di Antonella Elisa Castronovo
Nel corso dell’ultimo ventennio le politiche migratorie, i volumi, le caratteristiche e le condizioni d’ingresso degli stranieri hanno acquistato in tutto il mondo una grande rilevanza. La migrazione è divenuta oggetto di un’attenzione quasi ossessiva da parte dei governanti e dell’opinione pubblica non solo per i molteplici paradossi che essa ha contribuito a generare, ma anche perché lo studio delle dinamiche migratorie consente, in “un’ottica rovesciata”, di analizzare le basi dell’integrazione della società (Agamben 1995), di gettare luce sugli aspetti più latenti del funzionamento dell’ordine sociale e di evidenziare il limite dello Stato nazionale (Sayad 1996).
La regolazione dell’ingresso sul territorio nazionale dei cittadini stranieri è frutto della modernità. Se fino agli anni Settanta, in Europa, i movimenti migratori venivano considerati un fattore di crescita economica e, pertanto, veniva esercitato un controllo piuttosto modesto su di essi, successivamente gli spostamenti umani sono diventati «soggetto di preoccupazione politica» (Tapinos 1978: 215), attirando in modo sempre più significativo l’attenzione dei legislatori e degli attori istituzionali. Da questione considerata sostanzialmente economica, l’immigrazione è quindi assurta a snodo cruciale nell’ambito dello scenario politico e decisionale dei differenti Stati, presiedendo ad un passaggio che – per riprendere una efficace espressione – ha visto subentrare ad una «Europa della speranza» una «Europa della paura» (Amato 2013: 9) e che ha portato ad interpretare la mobilità delle donne e degli uomini provenienti dalle aree più povere del mondo come un’emergenza in virtù della quale innalzare nuove barriere.
Storicamente caratterizzata da elevati tassi di emigrazione, l’Italia è entrata nel novero dei Paesi d’immigrazione proprio nel momento in cui gli Stati dell’Europa industrializzata stavano chiudendo le proprie frontiere ai movimenti trasnazionali. Concepite in una fase nella quale l’obiettivo politico principale era quello di «bloccare gli ingressi di nuovi lavoratori o, almeno, di controllarli rendendoli sempre più selettivi» (Calvanese 2000: 192), le misure politiche che la penisola ha adottato per regolamentare la presenza straniera sono state influenzate significativamente dagli orientamenti in atto a livello comunitario, rendendo il Paese particolarmente ricettivo rispetto alle indicazioni delle istituzioni comunitarie in materia di movimenti migratori (Melotti 2004: 134). Ne è derivato un risentimento generalizzato nei confronti degli ingressi dei cittadini migranti che si è ripercosso non soltanto sui provvedimenti normativi in materia di migrazione, ma anche sulla stessa opinione pubblica, sempre più sensibile al tema (Baldwin-Edwards, Schain 1994).
Partendo da tale quadro di riferimento, questo breve studio intende ricostruire le tappe principali ed i momenti topici che hanno segnato il passaggio della penisola da luogo di emigrazioni a meta di immigrazioni. Scopo precipuo è quello di delineare le caratteristiche tipiche del modello migratorio italiano. In linea con tali finalità, il contributo dedicherà particolare centralità al ruolo esercitato sia dal mercato del lavoro, sia dalle politiche migratorie nazionali. In particolare, si dimostrerà come mentre il mercato occupazionale ha favorito un modello di inserimento spontaneo e deregolato dei migranti nel tessuto produttivo nazionale; i governi hanno continuato a regolare il fenomeno adottando dispositivi che hanno viaggiato su un “doppio binario”. Ossia, da un lato hanno inasprito le politiche dell’ammissione, rendendo sempre più difficile l’accesso sul territorio nazionale attraverso canali legali; dall’altro, hanno ostacolato i percorsi di inserimento sociale ed occupazionale della popolazione straniera residente.
Il “paradosso irrisolto” del modello migratorio italiano
L’immigrazione in Italia ha un’origine essenzialmente esogena. Lungi dall’essere riconducibile a scelte politiche esplicite, si è sviluppata «per l’operare di meccanismi autopropulsivi» (Scidà 1993: 21), largamente indipendenti dai tentativi – peraltro assai timidi e densi di effetti perversi (Saraceno, Sartor, Sciortino 2013: 11) – di regolarla.
Le ricerche condotte nei decenni scorsi hanno ben messo in evidenza come il modello nazionale di immigrazione, nonostante l’assenza di programmi di reclutamento attivo sul mercato del lavoro internazionale, si sia caratterizzato fin dalle sue prime fasi storiche per la presenza di individui in particolar modo orientati alla ricerca di un’occupazione (Reyneri 1996: 326-327). Non a caso, a partire dagli anni Settanta, le dinamiche di crescita della popolazione straniera sono state accompagnate da percorsi di inserimento lavorativo tendenzialmente “deistituzionalizzati” (Zanfrini 2014: 99), affidati alla disponibilità dei migranti a ricoprire le posizioni di impiego rifiutate dai locali e alla loro capacità di penetrare svariate nicchie occupazionali del mercato formale e informale. Questo approccio largamente inconsapevole nei confronti delle migrazioni ha avuto ricadute significative sul versante normativo e istituzionale, con una governance che continua a caratterizzarsi ancora oggi «in termini di emergenzialità e provvisorietà, con una politica dei flussi di ingresso basata essenzialmente sulla regolazione ex post piuttosto che su una chiara e stabile strategia che sappia contemporaneamente rispondere ai bisogni del sistema economico nazionale e a quelli delle popolazioni migranti» (Anastasia, Gambuzza, Rasera 2013: 22). Da qui, quello che è stato efficacemente definito come il “paradosso irrisolto” della vicenda migratoria italiana; quel paradosso, cioè, che nasce dal contraddittorio tentativo di conciliare la cultura europea dei diritti umani universali con un governo dei flussi basato sul presupposto della complementarietà tra la forza lavoro straniera e quella autoctona (Zanfrini 2011: 117-122).
Il mercato del lavoro – in quanto luogo prioritario e decisivo del confronto tra i migranti e la società di destinazione (Bonifazi 1997: 171) – costituisce il riferimento dal quale è necessario partire per riflettere tanto sulle logiche sociali e produttive che hanno fatto da sfondo ai processi di incorporazione dei cittadini stranieri all’interno del tessuto societario italiano, quanto sulle ambiguità delle politiche migratorie nazionali ed europee.
La transizione migratoria dell’Italia è avvenuta in coincidenza con un periodo storico segnato da una profonda discontinuità nella struttura produttiva nazionale e da una inversione delle tendenze economiche ed occupazionali che avevano contraddistinto gli anni del cosiddetto “capitalismo misto” (Trento 2012: 75-102). Tra i mutamenti di maggiore rilievo, merita di essere sottolineato con particolare enfasi il processo di riorganizzazione della produzione industriale che ha investito l’area centro-settentrionale del Paese a partire dagli anni Settanta, dando origine al modello di sviluppo della cosiddetta “Terza Italia”. La profonda modificazione degli assetti economici seguita a queste trasformazioni storiche ha avuto implicazioni significative nell’organizzazione complessiva del mercato del lavoro italiano, agendo da richiamo per le migrazioni internazionali. In un contesto che ha posto centralità alla piccola dimensione produttiva e alla flessibilità organizzativa, l’immigrato è infatti apparso la «figura cruciale di una serie di dinamiche delle economie contemporanee che, in carenza di termini più adeguati, vengono definite post-fordiste» (Ambrosini 2009: 20). L’impiego di lavoratori migranti, spesso «senza contratto, mal alloggiati, con poche pretese, invisibili» (Ferrero, Perocco 2011: 15), ha rappresentato una delle risposte più efficaci alla ristrutturazione generale del tessuto produttivo, costituendo una sorta di “valvola di sfogo” – per utilizzare un’espressione coniata già negli anni Ottanta – particolarmente utile ad «accrescere le possibilità di gestione della forza lavoro» (Sala 1980: 22).
I cittadini stranieri si sono inseriti all’interno di un sistema sociale ed economico connotato da alcune storiche fragilità: la scarsa mobilità sociale, l’accentuata asimmetria nella distribuzione del reddito, la trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze, la crisi sempre più evidente del sistema di welfare e di previdenza sociale (Ferrera 2012), l’importante ruolo giocato dal lavoro sommerso. A ciò si aggiungano i condizionamenti strutturali che hanno, più specificatamente, contraddistinto i percorsi di vita e di lavoro dei migranti, marcandone il divario con la popolazione locale: l’assenza di politiche volte a favorire genuini processi di inclusione negli assetti societari ed economici del Paese; la scarsa valorizzazione del capitale culturale e dei titoli professionali; il diffuso inserimento nelle piccole imprese, spesso collocate all’interno di complessi sistemi di decentramento e di subappalto e, pertanto, abituate a godere di un’ampia libertà di licenziamento e a fare uso di contratti di lavoro atipici; la tendenza ad occupare i segmenti più instabili, informali e meno tutelati del mercato del lavoro; infine, l’atteggiamento ambivalente della società italiana, disposta «ad accogliere gli immigrati “perché fanno i lavori che non vogliamo più fare”» (Zanfrini 2014: 99) ma, al tempo stesso, barricata nella difesa di un presunto diritto di prelazione nell’accesso al lavoro e alle altre risorse sociali. Da questo punto di vista, la vicenda migratoria in Italia risulta davvero emblematica. Essa, da una parte, riflette «alcune delle grandi peculiarità e alcune delle grandi trasformazioni del Paese» (Pugliese 2002: 9) e, dall’altra parte, richiama l’attenzione sui processi sociali di costruzione delle differenze e d’attribuzione dei ruoli sociali in base a caratteri ascritti, nel quadro di quel «particolarismo del sistema italiano, costruito in risposta alle domande dei soggetti più forti nell’arena politica» (Reyneri 1996: 344).
Il “doppio binario” delle politiche migratorie italiane
A fronte dell’inserimento dei migranti nei settori di vita e di lavoro, i governi italiani – al di là dei differenti orientamenti politici e programmatici – hanno manifestato negli anni una certa riluttanza nel considerare l’immigrazione una soluzione definitiva, offrendo soluzioni puramente burocratiche ai problemi strutturali posti dagli spostamenti di popolazione (Kaczyński 2006: 18). Concepito come un fenomeno temporaneo, utile a colmare il mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro interno, l’immigrazione ha dunque continuato a configurarsi nella penisola italiana come «un oggetto misterioso del quale viene proclamata ciclicamente la novità e il carattere straordinario» (Colombo, Sciortino 2004: 764). Sotto questa luce, non stupisce che la governance dei movimenti migratori porti, ancora oggi, – e con un anacronismo che potremmo definire paradossale – i segni della trasformazione storica che ha rapidamente investito l’Italia, rendendo in pochi anni il Paese un importante bacino di approdo di cittadini stranieri. Se è vero, infatti, che – come ha ben sostenuto Vincenzo Cesareo – una politica migratoria può essere ritenuta “matura” quando parte dalla consapevolezza del “carattere permanente” della presenza straniera (Cesareo 2000: 18), risulta chiaro come la normativa italiana riassuma una tendenza ben diversa.
L’ordinamento giuridico nazionale in tema di immigrazione appare attualmente connotato da due elementi degni di attenzione. Al progressivo inasprimento delle politiche dell’ammissione ha fatto da pendant l’assenza di dispositivi volti a favorire genuini percorsi di inserimento sociale ed occupazionale della popolazione straniera residente. È proprio in questo senso che si è parlato di una politica italiana del “doppio binario”, indicando con questa espressione la duplice peculiarità del sistema nazionale di governance, ovvero «il fallimento delle politiche degli ingressi e l’assenza di dispositivi volti a stabilizzare ed integrare la popolazione straniera residente» (Colombo, Sciortino 2004: 764).
Sin dalle prime fasi di strutturazione dei movimenti migratori verso la penisola, la preoccupazione principale dei policy makers è stata quella di mettere in atto esplicite misure protezionistiche nei confronti dei lavoratori autoctoni. Al timore sociale diffuso che, in condizioni di scarsità delle risorse occupazionali, l’offerta di manodopera straniera avesse potuto concorrere con quella locale le politiche hanno tentato di dare risposta rendendo sempre più difficile per i lavoratori immigrati l’accesso al mercato del lavoro ufficiale e circoscrivendo il rilascio dei permessi per motivi di lavoro solo alle situazioni di comprovata necessità. In questa direzione, la stessa programmazione degli ingressi – che hanno visto la luce proprio in questi anni – si è configurata più come un “esercizio ritualistico” (Sciortino 1996: 72), che come uno strumento finalizzato ad un genuino reclutamento di forze lavoro dall’estero. Ne è derivata fin dagli anni Ottanta una visione del tutto irrealistica del mercato occupazionale italiano, con effetti estremamente gravosi non soltanto sulla stabilizzazione della irregolarità giuridica come tappa iniziale e necessaria del ciclo migratorio, ma anche sull’inserimento dei migranti nei segmenti più informali dell’economia del Paese.
Da qui il tipico circolo vizioso che ha storicamente contraddistinto la vicenda migratoria dell’Italia: l’assenza di canali legali di ingresso nel mercato del lavoro nazionale ha contribuito a stabilizzare la domanda – già di per sé molto robusta in una struttura produttiva come quella italiana – di impiego informale che ha, a sua volta, richiamato quote sempre più significative di migranti in condizione irregolare, alimentando in un circuito senza fine nuova domanda e nuova offerta (Reyneri 2004). Data l’indipendenza dei movimenti umani dalle politiche di ingresso (Venturini 2001: IX), la tendenza che ha contraddistinto il sistema normativo italiano in tema di immigrazione è stata quella di trascurare gli effetti di richiamo esercitati direttamente o indirettamente dalla struttura produttiva del Paese, deresponsabilizzando in tal modo le istituzioni pubbliche rispetto alla gestione delle presenze straniere. Piuttosto che avviare una riflessione costruttiva su nuovi e più inclusivi modelli di accesso ai sistemi di welfare e al mercato occupazionale, la migrazione internazionale è stata pertanto affrontata alla stregua di un problema di “solidarietà umana” (Sciortino 1996: 72), venendo gestita in termini prevalentemente securitari.
Al pari di quanto si è verificato per altri aspetti dell’economia e della società in Italia, «una sorta di bricolage microsociale ha riempito il vuoto lasciato dalla debolezza o dal malfunzionamento dei dispositivi istituzionali» (Ambrosini 2010: 55). In tal senso, è condivisibile la posizione di coloro che sostengono come il modello italiano dell’immigrazione si sia costruito “dal basso”, attraverso l’azione spontanea dei cittadini stranieri nel mercato del lavoro e nei contesti locali (Calavita 2005); azione alla quale soltanto in un secondo momento, e con un notevole ritardo, è seguito il riconoscimento da parte delle istituzioni pubbliche.
Trovatisi a fare i conti con una situazione sociale particolarmente complessa, che ha visto il mercato del lavoro attrarre più manodopera straniera di quanto la regolazione politica non sia stata disposta ad ammettere, gli attori istituzionali hanno agìto ricorrendo ad una regolamentazione ex post dei movimenti migratori, attraverso il ricorso a sanatorie ciclicamente emanate dai governi (Barbagli, Colombo, Sciortino 2004). Malgrado la frammentarietà politica che ha tradizionalmente connotato la storia parlamentare italiana, è quindi possibile riscontrare una sorprendente continuità nelle politiche migratorie rispetto a questo punto decisivo. Quello che più colpisce nell’utilizzo delle regolarizzazioni da parte dei governi italiani è la loro reiterazione nel tempo: a partire dal 1986 ed in soli venticinque anni sono state approvate ben sette leggi di sanatoria, l’ultima delle quali ha visto la luce nel 2012, ovvero in piena fase di crisi economica. A queste si sono aggiunte altre misure di emersione non dichiarata dei soggiornanti non autorizzati, come i decreti flussi.
In ultima analisi, i dispositivi di sanatoria rappresentano lo strumento principale con il quale sono stati ammessi giuridicamente i lavoratori stranieri all’interno dell’assetto societario italiano: si calcola che due immigrati su tre, fra quelli attualmente in posizione regolare, abbiano ottenuto il permesso di soggiorno dopo aver trascorso un periodo più o meno consistente di irregolarità giuridica (Ambrosini 2013). Questo ricorso diffuso alle misure di regolarizzazione ex post della popolazione straniera se, da una parte, getta luce sulla permanenza di canali irregolari di accesso al territorio nazionale, dall’altra parte è l’indicatore evidente della necessità delle istituzioni di includere formalmente soggetti già inseriti de facto nel tessuto produttivo del Paese. Le continue sanatorie, oltre a costituire la controprova dell’incapacità della dimensione politica di assecondare le esigenze produttive del mercato, rappresentano il limite evidente delle soluzioni emergenziali, continuamente sfidate dai comportamenti effettivi degli attori sociali, periodicamente soggette a revisioni e ad aggiustamenti (Ambrosini 2005: 194). Da questo punto di vista, il sistema italiano di governance dei fenomeni di mobilità umana è modellato sull’intento assicurativo che anima le politiche migratorie degli Stati moderni, stretti in una tensione costante tra il bisogno di regolare gli spostamenti di popolazione e la necessità di rassicurare l’opinione pubblica rispetto alla capacità di tenere sotto controllo una pressione migratoria percepita – e strumentalmente rappresentata – come inarrestabile. Proprio qui sta, secondo alcuni studiosi, la debolezza strutturale dell’attuale regolazione istituzionale dei fenomeni migratori: «assumere quest’obiettivo assicurativo come unico orizzonte condanna le politiche a rinunciare ad un effettivo governo del fenomeno» (Zanfrini 2003: 239).
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
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Antonella Elisa Castronovo, giovane laureata in Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Palermo, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia e Sociologia della Modernità presso l’Università di Pisa e collabora alle attività di indagine del Dipartimento “Culture e Società” della Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale dell’Università di Palermo. Tra i suoi interessi di ricerca, lo studio delle migrazioni nel mercato del lavoro italiano e l’analisi dei processi di rappresentazione politico-mediatica della “vicenda Lampedusa”. Su questi temi ha già pubblicato numerosi saggi in volumi collettanei.
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