di Valeria Dell’Orzo
La morale migliore in questo mondo dove i più pazzi sono i più savi di tutti, è ancora di dimenticare l’ora. Paul VerlaineIl tempo, umano e umanizzabile, è una dimensione reale che condiziona la quotidiana esistenza, ma lo è, a differenza di altri fattori apparentemente esterni, per scelta, per una nostra funzionale creazione, spalmata su una base ambientale e astrale, quale accordo tra simili che condividono uno stesso spaccato socio-geografico.
Il tempo è quello spazio invisibile entro il quale le cose accadono, entro il quale si dipanano pensieri e azioni; è il tamburo sordo che scandisce i passi continui dell’uomo, nella sua intimità fisica e nel suo essere un animale sociale. Fatto di una dimensione ciclica, di fluida linearità sferica, il tempo scorre e torna e muta e permane, per ricomparire e ripetersi, per cambiare e riformularsi in un nuovo, vecchio, alterno riproporsi.
Il tempo si dilata, si contrae, si forgia sull’uso socioculturale che se ne fa; si adatta alle condizioni della realtà che lo agisce e adatta a sé, a quella concordata forma di sé, la realtà umana che lo attraversa, che lo utilizza, come indispensabile ponte di rapporti interpersonali, di vita affettiva, economica, culturale.
L’estetica del tempo, nell’originaria accezione di disciplina riguardante la conoscenza sensibile, la percezione, si riformula in un’estetica che non sente ma sancisce il senso del corretto e dell’armonico, la percezione diventa precetto canonizzato che si trasforma in norma sociale: così il tempo non è uguale, come uguale non è il concetto di ciò che è regolare, utile e rassicurante, dunque giusto e condivisibile.
L’estetica del tempo, il sentire che si ha di questo spazio diafano, muta, quindi, al variare dell’ambiente socio culturale entro il quale viene agito: impone senso, battute scandite, e impone una disciplina al suo uso diffuso e partecipato.
La storia umana è segnata da tempi diversi, ritmi di vita e di relazione disomogenei, nella loro pratica, per epoche e culture; lo scorrere continuo non è mai uguale, ma sempre condiviso e scelto entro il nucleo che ne fa punto di riferimento, binario da seguire per una corale organizzazione della vita personale e relazionale; il tempo è l’orologio della piazza che tutti sovrasta e a cui tutti volgono lo sguardo per calibrare il passo e riconoscersi l’un l’altro in uno stesso spazio immateriale.
Questa incorporea realtà, strumento di regolamentazione sociale e frutto della volontà comunitaria, trasmuta la propria natura nei periodi storici e nei luoghi che avvolge e con lei cambiano i ritmi della quotidianità e le tappe della costruzione socio-personale: i tempi del lavoro, della famiglia, della procreazione e dello svezzamento, i tempi dell’ingresso in società e della funzionalità del singolo nell’agire collettivo differiscono tra loro, fino a snaturarsi nell’eccesso di società malate che ne deformano innaturalmente i confini alterando il gioco di equilibrio sotteso alla sana funzionalità dell’organismo comunitario.
Lo scorrere temporale, ben lontano dall’essere una dimensione a sé stante, di autonoma e meccanica realtà, è invece un dispositivo elastico che si forgia sulla percezione e sull’uso che meglio si presta alla realtà umana in cui è agito: è ritratto culturale dell’approccio al fare, all’incontrarsi, al comunicare; è altresì il profilo nascosto del potere, del controllo superiore della gestione privata che il singolo ha di sé, del proprio corpo e del proprio ciclo vitale, del proprio pensiero, che richiede lo spazio del riflettere e del sedimentare per evolversi in equilibrata coscienza.
L’immagine del tempo, lo spazio del tempo, è, nel suo volto disvelato, specchio sonante della società, forma della ritmica sottesa all’ordine delle priorità interne al singolo nucleo e alle relazioni tra diverse culture. Per usare le parole di Italo Calvino (1972: 9), «il paesaggio invisibile condiziona quello visibile, tutto ciò che si muove al sole è spinto dall’onda che batte chiusa sotto il cielo calcareo» della clessidra, imperfetta e molle e dai granelli irregolari, che è forma del tempo sociale.
Il tempo è, così, quella cinquantaseiesima città invisibile, realtà volatile e fluttuante che si stende duttile sulla realtà esterna e muta la sua struttura foggiando e plasmandosi sulle città del rigore geometrico, della concretezza corporea, della fisicità scandita da regole condivise, di quella ritmica sociale necessaria a far muovere in modo armonico un ferroso corpo di innumerevoli particelle, tenute insieme dal comune magnetismo del tempo compartecipato che sancisce il muoversi equilibrato. Una Fedora dalle mille sfere che galleggiando nelle epoche e nello spazio mostrano gli infiniti volti della realtà Tempo, una nuova Fedora che tutto avvolge inglobando al suo interno gli innumerevoli globi dei tempi culturalizzati.
La circolarità del tempo si mantiene tra espansioni e contrazioni delle sue tappe, fino a divenire il pesante riflesso immateriale della globalizzazione e della frustrazione trasversale che soffoca, spinge, opprime, risucchia nella frenetica corsa del mondo-vita-mercato.
La concezione necessariamente condivisa di tempo è, come ogni accordo sociale, una delle forme che la cultura assume per rendersi tale e riconoscibile. Il tempo globalizzato, nuovo e invadente, è però condiviso per gerarchica imposizione economica, è il prendere campo di un nuovo etnocentrismo, non più chiuso da cippi o confini geografici e sociali, ma economicamente imposto sulle singole realtà umane per stare al passo col mondo di chi detiene il potere monetario, di coloro che in questo frenetico battere di passi finalizzano un proprio ulteriore, pericoloso, arricchimento momentaneo. «Il tempo della produzione, il tempo-merce, è un’accumulazione infinita di intervalli equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, in cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa….È in questo dominio sociale del tempo-merce che “il tempo è tutto e l’uomo non è niente; egli è tutt’al più la carcassa del tempo”. È il tempo svalorizzato, l’inversione completa del tempo come campo di sviluppo umano » (Debord 2002:125).
Si fa così della puntualità, dell’essere in anticipo, della fretta, della marcia scandita dalla corsa a fare ricchezza, un valore, un dovere, una forma di costante propaganda del sé. Si perde, sotto la smania del rendere, il valore del tempo lento, della ritmica riflessiva e contemplativa. Il tempo del pensare viene compresso dal tempo delle scadenze del produrre, snaturato e annichilito.
Il tempo del mondo globalizzato è una frenesia dogmatica, appiattito sulla rigidità della forma standardizzata, che comprime la varietà dei ritmi sotto una scure obliqua che non prevede, e non ammette, la salubre ricchezza della diversità. È un tempo avvilito che annulla la libertà dell’utilizzo sociale, diventa un susseguirsi arido e freddamente comune che, nell’ordine pressante che lo svilisce, rende rarefatti forme e usi delle microrealtà socio-geografiche.
La percezione e il rapporto al tempo rappresentano fondamentali tratti che caratterizzano le culture e il legame di interscambio tra l’uomo e il proprio territorio geo-fisico, tra l’uomo e la sua capacità di muoversi entro le maglie delle regole di relazione con gli altri membri del proprio nucleo culturale e, più intimamente, affettivo.
«La memoria è ridondante, ripete i segni perché la città cominci a esistere», ci ricorda Calvino (1972: 9). La condivisione sociale dei momenti carichi di pathos, che si fa ricordo da riproporre, crea un legame, rinsalda i rapporti, rassicura e consente la riformulazione ciclica dell’equilibrio interno al nucleo comunitario. La globalizzazione del tempo invece interviene con monumentali campagne mediatiche per alterare la secolare alternanza ciclica, estende le feste che producono un maggiore indotto per glorificare il Dio Marketing, annulla quelle meno remunerative, o solo più settoriali, per ingollare in altre più pubblicizzate e attraenti. La violenta intrusione fisica di questo regime temporale arriva ad ostacolare la procreazione, delocalizza i dipendenti, crea non-luoghi di plastica, templi monumentali in gloria del produrre, disseminati nell’area della Silicon Valley, che nel nome porta l’aridità inumana che la connota: un lunaparck della produzione, una catena di montaggio intellettuale che fagocita i propri addetti in uffici mascherati da asettiche, confortevoli, impersonali, dimore, dove scrivania, documenti, computer, lavagne per grafici in continuo aggiornamento e letti, divani, fornelli, spesa fresca e cibi precotti, giochi e attrezzi sportivi convivono in una mostruosa privazione della vita privata, non più in nessun modo e momento separata da quella lavorativa. Questa deformante accelerazione produttiva fa dell’animale-uomo un disadattato sociale che non è più in grado di governare la propria esistenza e di connetterla armonicamente con quella della società della quale era parte prima della sua mutazione alienata.
Ma la globalizzazione del tempo interviene ancora, nel processo di monopolizzazione della vita relazionale, posticipando, per contratto o per sottile strategia, la maternità di chi non può, se vuole stare al passo, se vuole restare nel gruppo dei vincenti, fermare la corsa alla valuta per seguire i tempi biologici. Esasperando la violenza di quella Medicina corrotta dal denaro, propone perfino alle donne di congelare i propri ovuli, benevolmente a spese dell’azienda, per concedere con generosa serenità di continuare a produrre senza naturali pause fino all’età, sempre posticipata, della pensione, tappa che sancisce, nell’arida solitudine della globalizzazione, non un nuovo inizio e un nuovo ruolo sociale, ma la definitiva dipartita dal sistema globalizzato del produrre e l’ufficiale ingresso nel tempo sospeso dell’attesa.
La oggettiva ricognizione del tempo globalizzato altro non è quindi che la teratologia dell’embrionale cultura contemporanea, che si deforma nelle indotte aberrazioni temporali e relazionali cui sono piegati gli individui e la società tutta.
Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014
Riferimenti bibliografici
I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972.
G. Debord, La società dello spettacolo, trad. it. Massari Editore, Bolsena, 2002.
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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