«Io non ho la presunzione di paragonare la mia impresa a quella di quei grandi uomini, però vi si rassomiglia per una parte; giacché sarà oggetto della universale disapprovazione se mi fallisce, e dell’ammirazione di tutti se mi riesce. […] io riannodo intorno al mio stendardo tutti gli affetti, tutte le speranze della rivoluzione italiana. Tutti i dolori e tutte le miserie dell’Italia combattono con me. Non ho che una parola: se io non riesco, sprezzo altamente il volgo ignorante che mi condannerà; se riesco farò ben poco caso dei suoi applausi. Tutta la mia ricompensa la troverò nel fondo della mia coscienza, e nell’animo dei cari e generosi amici, che mi hanno prestato il loro concorso, e che hanno divisi i miei palpiti e le mie speranze. Che se il nostro sacrifizio non porterà alcun vantaggio all’Italia, sarà per essa almeno una gloria l’aver generato figli, che volenterosi s’immolarono pel suo avvenire».
Così scriveva nel giugno 1857 Carlo Pisacane, rivoluzionario napoletano, mazziniano dissidente di idee socialiste, prima di dare inizio da Genova alla impresa che lo portò a Sapri e si concluse amaramente nel Cilento qualche settimana dopo. Lo scopo era quello di accendere la miccia nella polveriera del Meridione d’Italia per arrivare a un movimento tendente all’unificazione nazionale italiana.
Le stesse frasi avrebbe potuto scrivere il corleonese Francesco Bentivegna, di nobili natali, seguace di Mazzini, promotore dell’insurrezione del novembre 1856 nei comuni rurali a sud di Palermo, che aveva gli stessi obiettivi dell’impresa di Pisacane e si concluse con l’arresto e la fucilazione dello stesso Bentivegna. Molto simili a un testamento politico, le parole rivolte da quest’ultimo alla madre Teresa Cordova nell’ultimo incontro prima della morte: «confòrtati mia cara madre […] io muoio per la libertà del popolo oppresso, il mio sangue germoglierà e farà libero il popolo oppresso, confòrtati e spera nell’avvenire».
Il lettore troverà queste frasi nel memoriale di don Spiridione Franco che alla rivolta del 1856 partecipò in prima fila, insieme ai fratelli Francesco e Stefano (“Nuzzo”) Bentivegna e al loro parente barone Nicola Di Marco. Poco si sa della vita dell’autore, all’anagrafe Paolino Spiridione Franco, nato a Mezzojuso il 6 marzo 1828, da famiglia benestante, e indicato nelle carte giudiziarie come possidente, fratello di Agostino, vescovo cattolico di rito ortodosso e di Nicolò, futuro addetto alla Biblioteca vaticana. Attivo nella rivoluzione antiborbonica del 1848-49, nei primi giorni della quale conobbe i fratelli Bentivegna, e nella lotta clandestina degli anni successivi, prenderà di nuovo le armi nel 1860 con i picciotti che seguirono i Mille di Garibaldi fino alla battaglia del Volturno, dove fu ferito, nominato capitano dell’Esercito meridionale. Sarebbe morto a Roma il 2 gennaio 1914.
Alla fine dell’Ottocento, a più di quarant’anni dai fatti, Spiridione (nome di origine orientale come la popolazione arbëreshë del suo paese, giunta in Sicilia nel ’500) decide di scrivere della fallita rivoluzione del novembre 1856 e dà alle stampe a Roma questo memoriale che intesta a Bentivegna e al suo martirio. Dalla sua infiammata dedica ai giovani italiani emerge intatto lo spirito patriottico che animò in gioventù l’autore: auspica infatti che dalla lettura delle vicende che costarono a lui e ai suoi sodali dolore e sofferenze le nuove generazioni vengano spinte a impegnarsi perché le province ancora «irredente» (leggi Trentino e Venezia Giulia) vengano sottratte al dominio dell’Impero austro-ungarico. Auspicio realizzatosi poi nell’entusiasmo con cui molti giovani sostennero l’intervento italiano nella prima guerra mondiale, a cui come è noto parteciparono migliaia di volontari convinti che quella significasse per l’Italia la quarta guerra d’indipendenza dal dominio straniero.
Nella stessa dedica il Nostro dichiara di non avere finalità letterarie nello scrivere, tanto più che «la rivoluzione ha interrotto i suoi studi, né più gli permise di riprenderli». Da un lato la scrittura di Franco non sempre risponde agli standard grammaticali, dall’altro qui e là emerge qualche elemento di latinorum e qualche richiamo, per altro non sempre pertinente, alla cultura greco-latina. In effetti Franco, come del resto i fratelli che pure cita nel memoriale, ha fatto da ragazzo studi classici nel seminario greco di Palermo, di cui era rettore papàs Andrea Cuccia.
Dopo aver rievocato la partecipazione da protagonista di Francesco Bentivegna al moto anti-borbonico del 1848, alla fine del quale per i suoi meriti di combattente e di leader molto apprezzato era stato eletto rappresentante della città di Corleone al Parlamento siciliano, Franco spiega come dopo la repressione di quel moto il patriota corleonese non si sia mai rassegnato e abbia continuato a cospirare partecipando allo sfortunato tentativo di Nicolò Garzilli (gennaio 1850). Il mazziniano corleonese si pose «con tenace concetto», senza sosta e senza paura, a tessere una fitta rete cospirativa, ricostruita in modo egregio dallo storico Pippo Oddo nel libro L’utopia della libertà (2006), che comprendeva patrioti di Palermo e della provincia. Gli esponenti di questa rete a loro volta erano in costante corrispondenza con gli esuli democratici e mazziniani di Genova e di Malta, che seguivano con grande attenzione le vicende dell’Isola, ritenuta non a torto una delle «polveriere» da cui poteva partire la rivoluzione per l’unità nazionale.
Giunto all’autunno 1856, la narrazione di Spiridione Franco segue giorno per giorno, quasi ora per ora, l’impresa rivoluzionaria di Bentivegna, del suo «stato maggiore selvaggio» e dei suoi seguaci, dando conto dei movimenti dei vari attori e del loro antagonista, il direttore di polizia Salvatore Maniscalco, fortemente intenzionato ad impedire in qualunque modo la ripresa dell’iniziativa antigovernativa. Dopo vari incontri, viene deciso, in stretta intesa con il democratico Salvatore Spinuzza di Cefalù, di dare inizio all’insurrezione a partire da Mezzojuso, comune lontano dal capoluogo, posto in posizione strategica utile ad osservare gli spostamenti a valle, comune dove il barone popolare ha parenti, amici e proprietà terriere.
Il paese è limitrofo a Corleone e a borghi isolati come Campofelice di Fitalia e Godrano, al Bosco di Ficuzza, molto adatto alle latitanze, oltre che a paesi come Villafrati (che l’autore si ostina a chiamare Villafrate forse sul calco di Villabate), Ciminna, comune d’origine del patriota e futuro parlamentare Luigi La Porta, Ventimiglia di Sicilia, Vicari. Tutti centri che vantano una lunga tradizione ribellistica, a loro volta vicini a Trabia, paese natale di Giuseppe La Masa, altro patriota di forte impegno anti-borbonico e futuro generale delle camicie rosse. Altri collegamenti erano in vigore con Bagheria, Prizzi, Alia, Roccapalumba, ecc. In sostanza, grazie alle conoscenze tra cospiratori, si può seguire un’ampia catena rivoluzionaria che unisce il territorio palermitano e corleonese alle cittadine marinare di Termini Imerese e Cefalù. Molti abitanti di questa catena e di questo territorio furono poi mobilitati nella primavera 1860 da La Masa e dai suoi emissari filo-garibaldini.
Ma torniamo al novembre 1856. In effetti, come sarebbe accaduto l’anno seguente a Carlo Pisacane, non tutti i patrioti conosciuti e consultati sono decisi a dar vita all’insurrezione voluta da Bentivegna. Il “Comitato centrale rivoluzionario” di Palermo appare molto scettico sulle possibilità di successo e preferisce rimandare il tutto in attesa che l’iniziativa parta dall’entroterra o che arrivino armi e finanziamenti dagli amici genovesi o maltesi. Lo stesso Franco, che di rivoluzioni se ne intende, fa presente ai sodali il carattere prematuro dell’iniziativa, e pur nutrendo una grande ammirazione per lui, risponde «con una sardonica risata» agli infervorati proclami di Francesco Bentivegna. Questi non ammette però tentennamenti e inviti alla prudenza e dà ugualmente il via al moto insurrezionale. Nel quale si mescolano persone che hanno dimostrato con i fatti una grande fede nell’ideale dell’Italia unita e indipendente e altre che pensano di trarre qualche profitto dal moto, non foss’altro che la paga di quattro tarì al giorno che vengono promessi (e dati) a chi è disponibile a seguire in armi il gruppo promotore.
Non mancano veri e propri banditi come Santo Meli, abituato all’uso delle armi, che contribuisce a modo suo alla rivolta occupando militarmente alcuni paesi (e sarà in seguito fucilato dai garibaldini per altre consimili ribalderie), non mancano «maffiosi» riconosciuti che per motivi loro sono disposti a combattere con il futuro martire. Ma la mescolanza con personaggi dai precedenti penali e conti da saldare con la giustizia – ci insegnano storici come Francesco Benigno – è una costante di ogni insurrezione dell’Ottocento, in Sicilia come nel resto d’Italia e d’Europa. In ogni caso Bentivegna e il suo «stato maggiore» riescono quasi sempre a far rispettare le regole d’ingaggio, che prevedono la assoluta inibizione di ogni appropriazione indebita e di ogni vendetta a fini personali condotta col pretesto dell’amor di patria.
L’assembramento degli insorti all’inizio promette bene, e nella zona coinvolta la «masnada» o «empia setta» attorno al 22 novembre 1856 arriva a contare più di 450 armati. Quella «gente trista e materia a rivoluzione» riesce ad assaltare le catene daziarie e le vetture postali, aprire le carceri per liberarne i detenuti, raccogliere con modi sbrigativi fondi presso gli esattori comunali, a sventolare le bandiere tricolori su palazzi e campanili, a farsi sfamare per le contrade che attraversa, a farsi quasi sempre accogliere con entusiasmo dalle popolazioni.
I problemi nascono quando qualcuno fugge alle maglie della ribellione protestandosi liberale (anzi «lupo di liberalone» come tra il serio e il faceto lo definisce il nostro autore) e, in cambio di ricompense e prebende, va a riferire tutto agli uomini di Ferdinando di Borbone a Palermo, dove invece nessuno scende in piazza o prende le armi per dare vita a un’insorgenza parallela e complementare a quella di Mezzojuso. A questo punto le cose si mettono male e alla vista di migliaia di soldati del Regno delle due Sicilie che si dirigono a marce forzate verso i centri abitati, molti dei rivoltosi capiscono che le forze sono impari e il loro manipolo non potrà mai opporsi alla repressione armata. Cominciano presto le defezioni e molti rimettono i remi in barca, anzi abbandonano la barca prima che affondi, ritornando alle loro abitazioni da dove possono vedere le truppe della repressione che vengono a riprendersi il territorio. Inutilmente il barone mazziniano, un po’ di sua iniziativa, un po’ su consiglio di Spiridione, si reca a Corleone per chiedere aiuto ai cospiratori che lo hanno seguito in precedenza e che lo stimano molto, ma non riesce a smuovere gli animi.
È il momento della delusione e dello scoramento per il gruppo dei patrioti, nascosti nel bosco della Lacca, ricco di castagni, querce, rifugi, che fino ad un certo punto protegge i suoi ospiti. Il barone popolare scioglie le squadre degli insorti lasciando ciascuno libero di fare le sue scelte. Lui e il fratello Stefano si rifugeranno nella natia Corleone cercando ospitalità. Qui, mentre altri li aiutano volentieri, un nobile locale, tale Milone, preferisce acquisire crediti presso le autorità borboniche e va ad informarle che i due fuggiaschi si nascondono nella sua masseria. Sarà facile a questo punto accerchiarli, tanto più che Francesco Bentivegna non riesce più nemmeno a camminare per dei «bobboni» che lo angustiano. Il fratello scappa, ma lui è preso e portato in carcere a Palermo.
Spiridione ci fa seguire le successive tappe del martirio del barone mazziniano, il cui destino è stato già deciso in alto loco: come capo del moto rivoluzionario deve essere punito con la massima severità, con una condanna capitale che scoraggi chi abbia voglia di seguire il suo esempio. Il processo, celebrato con celerità inusitata da un Consiglio di guerra «eretto con forma subitanea» e non da una Corte criminale come previsto dalla legge vigente, si rivelerà una tragica farsa dato che l’imputato è considerato in partenza dal pubblico ministero «un delinquente nato» e i magistrati non vorranno saperne di attendere il responso sui ricorsi presentati e sostenuti con forte passione dall’avvocato Giuseppe Maria Puglia alla Suprema Corte di giustizia.
Dopo la sentenza, il condannato viene portato a Mezzojuso, luogo di innesto del moto rivoluzionario e lì «moschettato» in piazza dall’esercito borbonico e abbandonato in una fossa comune. Verrà riesumato e sepolto con tutti gli onori quattro anni dopo. Nel 1860 infatti i Mille di Garibaldi e i picciotti riusciranno a sconfiggere l’esercito borbonico, cosa che non era stata possibile nel 1856 con il tentativo di Bentivegna e nel 1857 con quello altrettanto generoso di Carlo Pisacane. In pochi anni sono mutati gli equilibri internazionali, il Piemonte ha sconfitto l’Austria con l’alleanza con la Francia nella seconda guerra d’indipendenza, gli inglesi si sono visti rassicurati sulla natura non classista della rivoluzione italiana sotto la guida della dinastia sabauda e del moderato primo ministro conte di Cavour.
La narrazione del Nostro ci fa seguire ovviamente anche il ruolo da lui avuto in queste vicende, sottolineando i momenti in cui Franco ha dato un apporto determinante all’andamento dell’impresa rivoluzionaria, cui ha deciso di partecipare per dedizione alla causa e per ammirazione verso Bentivegna, pur avendo espresso il presentimento che, date le condizioni di partenza, il risultato finale poteva essere solo la galera o la fuga in America. Dopo l’arresto del capo e la resa degli altri comprimari, Spiridione è rimasto per lunghi mesi latitante, travestendosi e nascondendosi in campagna e in città, grazie alla sua conoscenza di uomini e cose, alla destrezza del suo ingegno e al sostegno di numerosi personaggi, tra cui il fratello vescovo. Va infine a consegnarsi direttamente al direttore di polizia Maniscalco quando riesce ad ottenere assicurazioni sulla sua sorte, evitando il rischio della fucilazione o della detenzione nelle tremende fosse di Favignana, dove finirono gli sconfitti della rivolta di Bentivegna e di quella di Pisacane.
Colpisce nel racconto di Spiridione la sua vivacità e il suo senso dell’ironia. Parlando del primo impatto con i patrioti di Fitalia ne illustra le caratteristiche con pochi efficaci tocchi: «tutti uomini bravi e valorosi, non solo di portar via il denaro scortato dalle guardie, ma anche tutto quello che possedeva Ferdinando II al Banco di Londra». Così parlando di quest’ultimo scriverà tutto d’un fiato: «Il Pio Sovrano Ferdinando II come ancora chiamavano alcuni seguaci soddisfatto del sangue di Bentivegna e Spinuzza prese la via della clemenza d’accordo coi suoi sanguinari ministri». Frontale è poi l’attacco ai voltagabbana con cui ha avuto a che fare durante la cospirazione, sottolineando che «molti di coloro che fecero la spia al Governo passato, fingendo di dimenticare il passato […] questi tali sono divenuti Cavalieri, Commendatori, ed hanno occupato posti elevati». Li apostrofa poi direttamente: «Ai gaudenti, ai numerosi commendatori dovrei ricordare quanti sacrifici? quante privazioni nostre?». Un caso fra i tanti, quello di Santo Romano, che «come giunse in paese […] la mattina seguente comparve nella piazza, come i credenti che ritornano dopo aver ricevuto la benedizione Papale». Sembra di sentire la canzone del cantautore Sergio Endrigo che a proposito delle brillanti carriere di una parte di coloro che avevano combattuto nella Resistenza che liberò l’Italia dal fascismo cantava: «Vent’anni son passati ma il nemico è ancora là / Ma i tuoi compagni ormai non ci son più / Son tutti al ministero o alla tivvù» (La ballata dell’ex – 1966).
Nella sua particolareggiata narrazione, Franco ci racconta con una certa dose di autocompiacimento anche le sue trovate furbesche; ad esempio, il Nostro racconta l’alibi che tirò fuori per non apporre la propria firma alla ricevuta di un esproprio a mano armata: «risposi esser dolente non poterlo contentare, avevo perduto l’uso di scrivere il proprio nome, e mi sono allontanato», e più avanti: «l’unico fuoco che abbiamo fatto fu contro un molesto cavallo, in quel movimento rivoluzionario non ancora maturo». Racconta poi come riesce a smascherare un tale Tavolacci che aveva testimoniato contro di lui senza mai averlo incontrato, trovando pure il modo in tribunale di non farlo incolpare per falsa testimonianza!
In tutto lo scritto, Spiridione chiama in causa i testimoni dei fatti e delle sue azioni che sono ancora in vita al momento della stesura e della pubblicazione del memoir, mettendo in nota i loro nomi e cognomi perché chi vuole possa verificare che egli dice la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Come del resto fanno da sempre tutti gli autobiografi che si rispettino.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio
[*] Per gentile autorizzazione dell’editore si pubblica con alcune integrazioni e modifiche il saggio introduttivo di Santo Lombino del volume Francesco Bentivegna. Storia della rivolta del 1856 in Sicilia (I buoni cugini editori, Palermo – Collana Risorgimentalia), in libreria da pochi giorni.
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Santo Lombino, ha insegnato lettere nella scuola media e storia e filosofia nei licei statali, si occupa di scritture autobiografiche, storia e letteratura dell’emigrazione, didattica della storia. Ha presentato al “Premio Pieve-Banca Toscana” Tommaso Bordonaro, autore de La spartenza, ha curato la pubblicazione di memorie e diari di autori popolari. Ha scritto I tempi del luogo (1986); Cercare un altro mondo. L’emigrazione bolognettese e la S. Anthony Society di Garfield (2002); Una lunga passione civile (con G. Nalli, 2004); Cinque generazioni. 1882-2007, il cammino di una comunità (2007). Tra le ultime pubblicazioni: Il grano, l’ulivo e l’ogliastro (2015) e Un paese al crocevia. Storia di Bolognetta (2016). Ha curato recentemente il volume Tutti dicono Spartenza. Scritti su Tommaso Bordonaro (2019). È direttore scientifico del Museo delle Spartenze dell’Area di Rocca Busambra.
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