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Letteratura e antropologia. Orizzonti incrociati

copertina-buttittadi Antonino Cusumano

Nelle pagine dell’infanzia è scritto e riepilogato il destino di ogni uomo. Lo pensava anche Sciascia che ebbe ad annotare: «Tutto ciò che nella vita accade – anche quel che sembra per forma di circostanze esterne, imprevedibilmente e casualmente – si può dire che è accaduto nei primi dieci anni: nel senso che già nei primi dieci anni della nostra vita se ne può trovare il presentimento, la premonizione, la prefigurazione, il seme. Noi siamo, nel nostro essere e nel nostro modo di essere, quel che i luoghi, le persone, gli avvenimenti e gli oggetti hanno suscitato, disegnato e fissato in quei primi dieci anni dentro di noi».

Così è stato anche per Antonino Buttitta la cui vita è stata segnata e influenzata da un’infanzia difficile. Appena nato, infatti, si è ammalato di una affezione tubercolare alle osse delle ginocchia. Per questa ragione non potè frequentare le scuole elementari e ha imparato a leggere e a scrivere attraverso le vignette dei giornaletti che suo padre, il poeta Ignazio, partendo da Bagheria gli portava a Monreale in un sanatorio dove ha trascorso qualche anno prima di essere finalmente dimesso. Dagli album di fumetti Buttitta ha imparato ad amare la carta stampata, l’odore che emanavano le pagine, i segni delle didascalie che accompagnavano le figure. Da lì nacque la sua passione per i fumetti e poi per i libri:«Ho amato fin da giovane i libri e i libri mi hanno fatto amare gli uomini». Da lì però si spiega anche la ragione per cui per molti anni lo studioso ha scritto a stampatello. A questa dolorosa esperienza infantile si può far risalire il suo innato interesse per i simboli, avendo appreso la scrittura per via del codice figurativo delle vignette, la mediazione di quei segni disposti come cippi a guardia delle immagini, quella scoperta delle parole che ha compiuto da solitario autodidatta e che sarà feconda di avventure intellettuali. Da lì hanno origine la sua passione conoscitiva per le diverse espressioni della cultura figurativa popolare e la sua profonda convinzione che i fatti culturali sono riconducibili a strutture e dinamiche linguistiche, poiché – ha scritto –

«quanto riteniamo reale, non è soltanto il visibile. È soltanto il suo apparire. Al di là del visibile c’è dell’altro. Questo altro lo ritroviamo soprattutto nel linguaggio. In esso abbiamo solo la superficie costituita dalla successione delle parole. Al di sotto c’è un sistema, c’è una struttura, che non vediamo, che non percepiamo. Eppure è questa a dare significato alle parole. L’aspetto fondativo e sostantivo della nostra realtà è il linguaggio».

Se è vero che il simbolo è un segno che indica un’assenza sottintendendo una presenza, quei segni tracciati nei fumetti dell’infanzia hanno attraversato la vita di Antonino Buttitta, hanno dispiegato un mondo che non ha cessato di esplorare, di indagare da antropologo, da semiologo, da studioso che a lungo ha ragionato sul visibile e sull’invisibile, avendo sempre attenzione a distinguere la realtà in re dalla realtà in intellectu, i significati dai significanti. Da qui anche il suo interesse per la letteratura che delle parole e dei segni è il luogo per eccellenza di espressione e di sperimentazione. Quella letteratura che aveva imparato a conoscere e ad amare come vocazione intellettuale ereditata dal padre, un patrimonio culturale maturato per formazione e sensibilità umanistica, dal momento che aveva intuito che, in forza della parola che narra, l’immaginario non è affatto l’opposto del reale ma rende il reale verosimile e intelligibile proprio perché narrabile. Anzi, a guardar bene e a ripensare alle sue consuetudini affabulatorie, in molti casi si spingeva a dire che il mondo che esperiamo, che abitiamo, che viviamo, per dirsi davvero reale deve essere immaginabile e immaginato.

Nell’ultima conversazione pubblica che confluì in un libro (Orizzonti della memoria, 2015), Buttitta così raccontava:

«Cominciai a leggere libri a Codogno [dove si era trasferita la famiglia negli anni della guerra]. Mia madre, vivendo in condizioni disagiate, aveva acconciato il letto su cui dormivo con una catasta di libri sovrapposti in funzione della rete. Ricordo che Uomini e topi di Steinbeck fu una delle prime letture e l’altro libro che mi trovai sotto il guanciale e lessi con interesse fu Incontrarsi e dirsi addio di Cronin. Questi furono i primi libri che ho letto. La scoperta di questo mondo fatto di righe orizzontali – una scoperta che epifanicamente ho compiuto in solitudine poichè nessuno mi ha insegnato a leggere – mi ha accompagnato da allora e non mi ha mai più abbandonato».

Nella biblioteca del padre e nella grande letteratura siciliana – da Verga a De Roberto, da Pirandello a Tomasi di Lampedusa – Buttitta ha incontrato il mondo dei miti, il regesto di figure e di archetipi che segnano e accompagnano la storia e la cultura dell’Isola, l’alfabeto sentimentale e l’atlante delle utopie, le strutture dell’immaginario e le sue occorrenze simboliche più significative.

«Nella letteratura e nel suo straordinario ordito di storie individuali e di vicende esemplari ho sempre cercato e trovato l’uomo, la sua nobiltà e le sue contraddizioni. Credo di aver imparato da mio padre ad amare i classici. A cominciare da Cervantes e tutta la letteratura iberica, che considero una delle massime espressioni artistiche: da Jorge Luis Borges a Gabriel Garcìa Marquez».

1Ci fu un tempo in cui Buttitta amava in mezzo ad una conversazione recitare lacerti di poesie, strofe e frammenti di versi, e si divertiva a interrogare i suoi allievi sul titolo o sull’autore di quel componimento. Un gioco che rivelava la sua familiare e affettuosa consuetudine con la letteratura, un modo per ribadire il suo amore per la parola, una devozione e una convinzione che lo accompagnò per tutta la vita, ovvero la consapevolezza che non c’è realtà per l’uomo al di fuori delle parole. Le parole che «nella letteratura, proprio perché chiamate ad ampliare l’orizzonte della prassi, rispetto alle parole vissute, sono maggiormente orientate a svolgere una funzione eminentemente simbolica».

La verità è che tra gli antropologi italiani Buttitta è stato uno di quelli che più assiduamente ha dialogato con la letteratura, un’ispirazione ereditata certamente dal padre ma mutuata anche dalla lezione del suo maestro, Giuseppe Cocchiara, autore non a caso di Popolo e letteratura in Italia, un’opera, pubblicata nel 1959 e ristampata a cura dell’allievo nel 2004, che passa in rassegna in modo organico e sistematico i molteplici esiti letterari della rappresentazione del mondo popolare attestati nella storia culturale del nostro Paese. In consonanza con quelle pagine e a conferma dei medesimi interessi scientifici sono i saggi sparsi che Antonino Buttitta ha riunito nel volume Antropologia e letteratura (Sellerio 2018), stampato postumo a cura del figlio Emanuele. Con lui ne aveva concertato la pubblicazione, condividendo la comune passione per la letteratura. E il libro, che è il lascito testamentario di un amore reciproco, il pegno di una promessa,  l’ultimo atto di un intimo e silenzioso colloquio, è significativamente e più o meno equamente diviso in due parti, di cui la seconda raccoglie gli scritti del figlio su Verga, Pirandello e la critica demologica. Contro il tempo parricida in cui viviamo, questo libro è in fondo la materializzazione di quel paradigma, caro a Buttitta, della memoria che sfida e tracima il tempo, salva ognuno di noi dalla cancellazione definitiva ed eterna e, nel ricongiungere le generazioni, rinnova la vita e assicura l’unica immortalità possibile, così che «la morte è uno sciogliersi, non un finire», per richiamare le parole del poeta della sua giovinezza, Vincenzo Cardarelli.

Le pagine di Antonino Buttitta muovono dal presupposto che così come la scrittura antropologica in quanto scrittura è un fatto letterario, allo stesso modo la letteratura in quanto fatto culturale è forma e documento di interesse antropologico. Confluiscono nel grande orizzonte della comunicazione, nell’unicum dell’uomo ove significano e si articolano i diversi saperi, discretizzazioni segniche di una realtà che è comunque linguistica e nelle procedure di langue e parole converte i diversi codici di lettura e interpretazione. Questo nucleo fondativo dello statuto antropologico ha sempre tenuto presente Buttitta che, oltre gli specialismi e i tecnicismi disciplinari, ha cercato di attingere al cuore delle questioni sociali e politiche che riguardano l’uomo e l’umano, allo scopo di ricondurre la pluralità delle culture nell’insieme di ciò che costitutivamente tutte le attraversa e fa di un uomo un uomo. In questo snodo ermeneutico antropologia e letteratura convivono, entrano in contatto, si incontrano, si riverberano e si tengono insieme in una sorta di cortocircuito, in una reciprocità di connessioni, influenze e corrispondenze pur nella diversità dei rispettivi punti di vista.

Chiarito definitivamente con Jaspers e Wittgenstein e con i semiologi da Jacobson a Hjelmslev, che in ultima analisi «la cultura si realizza e si perimetra nella comunicazione», Buttitta si riconosce in un’antropologia ai confini della letteratura, avendo sempre messo lo studio del simbolico al centro delle teorie, dei metodi e degli obiettivi della disciplina. Nella dialettica tra realtà e rappresentazione nessuna operazione linguistica potrà mai essere una replica fedele ed integrale. «Non le cose parlano a noi, ma noi parliamo le cose, mediante pratiche comunicative e visioni della vita e del mondo storicamente definite». Sia essa letteratura oppure antropologia, la scrittura non può che essere interpretazione di quanto osservato, narrato, descritto o spiegato. Nelle strategie retoriche si risolve in prima approssimazione la differenza tra letteratura e antropologia. La prima privilegia il livello parole dei fatti di cultura, l’aspetto connotativo, la dimensione individuale dei comportamenti umani. La seconda è più attenta al livello langue, ovvero ai tratti denotativi e alle modalità della vita sociale. Lo scrittore è interessato agli attori, l’antropologo agli attanti.

«Quest’ultimo nel singolo ricerca i molti; mentre lo scrittore nei molti insegue il singolo. Quello fa un uso iponimico dell’uomo; questo inverte la iponimia, ed è questa inversione speculare che genera gli effetti di senso dei prodotti letterari».

Assai critico nei confronti di un’antropologia parcellizzata e autoreferenziale, Buttitta non ha atteso la crisi epistemologica delle scienze umane e la conseguente stagione postmoderna della riflessività per recuperare dalla letteratura ispirazioni e suggestioni, le ragioni per ricomporre in unico piano conoscitivo e discorsivo quanto convenzionali e arbitrari confini disciplinari tendono a separare e per affermare sull’arido scientismo la prospettiva di studi che parla all’uomo dell’uomo: non hommes par la figure né astratti soggetti grammaticali, bensì persone, uomini in carne e ossa. Tanto più che

«lo scrittore, cercando l’uomo, trova gli uomini; l’antropologo, ma anche il sociologo, lo storico etc., osservando gli uomini, troppo spesso perdono l’uomo. Le realtà da loro considerate finiscono con il risultare senza spessore, anonime, prive di contenuto umano. (…) Il mondo si trasforma in un regno di astrazioni quantitative. I vivi e i morti si contano in numeri e dispare quanto di attese e passioni, gioia e pena, sostanzia e rende reale la loro esistenza. Si perde insomma l’identità e si dissolve la tensione invisibile che, pur occultandosi nei loro atti, di fatto li anima e li fa vivere. (…) Quale antropologo, ma anche sociologo, storico ha restituito la società russa o centro e sudamericana, di un preciso tempo, come Gogol e Tolstoj, Carpentier e Garcìa Màrquez? Nessuno può sostenere che, leggendo le loro pagine, non si apprenda della condizione, dei sentimenti, dei pensieri e degli atti di quelle realtà umane più di quanto studi e saggi ci abbiano mostrato».

Così comparando l’opera di Verga con quella di Pitrè, Buttitta si spinge a dichiarare che «il mondo popolare da lui [Verga] restituito è più vicino alla realtà rispetto a quanto proposto da Pitrè», e che compito dell’antropologo è anche quello di saper leggere i capolavori letterari, «non lasciandosene sfuggire il valore di testimonianza dell’umano».

2Va detto che nella tradizione italiana – a differenza che altrove  – è lungamente attestata una storia complessa di frequentazione e circolazione di temi e di apporti tra i due campi disciplinari: da un lato, l’interesse della letteratura per il mondo e la cultura popolare e dall’altro l’attenzione della demologia in chiave pressoché filologica per le rappresentazioni prodotte dagli scrittori. Buttitta cita Crocioni tra i primi studiosi che dalla sponda antropologica hanno guardato a quella letteraria «alla ricerca di credenze e riti popolari come archivio di pratiche e costumi», con esiti  assai modesti dal punto di vista scientifico. Ben altro spessore e respiro ebbero lo sguardo di Cocchiara e poi quello di Bronzini volto alla lettura di Leopardi e di Carlo Levi, quello di Cirese che studiò Verga, Deledda e Scotellaro nonché, più recentemente, l’analisi e le riflessioni che Pietro Clemente ha condotto su Rosso Malpelo e Ciaula scopre la luna e sulle fonti orali oltre il popolarismo romantico e  oltre Geertz.

Buttitta scrive di Verne e di Salgari, di Lorca e di Calderón, di Pavese, di Neruda e di Carlo Levi, di Don Chisciotte e del Gattopardo. E per ogni lettura critica fa ricorso a modelli semiotici di decodifica (Barthes, Bachtin, Greimas), interrogandosi sui rapporti – ambigui e contraddittori e pure fondamentali e significativi – tra scrittura e realtà, tra rappresentazione e verità. A legare i diversi profili lo studio antropologico dei miti che della letteratura sono sostantivi e delle narrazioni nuclei fondanti e generativi. Nel potere della parola che narra Buttitta identificava la possibilità di vincere la morte, la sfida che trascende il principio di realtà e costruisce un orizzonte di senso al di là dell’apparire, oltre il divenire. Così legge la realtà onirica nell’opera  visionaria di Calderón de la Barca, che nella finzione teatrale cerca e trova «lo scioglimento della contradictio oppositorum tra vita e sogno». E in questa stessa prospettiva Don Chisciotte è paragonato a Paolo di Tarso perché come lui «ha fede in quello che spera e ritiene prova di quello che non si vede. Mentre il mondo al quale Paolo aspira appartiene all’aldilà, quello di Don Chisciotte appartiene all’aldiqua. In questo consisterebbe la sua pazzia». Una follia che nel rivendicare il diritto all’immaginazione esprime l’opposizione alla realtà così com’è.

3Di Garcìa Lorca Buttitta sottolinea i legami della sua poesia con la letteratura orale tradizionale, i nessi del pianto per Ignazio con i temi e le figure del lamento rituale per la morte di un eroe mitico. Ma ne individua anche il primo referente poetico nei canti e nelle filastrocche infantili, «non in quanto popolari ma perché infantili. (…) La sua attenzione per il teatro delle marionette, dai più trascurato, è in realtà parte cardinale del suo orizzonte intellettuale». Nella sua rassegna Verne e Salgari – «due scrittori così lontani per scrittura e spessore intellettuale, eppure così prossimi nella nostra memoria» – sono intimamente associati all’utopia del viaggio, quale «percorso iniziatico dalla cultura alla natura, per ritornare alla natura», alla nostalgia dell’ignoto: «desiderio di immergersi in un immaginario fantastico, figurato come reale, spia di un Oltre miticamente avvertito».

Sull’attenzione al mondo popolare da parte di Cesare Pavese – «uno dei pochi scrittori europei del nostro Paese» – Buttitta rileva l’influenza esercitata da The Golden Bough di Frazer e, nella sua ricerca di un’altra realtà, «invisibile ma non meno reale, raggiungibile attraverso i percorsi simbolici del mito e in senso più esteso della poesia», riconosce «lo stesso tortuoso territorio attraversato da uno degli orientamenti essenziali della cultura occidentale da Platone a Vico, da Jung a Eliade». Non diversamente, l’amore di Carlo Levi per la cultura contadina non è da valutare in termini romantici e idillici:

«le sue contadine non sono pastorelle o donzellette ma esseri schiacciati da una vita vissuta come una condanna. Il suo riconoscimento di un positivo sistema di valori in un mondo siffatto non è di precedenza romantica ma illuminista: È il Candido di Voltaire. È l’Emilio di Rosseau».

L’analisi delle opere e degli scrittori che Buttitta compie sembra essere sempre un po’ laterale rispetto a quella più corriva dei critici letterari, orientata a decostruire bachtianamente certi giudizi o a sottoporre a revisione alcune convenzioni interpretative. Così confuta l’omologazione della figura del Principe di Salina del Gattopardo con Tomasi di Lampedusa, respingendo la confusione tra l’autore-creatore e l’autore-uomo destinata a produrre «l’incomprensione e il travisamento della personalità etica e biografica dell’autore e, nello stesso tempo, dell’opera e dell’eroe». Analogamente, liquida «il nebbioso intuizionismo di Croce» per ridefinire il canone artistico, e quello poetico in particolare, sulla base dei contesti di fruizione e in forza della metafora che connette quanto è empiricamente disgiunto.

«In questa specificità del poetico come tensione al superamento delle opposizioni irresolubili della prassi, del visibile, per guadagnare l’unità invisibile di umano e non umano, che altri direbbe di natura e cultura o di materia e spirito o, comunque meglio, di realtà e rappresentazione, è da intendere il senso di tutta l’opera poetica di Neruda».

Su Verga e Pirandello si concentra invece l’attenta ricognizione di Emanuele Buttitta che, nella seconda parte del volume, propone un nuovo approccio teorico e metodologico alla rassegna critica delle pagine degli scrittori che hanno documentato in qualche modo il mondo folklorico. Lo  studioso muove dalla convinzione che da una parte «la letteratura è strumento essenziale per la comprensione della cultura popolare, ove motivi e forme della tradizione vi siano assunti; dall’altra, la lettura dei fatti e dei fenomeni di interesse demologico presenti negli scritti di singoli autori è necessaria alla loro interpretazione e collocazione storico-culturale». Intorno poi al teorema della “verità letteraria”, pur ribadendo che «la ragione della forza veridica della letteratura è comunemente individuata nella valenza connotativa della parola e nella libertà epistemologica con cui lo scrittore interpreta e rappresenta la realtà», chiarisce tuttavia che è nelle capacità percettive del lettore fare esperienza di un nuovo orizzonte di senso della vita e del mondo grazie alla doppia funzione letteraria autore-narratore. Una possibilità negata nel testo scientifico, essendo la sua scrittura «più adatta alla rappresentazione del fatto, mentre quella letteraria all’espressione del suo senso».

4Emanuele Buttitta prende in esame le pagine di Pirandello sulle feste, ne enuclea i temi fondamentali e dimostra che lo scrittore siciliano anche nella sfida tra fede e ragione traduce l’eterna dialettica Vita vs Forma che attraversa tutta la sua opera. Così nel sacrificio orgiastico del maiale, descritto nella novella Il Signore della Nave, non intende mettere in scena  la celebrazione  popolare del primitivo e del selvaggio – come alcuni critici hanno affermato – quanto piuttosto l’opposizione tra l’animale e l’uomo, la crescente distanza creatasi tra quest’ultimo e la natura. Le griglie semiotiche adottate consentono allo studioso di segnalare le correlazioni tra le sequenze narrative, di cogliere cioè le strutture binarie che presiedono all’articolazione del sistema ideologico dei significati. Nello spoglio delle fonti di un’altra opera, L’esclusa, Buttitta riconosce la scaltrita conoscenza da parte di Pirandello della letteratura etnografica, la comprensione delle funzioni mitico-rituali e del senso profondo della festa dei santi Cosimo e Damiano, nella cui descrizione l’Agrigentino combina elementi caratteristici della festa di San Calogero, cogliendo la comune tipologia cultuale nei suoi tratti essenziali: «nei due riti era il racconto dello stesso mito, il racconto degli stessi valori attraverso gli stessi simboli».

Se Pirandello lesse Pitrè e seppe guardare al ballo e alle sfrenate corse dei santi come al nucleo centrale del rito, se nella endemica conflittualità tra le autorità ecclesiastiche e i fautori della tradizione intuì che i tentativi di normalizzazione liturgica operati dalla Chiesa avrebbero svuotato di senso la festa, se cioè mostrò di capire «la forza della fede popolare e il profondo disagio esistenziale generato dalla proibizione della processione», così non si può dire di Giovanni Verga che – a giudizio di Emanuele Buttitta e in contrappunto alla posizione maggioritaria dei critici letterari – «non conosce bene ciò di cui parla». Nell’analisi della novella Guerra di santi, «quella descritta da Verga, che molta critica dibattendo sul realismo dello Scrittore dà per cultura popolare, è semplicemente, per forza di cose, la sua visione di essa», ovvero quella di un proprietario terriero, che considera quel mondo elementare e quell’umanità bizzarra e selvatica, e perfino comica. «Nessuno vorrà negare l’aleggiare nel testo di un canzonatorio sorriso di sprezzante commiserazione per questi malriusciti esseri umani».

Non c’è dubbio che la prospettiva ideologica elitaria impediva allo scrittore di Vizzini di capire la cultura di quegli “umili” che osservava dall’alto delle finestre del suo palazzo e riteneva condannati ad una violenza cieca e animalesca. Certo alla sua visione metafisica più che storica sfuggivano la realtà e la verità profonda dei fatti. E tuttavia, anche in Verga come in altri grandi scrittori che si sono confrontati con il mondo popolare, al di là del’equivoco verismo, anzi paradossalmente in forza di quell’ambiguità e di quella ambivalenza che si celano in ogni forma presunta di realismo, la letteratura rovescia l’ideologia, quando la rappresentazione lascia spazio all’epifania della contraddizione interna, all’invenzione artistica che destabilizza le stesse intenzioni dell’autore, alla esperienza emozionale che nessuno studio sociale, per quanto analitico e scientificamente persuasivo, può offrire.

Il pessimismo cosmico di Leopardi non ha certo prodotto in noi sconforto né prostrazione ma, al contrario, ci ha fatto amare ancor più la vita nel ricercare il senso del nostro stare nel mondo. Così, le opere di Salgari – come ha annotato Antonino Buttitta – che dovevano educare la gioventù dell’Italia fascista all’audacia e alla forza «per dimostrare le qualità di una razza superiore», in realtà insegnarono ai giovani lettori degli anni Trenta che «i percorsi imprevisti della nostra immaginazione erano le concrete utopie che fondavano la nostra vita». Se, dunque, la letteratura è artificio e menzogna, dal momento che il suo linguaggio si risolve nel paradigma della metafora che dice qualcosa per dirne un’altra, le verità più radicali sul «legno storto degli uomini» sono da ricercare nelle pagine di quegli scrittori che riescono ancora a  parlarci  di «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Da qui, dalle lacune della storia, dalla nostalgia delle assenze e dal mito negato delle utopie, attinge significativa rilevanza il contributo che gli scrittori, al di là delle loro personali dichiarazioni di ordine morale e politico, suggeriscono all’attenzione dell’antropologia. Tocca agli antropologi rileggerne le pagine e raccoglierne il senso. Antonino ed Emanuele Buttitta, nel libro progettato e scritto insieme in consonanza di pensiero e di lessico familiare, hanno in tutta evidenza riconosciuto le virtualità antropologiche della letteratura e ne hanno restituito il valore di nobile testimonianza dell’umano.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. La sua ultima pubblicazione è la cura di un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (2015).

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