Ci sono libri che irrompono nel mercato editoriale con sorprendente originalità, con inusitata freschezza, sfuggendo alle categorie dei generi e alle convenzioni dei canoni, pur attraversandoli per tradirli e rovesciarli. Il volume di Franco Ferrarotti, Lezioni dei corsi del 1993 e 1994 (a cura di M. I. Macioti, Guida Editore, Napoli 2020) è (o vuole essere) un manuale di sociologia piuttosto inconsueto perché, diversamente da come avviene nei testi universitari, qui i concetti e i metodi della disciplina non prendono l’aspetto del trattato ma sono illustrati in una forma narrativa ricca di molte digressioni storiche e di attualità. Si tratta della trascrizione delle lezioni che Franco Ferrarotti tenne nell’anno accademico 1993-94, durante le quali, pur seguendo coerentemente lo svolgimento del tema, era solito divagare prendendo spunto da un autore citato, dall’interruzione da parte di uno studente, da ricordi personali. Come scrive la curatrice del libro, nonché collaboratrice del professore, Maria I. Macioti, «Ferrarotti non faceva e non fa mai un discorso semplice e lineare, dritto tra i due punti a e b. No. Prevede svolte, salite e discese; e poi magari ancora qualche deviazione prima di riprendere la strada maestra, dopo un ritorno verso la base di partenza. Percorsi ricchi ma non sempre prevedibili in anticipo, poiché va avanti per associazione di idee».
Il testo trascritto non è integrale, perché per svariati motivi (il più banale è la mancata registrazione di un intervento causata dalla lontananza del microfono), qualcosa è saltato, le numerose citazioni di Ferrarotti sono sempre senza riferimento bibliografico, mancano anche discussioni che sono state certamente svolte durante le lezioni e che nel libro sono solo indicate e non riportate. Per renderlo utilizzabile, sia in fase editoriale, sia come manuale per studenti, è stato necessario, quindi, corredarlo da ampie note a piè di pagina. A queste ha pensato la curatrice Macioti che ha steso chiose molto puntuali, illustrando i temi accennati da Ferrarotti e spiegando chi sono le persone e le opere citate dal professore che parla a braccio.
La volontà di Ferrarotti è quella di trasformare le lezioni frontali ex cathedra in seminari, al modo inglese, americano e francese; il suo, tuttavia, è un nobile tentativo che non può riuscire in pieno, perché le aule delle università italiane sono affollate da decine di studenti, diversamente da quanto avviene all’estero. Per lo stesso motivo è difficile anche organizzare e svolgere quelle ricerche sul campo che sono fondamentali per una disciplina come la sociologia.
Ferrarotti inizia le sue lezioni prendendo gli argomenti alla larga: per prima cosa, infatti, chiede agli studenti se sanno cos’è il “circolo ermeneutico”. Le risposte che ne riceve e i suoi chiarimenti sono importanti per impostare le regole del dialogo e per chiarire il rapporto da instaurare tra professore e allievi. Anche il successivo argomento, il problema della obbiettività delle scienze, è una premessa propedeutica ed essenziale nell’affrontare qualsiasi discorso sociologico. Dopo aver ricordato la teoria della relatività di Einstein ed averla estesa alla conoscenza umana, il professore afferma, con ricchezza di argomentazioni, che nessuna scienza è esatta e nessuna loro ipotesi è eterna e che tutto è probabile ma non necessario. Ne deriva che tutte le teorie scientifiche non sono altro che racconti, anzi “discorsi”. È questo uno dei suggestivi modi che il sociologo usa per illustrare i concetti con cui affrontare lo studio della società. Non spiegazioni fondate su teorie, ma discorsi, racconti perché sono sempre provvisori e possono essere cambiati man mano che aumentano le nostre conoscenze.
Le analisi e le spiegazioni che si possono dare sulle società appartengono ad uno di tre possibili tipi di discorso: c’è quello dogmatico e religioso, che ammette una sola verità assoluta che non può essere né discussa né modificata; c’è poi quello poetico o mitico, «che è in verità molto godibile, ma non raggiunge risultati». Per esemplificare questo tipo di discorso Ferrarotti ricorre all’Infinito del Leopardi: il lettore rivive, leggendo i versi, quel godimento estetico ma non sarà mai capace di ricreare momenti simili, perché non ci sono modi da apprendere e mezzi da acquisire per diventare poeta. C’è, infine, il discorso scientifico che ha la caratteristica di essere controllabile sia nel metodo della ricerca e dell’analisi, sia nei risultati, che possono essere, quindi, confutati e superati o, secondo il linguaggio di Popper, falsificati. E così, dopo un lungo giro argomentativo, si torna alla relatività di Einstein.
Con lo stesso piglio discorsivo sono svolte tutte le successive lezioni in cui si presentano altri concetti della sociologia, a cominciare dallo stesso termine di concetto, e poi quelli di ricerca sul campo, di analisi qualitativa e quantitativa, ecc.; si fa anche la differenza tra filosofia e sociologia, la prima è quella che dà l’orientamento ma che ha il difetto di restare immobile come un blocco roccioso («come una statua marmorea», dice Ferrarotti) e per tal motivo si può lavorare come filosofi rimanendo a casa, chiusi nel proprio studio, mentre la seconda ha bisogno di verificare “sul campo” i problemi posti dalla prima. Su questo argomento il sociologo torna più volte, spiegando che mentre la filosofia presenta i suoi risultati come un gruppo compatto e sistematico, il sociologo frammenta questo gruppo, lo disarticola per poter studiare meglio ogni singolo pezzo e metterlo a confronto con la realtà quotidiana. Da qui la necessità del lavoro sul campo che consente di passare dai concetti filosofici ai concetti operativi.
Dopo aver sgombrato il terreno teorico e metodologico da eventuali ambiguità ed equivoci terminologici, Ferrarotti comincia ad individuare metodi ed oggetti della disciplina. Il primo intervento riguarda il concetto di “modello” e in particolar modo il “modello di società”. I modelli, rispetto alla teoria che è sempre “necessitata”, sono delle costruzioni arbitrarie, ideali e analitiche, cioè astratte, e non hanno storia, ma costituiscono un valido punto di partenza per analizzare la realtà sociale.
È questo uno di quei momenti in cui Ferrarotti, mostrando una straordinaria capacità didattica, usa immagini tratte dalla sua fantasia e dalla sua cultura estremamente efficaci; per parlare dei modelli ricorre anche ad esperienze quotidiane in possesso di tutti. Il primo modello di società, quello più basso, è così paragonato a quel diffuso souvenir che si trova su tutte le bancarelle delle località turistiche costituito da una palla di vetro dentro la quale c’è l’immagine del monumento tipico del luogo e che si riempie di un pulviscolo bianco, a mo’ di nevicata, se si agita e si capovolge più volte. Questo primo modello di società è immaginato come una sfera dentro la quale tutto avviene per casualità pura, per “ingenuità”, è il mondo del cosiddetto “senso comune”.
Il secondo modello riguarda la società stratificata in classi sociali. Per rendere chiaro il concetto di “stratificazione sociale”, Ferrarotti riprende l’antica parabola con la quale, secondo la leggenda, Menenio Agrippa convinse la plebe romana a recedere dalla secessione. Quella del patrizio romano, tuttavia, fa osservare il sociologo, è una giustificazione poco appropriata perché il paragone tra corpo della società e corpo umano non regge, è arbitrario. Intanto, però, il raccontino ha dato un’idea, seppure approssimativa, di cosa è la stratificazione delle società umane.
Il terzo modello è quello che vede la società simile ad un campo di battaglia in cui tutti lottano per «accaparrarsi quel poco che c’è»; esso è anche il modello della società in cui prevale la lotta di classe. La stessa immagine del campo di battaglia è piuttosto icastica e rimane ben impressa nella mente. Nelle pagine successive tornerà a parlare dei modelli della società, precisando, ancora con immagini geometriche, il secondo e il terzo che delinea, rispettivamente, come una piramide e come un parallelepipedo.
Ma che cos’è la sociologia? Intanto è rispecchiamento di noi stessi, perché studiando la società cui apparteniamo, riusciamo a capire i nostri comportamenti e prendere atto di chi siamo, ma poi essa prende in esame aspetti molto più ampi e svolge la funzione importantissima di farci comprendere la rete dei rapporti che tengono uniti i vari meccanismi della società. La sociologia non è che la «scienza dell’interconnessione», dice Ferrarotti, ma per capire meglio questa sua caratteristica diventa essenziale la ricerca empirica:
«La ricerca empirica … illumina la realtà … ci aiuta … a collegare aspetti che sembrano lontani. Per esempio, collegare un aspetto puramente tecnico a un aspetto politico, a un aspetto culturale, a un aspetto genericamente sociale … In questo senso è corretto dire che la sociologia non è tanto la scienza della società … è la scienza dell’interconnessione sociale».
A ciò si è potuto giungere dopo la formazione della società industriale che, non accettando più un pensiero filosofico astratto ed essenzialista, ebbe bisogno di «fondare la razionalità sull’agire umano». Fu allora che Comte e Spencer disarticolarono i sistemi filosofici mettendo a confronto i loro singoli elementi costitutivi con quei frammenti di realtà in cui trovano corrispondenza; a loro volta questi frammenti corrispondenti possono essere quantificati e trasformati, grazie ad un preciso calcolo matematico, in “concetti operativi”. La base della disciplina sociologica sta proprio in questa transizione dai concetti filosofici ai concetti operativi.
Ma ciò non basta, occorre, dopo che sono state scientificamente chiarite le relazioni e le connessioni sociali, che tutto venga condiviso; è necessario pertanto passare dal «piano analitico sistematico al piano storico specifico», cioè dalla descrizione, dal racconto mitico di un fenomeno al racconto costruito su dati empirici e “casuali”, storici. Nella spiegazione di come si passi da un piano all’altro emergono il vasto patrimonio dottrinale di Ferrarotti e la sua capacità di affabulazione: disinvoltamente egli passa dall’analisi della favola di Cappuccetto Rosso all’esperienza quotidiana degli studenti che da casa si recano all’università, dal naso di Cleopatra alla casualità della storia, dai Pensées di Blaise Pascal al fiore chiamato viola del pensiero. Tutto ciò col rischio di essere dispersivo e di confondere l’uditorio: e difatti, sapendo che ciò poteva succedere, invitava gli studenti a prendere la parola, a chiedere chiarimenti se necessario.
La terza fase del processo conoscitivo della sociologia consiste, quindi, nel passaggio dal senso comune alla scienza. È un passaggio molto difficile perché spesso è ostacolato dal fatto che alla scienza, che è una «certezza relativamente condivisa e passibile di eccezioni in base a nuovi risultati scientifici», si oppongono certezze del tutto refrattarie a qualsiasi compromesso, come sono quelle di natura religiosa. E qui Ferrarotti ricorda la vicenda, che si svolgeva al tempo delle sue lezioni, della guerra di religione tra Bosnia e Serbia, facendoci capire la differenza tra una visione religiosa, che non riesce a trasformarsi senza conflitti cruenti, e una visione scientifica sempre pronta a modificarsi e con guerre che si risolvono solo, osserva ironicamente, con spargimento d’inchiostro. Più oltre il sociologo spiegherà che i conflitti tra visioni del mondo diverse nascono quando il nuovo e il diverso si scontrano con quella massa di tradizioni che egli chiama “costume”:
«Il costume è una realtà molto più lenta nella sua evoluzione e vischiosità, che in qualche modo non è superabile se non sulla base di sforzi, non di dieci anni o mezzo secolo o di un secolo, ma di parecchi secoli».
Da qui partono le digressioni sulla storia d’Italia, nazione incapace di liberarsi dall’ipoteca della Chiesa e, nello stesso tempo, «bloccata da questa incapacità di tradurre in proposta la protesta»; insiste sul fatto che l’Italia non ha mai avuto una rivoluzione, caratterizzandosi come un Paese conservatore, malgrado ci siano stati personaggi rivoluzionari come Giordano Bruno, Carlo Pisacane, Piero Gobetti, che però sono rimasti isolati e barbaramente eliminati.
La situazione dell’Italia gli richiama alla mente quella della Germania: nei due Paesi ci sono basi culturali diverse. I tedeschi posseggono il concetto di Heimat che non si identifica soltanto con i confini territoriali della patria e della nazione ma con tutte le tradizioni che si sono strutturate nel corso dei secoli; il punto di riferimento più importante per gli italiani è invece la famiglia. Da ciò discende il fatto che l’Italia è un Paese conservatore perché la sua base giustificativa etica è di tipo biologico, è di pelle, non è un fatto di idee.
Molte argomentazioni sono dedicate al concetto di “progresso”: dal tardo Ottocento in poi l’idea di progresso ha segnato la nostra storia, non solo quella politica e sociale ma soprattutto quella filosofico-culturale e politica con l’illusione che l’avanzamento della società fosse una linea retta verso l’infinito; Ferrarotti ci ricorda, invece, che il progresso non ha un corso lineare verso il meglio e che non è esente dal creare diseguaglianze, specie in un mondo caratterizzato dal capitalismo che è capace di produrre una grande quantità di beni ma non è in grado di distribuirli equamente. Entra poi nella discussione, protrattasi fino ai nostri giorni, della presunta caduta delle ideologie che ha di fatto eliminato la differenza tra la “destra” e la “sinistra”. Secondo lui, però, non c’è stata la fine delle ideologie, perché anche oggi è possibile tracciare una linea di demarcazione fra “destra” e “sinistra”: in genere chi è di destra è per il quieto vivere, è un conformista, chi è di sinistra cerca sempre il cambiamento, vuole le riforme e non si accontenta della sua presente situazione. Anche la destra, tuttavia, a volte vuole il cambiamento, ma mentre la sinistra quando vuole attuare una trasformazione si richiama sempre alla base, cercando un consenso democratico, la destra mobilita le masse dall’alto.
Un altro tema sociologico importante è quello che riguarda la struttura della società. Questa può essere pensata come un macrosistema che contiene dei sottosistemi, il primo dei quali riguarda il modo in cui la società si riproduce: qui c’è poco da discutere perché la riproduzione avviene in un modo soltanto, quello biologico, senza alternativa, per mezzo della famiglia. C’è poi il sistema economico, senza il quale non ci sarebbe possibilità di sussistenza; il terzo elemento è rappresentato dall’eredità culturale (che egli chiama “costume”), cioè il patrimonio di conoscenze e di usanze che si tramandano, pur modificandosi nel tempo, da una generazione all’altra; c’è, infine, l’organizzazione dello Stato (istituzioni, burocrazia, ecc.). Questo macrosistema è soggetto a disfunzioni piuttosto gravi, perché i sottosistemi da cui è costituito si evolvono a velocità diverse, creando contraddizioni e ritardi.
Questa parte del volume, relativa ai concetti e ai metodi fondamentali della sociologia, porge al professore molte occasioni di affrontare temi di attualità che a volte gli servono come esempi, e che molto spesso sono riportati per associazione di idee e trascinati dal suo flusso verbale a prescindere dall’argomento che precedentemente stava trattando, al quale è sempre pronto a tornare con estrema lucidità. Mi piace qui, piuttosto che seguire l’itinerario didattico della disciplina, ricordare alcuni di questi temi toccati en passant e che Ferrarotti riesce a condensare in una frase che come una folgore chiarisce in un attimo cose per spiegare le quali altri scrivono dei lunghi saggi.
Così, per dirci come può nascere una dittatura gli basta parlare dell’autorità, che fa crescere, e del potere che schiaccia: i due elementi uniti danno vita alla dittatura. Anche per spiegare cos’è la modernità si serve di un concetto molto semplice, al di là di tutte le discussioni e le diatribe dell’ultimo secolo: non si diventa moderni dopo aver scoperto l’America, né dopo la fissione dell’atomo, si è moderni quando si acquista la capacità di programmare il futuro, quando, cioè, ci allontaniamo dalla natura, dalle sue leggi, dalla sua forza evolutiva e quando, contemporaneamente, ci separiamo da qualsiasi trascendenza e affidiamo la nostra vita futura all’intelligenza e alle capacità lavorative dell’uomo.
Pagine piuttosto simpatiche per il modo con cui gli argomenti sono presentati riguardano la classe dirigente e poi i vari tipi di rivoluzione politica conosciuti, compresa la Rivoluzione di Ottobre con riferimento soprattutto al personaggio di Lenin. Il suo giudizio sulla Rivoluzione russa è negativo perché si limitò a cambiare solo il sistema economico ma non riuscì a scalfire il «vecchio stile di vita», il “costume”, mentre fu una vera rivoluzione, nonostante i suoi limiti, quella francese del 1789, preparata da un lungo lavoro intellettuale e accompagnata da una critica militante. Dalle considerazioni sui movimenti rivoluzionari emerge la sua convinzione che malgrado tutti gli sforzi non è possibile creare una “società giusta”:
«Non avremo mai una società che in qualche modo abbia risolto i problemi tutti. Questo è il sogno degli illuministi, il sogno dei grandi rivoluzionari, è il sogno di Lenin da una parte e di Simone Weil dall’altra … È il sogno di costruire una società in cui il bambino non abbia più fame, in cui la gente … [non] si ammazzi per strada. No, questo non è possibile».
È possibile invece «la riduzione delle sofferenze stupide, delle sofferenze non necessarie. La riduzione attraverso una funzionalizzazione delle istituzioni di quelle che sono smaccate, terribili ingiustizie».
Le ultime tre lezioni, tenute nei primi mesi del 1994, sono dedicate all’industrializzazione e alla società industriale; la discussione si apre con le seguenti avvertenze del professore:
«Facciamo qualche considerazione generale su questo nostro tema, che consiste nell’esplorare le caratteristiche essenziali del processo di industrializzazione come processo globale, sempre materialmente collegato con fatti di cronaca. E infatti il nostro tentativo consiste nel risalire costantemente dalle schegge della cronaca, che poi sono le schegge della vita, ai significati generali».
Come si vede, il metodo di lavoro di Ferrarotti privilegia sempre la ricerca sul campo, il partire dalle schegge di vita per risalire ad una visione generale della realtà, percorrere il tragitto che dal particolare va verso l’universale. Anche qui ci sono molte digressioni, la più lunga delle quali è quella in cui tratta il peso che Benedetto Croce e Giovanni Gentile ebbero nella storia culturale e politica del Novecento italiano. Secondo il suo parere, Croce non è stato un grande filosofo, mentre Gentile aveva un forte temperamento filosofico che tuttavia lo portò ad esiti piuttosto astratti, di idealismo estremo (la realtà e la società esistono perché l’Io le pensa, non perché esistano di per sé). Tutta la digressione sui due filosofi italiani gli serve poi per illustrare la figura dell’intellettuale italiano, erede del cortigiano rinascimentale, sempre prono ai voleri del principe e del potere, con qualche eccezione (Bruno, Pisacane, Gobetti e, in epoca contemporanea, Pasolini).
La sua critica nei confronti della cultura da torre d’avorio è dissacratoria; ad essa contrappone una cultura aperta a nuove esperienze, ai confronti con altre culture, allo scambio che ritiene essenziale: anche il matrimonio, oltre ad avere vincoli affettivi e legali, se vuole essere una unione riuscita deve poggiare su una importante base di comunicazione e di scambio culturale.
Nella successiva lezione, Ferrarotti affronta la questione dei processi di industrializzazione, il cui funzionamento e la cui costituzione si possono capire solo usando i parametri cui aveva accennato in una lezione precedente:
«… se volete una società moderna con un relativo pieno impiego, con una relativa distribuzione del reddito, con una conoscenza delle parole del potere, [con la possibilità di] capire di che si tratta e ribatterle, quindi intervenire, se volete questo, mi dispiace ma dovete passare per la porta sociologica».
Si sofferma con una certa ampiezza sulla industrializzazione in Italia che è frutto dell’iniziativa di singole personalità a capo di famiglie intraprendenti. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento emergono coloro che sono stati chiamati “capitani d’industria” che dettero vita ad attività moderne che ingrandendosi negli anni successivi hanno costituito l’ossatura dell’industria italiana: Agnelli, Pirelli, Olivetti, Ferruzzi, Falk. La vera forza dell’Italia industriale, tuttavia, non sta in queste grandi famiglie ma nelle innumerevoli piccole e medie attività aziendale che da Nord a Sud hanno fatto sì che la Nazione diventasse uno dei Paesi più industrializzati del mondo.
Per Ferrarotti la famiglia italiana è proprio il perno su cui girano l’economia e lo “stile di vita”. Arriva a dire che la famiglia in Italia è più forte perché la società è debole: «I servizi sociali sono così deboli che se i famigliari non portano da mangiare al malato, questo crepa di fame». Nella società industrializzata non tutto, però, è perfetto, perché le persone anziane e i bambini non essendo produttori di beni non godono di particolare attenzione. I bambini in qualche modo si salvano perché sono considerati soggetti di consumo (basti vedere la loro presenza nella pubblicità commerciale televisiva), ma i vecchi sono senza speranza. Eppure, anche loro trovano qualche arma di difesa nel miglioramento delle condizioni di vita e nell’assistenza sanitaria e sociale: «Uno dei paradossi della società industriale, dove per i vecchi non c’è speranza, è che i vecchi vivono più a lungo».
A conclusione di questa presentazione credo sia utile ritornare all’inizio del volume e precisamente alle Osservazioni introduttive sulle lezioni universitarie stese dallo stesso Ferrarotti, perché in esse si trova in sintesi il concetto fondamentale su cui si basa l’insegnamento del sociologo:
«È di grande conforto, nella situazione di separatezza in cui ancora oggi si trova la sociologia, prendere atto che proprio in questo stato di relativa sconfitta risiede il suo primato. Detto in breve, la sociologia è una scienza d’osservazione, concettualmente orientata, che ha l’ambizione di formare i suoi concetti non per via essenzialistica, puramente deduttiva, bensì dal basso, superando il dualismo platonico che contrappone l’epistéme alla doxa, la scienza pura alle labili opinioni dei più, dei pollòi».
C’è in queste righe l’affermazione forte e convinta che la sociologia non è speculazione pura, ma scienza empirica nel senso che guarda ai fatti dell’agire umano da cui, grazie alle ipotesi iniziali, riesce a ricavare il significato e le finalità. Come ribadisce a proposito della discussione sul tema della società industriale e della individuazione delle sue caratteristiche: «il lavoro del sociologo consiste nel tentativo di risalire dalle schegge della cronaca alle leggi».
Qualcuno dei suoi recensori ha detto che i saggi di Ferrarotti si leggono con lo stesso piacere con cui si beve un bicchiere di acqua fresca in un’afosa giornata estiva: mi sembra che la similitudine sia molto appropriata, perché in effetti a leggere la trascrizione delle sue lezioni non sembra di avere sotto gli occhi un manuale scolastico, che è sempre un po’ noioso; si ha, invece, l’impressione di seguire una storia seria sì, ma raccontata con spirito critico, con ironia spesso, con un piglio a volte dissacratorio e tendente ad alleggerire la prosopopea di opere e persone.
A volte è anche ripetitivo: alcuni temi ritornano con le stesse argomentazioni nel corso delle lezioni perché non perde l’occasione di ribadirli con maggiore chiarezza; non c’è nessuna presenza di formalità e di formalismo nelle sue esposizioni, è pronto ad interrompere il flusso dei suoi pensieri se uno studente fa una domanda, anche inopportuna, e prova piacere se la richiesta gli consente di chiarire meglio il concetto che stava spiegando; non se la prende se qualcuno durante la lezione si distrae parlando col vicino di banco.
Oltre alla fluente esposizione degli argomenti, Ferrarotti dimostra di possedere una grande capacità di rappresentarli quasi in maniera teatrale. I personaggi, i concetti e le vicende dei suoi racconti sono presentati con grande vivezza, con una propensione all’ipotiposi notevole. Si vedano, per esempio, le pagine che riguardano la morte di Socrate, in cui spiega che il fine dell’uomo è il miglioramento del Sé (con la morte, l’anima si libera dal corpo): è il primo livello del “racconto”, quello dogmatico, che conduce all’identità religiosa, che gli dà l’opportunità di fare un richiamo alla guerra che proprio in quei giorni era in corso nei Paesi della ex Iugoslavia, dove oltre ai problemi economici e politici c’era anche quello drammatico della questione religiosa.
Dissacratorie e divertenti sono le pagine in cui illustra come la sociologia per spezzare e ridurre in frammenti i sistemi filosofici usi il martello pneumatico di cui si diverte a riprodurre il rumore. E poi c’è la sua grande capacità di stupirsi di fronte alla forza vitale della natura, come quando riporta l’episodio cronachistico del neonato buttato in un cassonetto della spazzatura e trovato ancora vivo dopo molte ore dall’abbandono. E infine la serena malinconia con cui, in una delle sue digressioni, affronta i problemi che riguardano la bellezza, la vecchiaia e la giovinezza. E ultima cosa, ma non la meno importante, la sua capacità di parlare di eventi storici, spesso drammatici o tragici, senza che si lasci sfuggire un giudizio del tutto favorevole o del tutto contrario, senza per questo risultare conformista: capacità che mi sembra di poter attribuire alla lunga frequentazione che Ferrarotti ebbe con Adriano Olivetti.
All’inizio ho parlato di un manuale, seppure inconsueto, di sociologia, ma il libro di Ferrarotti è più di un testo base in cui si trovano le nozioni fondamentali della sociologia, tanto che spesso, leggendolo, ci si dimentica della disciplina e dei suoi concetti fondamentali per seguire affascinati l’affabulazione del professore che, senza farlo pesare, passa da un ricordo personale ad una citazione storica, da un evento di attualità all’analisi della favola di Cappuccetto Rosso e così via. È un lettura che affascina e che è da proporre non tanto a chi deve sostenere un esame universitario, ma soprattutto a chi volesse informarsi sulla disciplina per ampliare le proprie conoscenze e cercare di capire come funzioni e a che cosa serva la sociologia.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.
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