqua fresca, l’unico rimedio contro la bruciante sete del mio cuore.
Se potessi bere vino, tu saresti il vino per sempre. Che la mia anima desideri la dolcezza della vite.
Sei Ibn Ḥamdīs di Sicilia, colui che ci premia con [incantesimi.
Che lontani quei tempi incantatori! (Traduzione propria)
[3] Per me, nulla di più doloroso e paradossale potrebbe descrivere meglio la mia vita dei molti spostamenti tra paesi, città, abitazioni, lingue e luoghi che mi hanno tenuto in movimento per tutti questi anni. (Said 2000, 184) (Traduzione propria)
[4] Ti sei visto, al successivo aeroporto, come persona non grata, perché nei documenti manca la logica che collega la geografia ai nomi: Chi è nato in un paese che non esiste… non esiste nemmeno lui. Se dici, metaforicamente, di non appartenere a nessun luogo, ti rispondono: Non c’è posto per nessun luogo.
Se dici all’ufficiale del passaporto: Nessun luogo è l’ esilio, ti risponde: Non abbiamo tempo per la retorica, quindi, se ti piace la retorica, vai in un altro nessun luogo.(traduzione propria)
[5] http://www.poetry.org/issues/issue1/alltext/esadn.htm
[6] ( traduzione dell’autrice) testo integrale in lingua originale al link https://www.slow-words.com/jenin/
[7] “Une nation en exil” (Una nazione in esilio) – Rachid Koraïchi
Opera realizzata nell’ambito del progetto Une nation en exil, frutto della collaborazione tra l’artista sufi Rachid Koraïchi, il poeta Mahmoud Darwish e il calligrafo Hassan Massoudy.
La Mort n°18: L’Oliveraie était toujours verte/ Etait, mon amour;/ Cinquante victims/ L’ont change/ en bassin rouge au couchant…/ Cinquante victims/ Mon amour…/ Ne m’en veux pas…/ Ils m’ont tué…/ Tué/ / Et tué…/ (Mahmoud Darwish ) 
[8] Homi Bhabha, How To Think Better About Immigration, The Institute of Art and Ideas, 2000. https://youtu.be/tWyiC3HX_RY?feature=shared 
Riferimenti bibliografici
Adnan, Etel. 1984. “To Write in a Foreign Language” Unheard Words.
—. 1986. The Indian Never Had a Horse & Other Poems . Sausalito, California: The Post Apollo Press .
—. 1993. Of Cities & Women (Letters to Fawwaz). Sausalito, California.: The Post Apollo Press.
—. 2010. Nel cuore del cuore di un altro paese. Multimedia.
Al-Mutamid, de Sevilla. 2006. Poesía completa. Granada: Editorial Comares.
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Giorgia Rubera, dipendente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale. PhD Cum Laude Mención de Doctorado Internacional presso la Escuela de Doctorado de Humanidades y Ciencias Sociales Universidad de Granada, sotto la direzione del Prof. José Antonio González Alcantud con un progetto di ricerca di antropologia sull’arte sufi contemporanea nel Mediterraneo. Laureata in Sociologia, settore Antropologico e dello Sviluppo presso l’Università “La Sapienza” di Roma, con una tesi intitolata: “Le Donne di Allah. Una ricerca antropologica attraverso lo sguardo dell’artista iraniana Shirin Neshat”. Collabora attivamente con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, partecipando a progetti di ricerca e iniziative accademiche. Contribuisce al progetto “La Tela del  Mediterraneo e la Carta delle Donne nel Mediterraneo”, promosso dall’Associazione Eleonora Pimentel, focalizzandosi sul dialogo interculturale e la decostruzione degli stereotipi. Membro dell’Asociación de Jóvenes Investigadores en Ciencias de las Religiones (AJICR)  ora Asociación para la Investigación en Ciencias de las Religiones (AICR), partecipa attivamente a reti di ricerca internazionali dedicate allo studio delle religioni e ai fenomeni religiosi in chiave interdisciplinare. Dal 2024, è membro del comitato scientifico del corso di laurea magistrale in Italianistica e Studi Mediterranei Comparati presso l’Università di Sfax.. dove nel 2023 è stata docente di Estetica.

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