Il recente convegno su “L’Impero Genovese”, tenuto a Genova nel gennaio del 2024, ha avuto il merito grandissimo di richiamare l’attenzione sulla storia plurisecolare e gloriosa di una Repubblica marinara ingiustamente dimenticata rispetto a quella di Venezia, che viene studiata in maniera intensiva e costante. Il convegno spiega le ragioni di tale oblio riportandolo in buona parte alla diversa costituzione dei due imperi: quello ligure aveva un carattere “liquido” – come ricorda Alessandro Barbero nelle sue “conclusioni” – mentre quello veneziano, oltre alla fitta rete di rotte marittime, aveva basi territoriali estese. E sembra che la componente territoriale dei domini veneziani abbia determinato in buona parte la rispettiva fortuna nella memoria storica, in quanto i possedimenti coloniali possono scatenare delle guerre che sono sempre eventi storici sconvolgenti, mentre le reti commerciali marittime, aventi caposaldi territoriali limitati soltanto a dei porti, scompaiono nei mari senza lasciare tracce visibili e memorabili.
In ogni modo, dal convegno è emerso il fatto che l’impero genovese non fu soltanto “liquido”, ma ebbe anche delle componenti “concrete” o territoriali, come l’intera Corsica e una parte della Sardegna, oltre alla stessa Liguria. Comunque è anche vero che le vie del mare portarono Genova addirittura ad uscire dal Mediterraneo ed essere presenti anche nel Ponto, cioè nel Mar Nero, nella Crimea e nella Gazaria, nonché nell’Atlantico specialmente nelle Fiandre e anche in Inghilterra, in terre che non costituirono mai delle colonie genovesi, ma solo dei partners di intensi rapporti economici e finanziari. Insomma la presenza dell’Impero Genovese era alquanto diversificata, ché se nella Corsica e nella Sardegna si realizzò come dominio territoriale, nella Gazaria e nel Nord Africa si raffermò in centri portuali, con fortificazioni e con l’insediamento in alcuni quartieri cittadini, ma senza spingersi mai in conquiste dell’entroterra. Il commercio fu il fulcro del successo genovese e a sostenerlo nacquero istituzioni bancarie come quella di San Giorgio che per vari secoli estese i suoi tentacoli e le sue filiali sul Mediterraneo e su gran parte del mondo allora conosciuto.
Il Convegno con le sue quindici relazioni ha toccato numerosi argomenti che, distribuiti su vari raggi, hanno illustrato in modo egregio le dinamiche della formazione e del mantenimento di questo impero marittimo. I relatori erano tutti storici, quindi attenti agli aspetti commerciali, politici e amministrativi della Repubblica genovese, e nessuno di loro si impegnato a considerare l’aspetto letterario dove la presenza di Genova offre abbondanti materiali di interesse, e non ci riferiamo tanto alla produzione letteraria locale – fin dal Medioevo Genova ebbe dei trovatori quali Bonifacio Calvo e Luchetto Gattilusio, ma diede il suo meglio nel periodo del Cinque/Seicento con autori come Gaspare Murtola, Giovanni Vincenzo Imperiali, Anton Giulio Brignole Sale e vari altri, ed ebbe anche umanisti del livello di Nani Mirabelli – quanto alla letteratura che divulgò un’immagine non benevola dei genovesi. La nazione che sentì la loro presenza in maniera particolarmente intensa fu la Spagna che per lungo tempo dipese dai prestiti della Città Turrita, tanto che non è difficile ricavare un ricco dossier di allusioni alla ricchezza esosa dei banchieri genovesi.
Basti ricordare Francisco de Quevedo, il grande autore barocco spagnolo che scrisse ripetutamente sui genovesi e sul loro potere economico basato sul prestito e sull’usura. Ricordiamo, ad esempio, la sua satira intitolata Poderoso Caballero es don Dinero dove si legge che il danaro:
Nace en las Indias honrado
donde el mundo le acompaña,
viene a morir en España
y es en Génova enterrado.
[Il denaro nasce onorato nelle Indie (cioè nell’America spagnola) dove il mondo le fa compagnia, viene a morire in Spagna, e viene sepolto a Genova]
alludendo al fatto che l’oro spagnolo del Sud America arrivava in Spagna, ma poi finiva nei forzieri dei banchieri genovesi.
La ricchezza di Genova era proverbiale, e ricordiamo fra tante testimonianze un passo dal Sitio de Breda di Calderón de la Barca. Qui il Principe di Polonia, in procinto di incontrare il genovese Ambrogio Spinola, esclama:
¡Felice patria aquella que ha tenido
siempre tan celebrado su trofeo!
¡Felice por sus hijos, su decoro!
[Felice è quella patria che ha sempre celebrato in modo alto i suoi trofei! Felice per i suoi figli e per il suo decoro];
e un soldato, commentando questo elogio, sottovoce sussurra:
Y más feliz por su plata y oro
[E ancora più felice per il suo argento e per il suo oro].
Il tema è ben noto ed è stato ricostruito accuratamente e in modo esaustivo da un grande ispanista della scuola positivista in un intervento che risale ormai a più di cento anni fa. Mi riferisco a Eugenio Mele, Los genoveses pintados por los españoles, nelle pagine della «Revista Castellana» (2 (1916): 133-140).
In effetti, i legami economici tra la Spagna e Genova cominciarono quando i banchieri tedeschi Függer fallirono e i genovesi subentrarono al loro posto. Il loro predominio si fa risalire al 1528, quando Carlo V concesse ad Andrea Doria di occuparsi dei commerci nei domini spagnoli con titoli e diritti pari a quelli degli spagnoli stessi. Questa presenza negli affari spagnoli come finanziatori dello Stato durò fino alla bancarotta della Spagna del 1627.
Ma la consapevolezza della presenza di Genova nell’economia della penisola iberica era ben viva già nel Quattrocento che Eugenio Mele trascura perché la sua attenzione si appunta sugli autori del “Siglo de oro” e sul momento più intenso dei legami finanziari tra Genova e la Corona Spagnola. Nel Trecento e nel Quattrocento la realtà storica era diversa, ed era inevitabile che l’immagine di Genova si proiettasse sul regno aragonese che, come si ricorderà, faceva parte a se stesso prima dell’unificazione con il regno di Castiglia. Il regno d’Aragona, con le sue potenti città marittime di Valencia, Barcellona e le isole Baleari, era impegnato ad espandersi nel Mare Nostrum, in cui i genovesi, i veneziani, i catalani, i valenzani e i turchi si contendevano gli spazi e le rotte. Lo deduciamo dalla letteratura tre e quattrocentesca e in particolare da quella in catalano perché, appunto, rifletteva con maggior immediatezza la percezione e il sentimento nazionale nei riguardi della rivale repubblica genovese.
Il mondo aragonese per i suoi interessi marittimi e commerciali si scontrò spesso con la marina genovese, come prova ad abundantiam la Crònica di Ramón Muntaner, splendido resoconto delle imprese dei catalani nei mari greci e bizantini e del Nord Africa, quasi un preludio alla grande epopea marittima di cui la Spagna sarà protagonista qualche secolo dopo nel più ampio teatro degli oceani con le scoperte del nuovo mondo. La cronaca di Muntaner fu scritta nella prima metà del Trecento, quindi secoli prima del Siglo de oro. Sono molte le occasioni in cui Muntaner conosce da vicino i marinai liguri, e li combatte ed esperimenta la loro tenacia e abilità militari, anche se riesce sempre a vincerli. La Crònica non lascia dubbi sulle dimensioni della presenza genovese nel Mediterraneo e varrebbe la pena esaminare in dettaglio questi riferimenti perché vedremmo le origini del “mito” che lega i genovesi all’idea del danaro. Ma in quest’occasione ci limitiamo ad esaminare un testimone di tale mitologia, e non si tratta di un testimone qualsiasi, bensì del capolavoro della letteratura catalana del Quattrocento, ossia il romanzo Tirant lo Blanch. Tale scelta ha anche un risvolto pratico, cioè la possibilità di consultare il romanzo di Joanot Martorell in traduzione italiana da me curata per la collana “i Millenni” dell’editore Einaudi (Torino, 2013).
Premettiamo qualche ragguaglio sull’autore e sull’opera. Joanot Martorell, valenzano di nascita e di famiglia nobile, scrisse Tirant lo Blanch che terminò poco prima dell’anno della sua morte nel 1465, e il manoscritto fu custodito da un suo creditore, Martí Joan de Galba, il quale lo fece pubblicare molti anni dopo, nel 1490, forse dopo averlo ritoccato, e per questo molti editori pubblicano il romanzo usando il nome dei due supposti autori; ma questa duplice paternità è stata refutata dai più recenti editori, fra i quali primeggia Albert Hauf con la sua edizione (València, 2008).
Il romanzo è diviso in sei parti. La prima narra degli anni formativi del “cavaliere” Tirante. Nato nel Nord della Francia, egli si reca a Londra per partecipare alla giostra da cui esce vincitore dopo aver superato tanti combattimenti e dopo aver appreso l’arte della cavalleria. Nella seconda parte si racconta del suo viaggio alla volta di Rodi per difenderla dagli attacchi turchi. Dopo avere liberato l’isola dall’attacco degli “infedeli” assistiti da una flotta genovese, torna a casa, e sulla via del ritorno, viene richiamato alla corte siciliana dove apprende che l’imperatore di Costantinopoli è assediato da regnanti musulmani e chiede aiuto ai cristiani occidentali. Comincia la terza parte con l’arrivo alla corte di Costantinopoli, dove Tirante si innamora della figlia dell’imperatore, Carmesina, e combatte per difendere l’imperatore e riscuote grandi successi militari. Ma, credendo d’essere tradito dall’amata, torna al campo di battaglia, e al momento di salpare scoppia una tempesta che lo porta in mezzo al mare e lo fa naufragare nelle coste d’Africa. Comincia la quarta parte in cui troviamo che Tirante vive per vari anni nel Nord dell’Africa dove riesce a diventare imperatore del continente africano e a convertire al Cristianesimo tutte le popolazioni indigene che sottomette. Nella quinta parte torna a Costantinopoli e compie molte spedizioni per liberare l’impero dai pericoli posti da nazioni circostanti. Nella capitale improvvisamente muore e quindi non sale al trono per il quale era designato. La finale parte sesta riguarda le sorti dell’impero di Costantinopoli dopo la morte del suo grande paladino, e narra del trasporto della sua salma in Inghilterra e dei suoi funerali.
Il romanzo è ricchissimo di avventure, di ambienti, di guerre, di amori segreti, di letture e di storia, e l’insieme crea un autentico capolavoro, tanto che nel celebre scrutinio dei libri posseduti da Don Quijote, Tirant lo Blanc viene risparmiato dalle fiamme perché, ovviamente, Cervantes lo vedeva come un’opera molto diversa dai libri di cavalleria che avevano fatto perdere la testa all’hidalgo Don Chisciotte. E in effetti il romanzo di Martorell ha molti elementi cavallereschi, ma sono assorbiti in un contesto che ha anche uno sfondo storico, è ricco di personaggi comuni, di storie non inverosimili… insomma è un romanzo che condivide molti tratti con la “novella sentimentale” tipica del Quattrocento europeo. E quando la voga di quel romanzo si spense, il Tirant fu alquanto dimenticato, e però ha avuto un rilancio straordinario negli ultimi decenni, grazie certamente al lavoro filologico di Martín de Riquer e specialmente dall’attenzione che gli ha dedicato Mario Vagas Llosa che lo ha definito come “un romanzo totale” nel senso che contiene in sé molte forme di romanzo. Questo successo è stato coronato da un film e da diversi convegni, traduzioni e numerosi studi critici.
Tutto questo successo giova al nostro argomento perché ripropone con freschezza la fama di cui godevano i genovesi nell’immagine degli aragonesi. Nel Tirante, infatti, troviamo molte menzioni dei genovesi, e cercheremo di raccoglierle in nuclei che servano a metterne in risalto varie qualità: ora l’avarizia, ora l’astuzia, ora l’interesse esclusivo al denaro; e siccome la maggior parte di questi accenni sono generici e si riducono dei veri “pregiudizi” e quindi a delle generalizzazioni dove le presenze “individuali” scompaiono, vedremo anche separatamente un episodio in cui appaiono individui genovesi, e in alcuni casi come alleati e in altri come nemici veri.
Basandoci sul sommario delle parti, è facile intuire che nella prima, tutta ambientata in Inghilterra, non troviamo flotte o marinai per cui mancheranno anche i genovesi, associati da sempre alla vita del mare e a quello della finanza. Eppure c’è almeno una menzione che è facile da capire, ma altrettanto difficile da valutare nel senso giusto. Nei preparativi di uno dei tanti duelli in cui Tirante si batte, vediamo che nel capitolo 65, trattando delle armi da combattimento, si allude ai “cultellines genovesques”, cioè “ai coltelli genovesi”, che erano pugnali a doppio taglio. L’espressione non ha alcun contesto che consenta di capire se intenda sottolineare la “perfidia” dei genovesi; e tuttavia essa prova che anche nella lontana Inghilterra il riferimento ai genovesi doveva avere una connotazione o almeno una sfumatura di perfidia. Gli inglesi avevano certamente un’idea della natura dei genovesi, perché questi, una volta aperto lo stretto di Gibilterra – cosa che accadde dopo la conquista cristiana di Siviglia –, si erano spinti nell’Atlantico e stabilirono alcuni capisaldi portuali nelle Fiandre, e trafficavano anche con l’Inghilterra. Non è improbabile che fossero proprio loro ad importare i “cultellines genovesques”, anche se è imprudente assumere un dato letterario come documento storico: dopo tutto, ad immaginare e descrivere il duello era un valenzano e non un londinese, e tuttavia bisogna aggiungere che quell’autore valenzano, Joanot Martorell, aveva vissuto a Londra per qualche anno.
Fin dall’ingresso nel Mediterraneo, la nave di Tirante diretta a Rodi, viene in contatto con vascelli genovesi e ne nasce una scaramuccia in cui un brillante espediente bellico di un marinaio di Tirante riesce a sventare gli attacchi. Fino a questo punto è poco più di un accenno; ma quando, dopo la scaramuccia Tirante approda ad un’isoletta sulla costa della Berberia per riparare la nave e curarsi delle ferite, il suo equipaggio viene costantemente insidiato da navi «di Genovesi e di Mori». Ancora niente che sia degno di tanta attenzione, però è un’altra indicazione, e questi ripetuti accenni lasciano capire che nel Mediterraneo c’è un pericolo, ed è appunto la presenza di imbarcazioni genovesi. E in effetti giunto a Rodi, dopo aver fatto rifornimento di viveri in Sicilia, trova che l’isola è accerchiata da navi genovesi che rinforzano la flotta dei Mori, ma Tirante riesce a cogliere di sorpresa gli assediatori e approda all’isola. Inizialmente viene osteggiato dai rodiesi, convinti che sia un genovese, ma poi, conosciuta la vera identità del nuovo arrivato, si mettono sotto la sua protezione.
La prima azione memorabile del nuovo arrivato contro i Genovesi è l’incendio della loro nave ammiraglia. E questo è l’antefatto della storia: quando Tirante arrivato a Rodi trova la popolazione stremata e costretta dalla fame a mangiare i cavalli. È assediata dagli infedeli e da una flotta genovese. Un marinaio di Tirante suggerisce di bruciare la nave in cui sta l’ammiraglio genovese e propone di farlo con una sorta di inganno escogitato e messo in atto dallo stesso marinaio. Si tratta di un vero stratagemma: un sommozzatore deve attaccare alla nave nemica una gomena che ha una specie di “anima” come le micce e che, una volta appiccato l’incendio, si autodistrugge, per cui non rimangono tracce di come l’incendio sia cominciato. Lo stratagemma viene effettuato con la massima efficienza e la nave ammiraglia viene bruciata. Il mistero su come ciò sia avvenuto semina il terrore fra i capitani delle navi genovesi e i comandanti dell’esercito moro. La paura li fa scappare e l’assedio viene tolto. Il Sultano che capeggia l’esercito degli aggressori esprime chiaramente questo timore:
«Che diavolo di uomini son questi che non temono i pericoli della morte, che a gonfie vele sono entrati in mezzo a tante navi nel porto, e hanno soccorso la città? E poiché hanno cominciato a bruciare la nave del capitano, faranno così di tutte le altre, ché i marinai non possono sapere come ciò possa essere avvenuto. È cosa di grande ammirazione che nessuno possa saperlo!» (cap. CVI: 227).
L’aggressività dei nemici fa brillare l’ingegno dei cristiani. E in generale tutto il male che si dice degli avversari genovesi serve a celebrare le risorse dell’intelligenza tattica e militare dei Cristiani che difendono i loro correligionari contro le pressioni degli infedeli e dei loro alleati genovesi.
Questi ultimi non mancano certo d’ingegno: sarebbe infatti poca gloria battersi con un avversario di poco valore. Per questo nel romanzo non mancano episodi di individui genovesi che non vivono più fra i loro concittadini, e anche per questo è possibile apprezzarne il talento. Lo prova il caso di un certo Almedixier, un genovese, che era stato schiavo in una galea di Tirante. Era un «uomo acuto ed esperto in molte cose» (cap. CCCXXXIX: 810). Tirante si trova in difficoltà perché deve attaccare i mori, ma teme che i numerosi buoi presenti nel loro accampamento intralcino le operazioni degli attaccanti. L’astuto Almedixier sa come far scappare tutti i buoi e prevede che i mori li inseguiranno per catturarli, e in questo modo l’accampamento si vuoterà di uomini e avrà un numero minore di difensori. Il modo escogitato per creare questa fuga è ingegnoso: «prese molte barbe di caproni e sego di montone, li pestò molto bene e li mise dentro a delle padelle piatte. Erano una sessantina» (ivi: 811). Fatte bruciare quella mistura quando il vento soffiava verso l’accampamento avversario, generando una puzza così mefitica da costringere i buoi a scappare, grande fu lo scompiglio che Almedixier aveva previsto, tale da assicurare la vittoria della parte che deve sconfiggere gli infedeli. E per farlo è di grande sostegno l’astuzia — che ha sempre in sé un elemento di quella perfidia di cui è capace un genovese.
Ai Genovesi viene riconosciuto anche il titolo di essere i migliori nell’offrire servizi di noleggio e di trasporto:
«Non appena Tirante vinse la battaglia, fece armare una galea al porto di One [Orano?], e vi mise per capitano un cavaliere che si chiamava Spercio, originario di Tlemcen, buon cristiano, uomo molto diligente e ottimo affarista. A lui Tirante diede l’incarico di andare a Genova, a Venezia, a Pisa e a Maiorca (che in quel tempo era una capitale di affari) e noleggiare navi, galee e vascelli e imbarcazioni di vario genere capaci di trasportare molta gente» (cap. CCCXXXVIII: 890 e seg.).
Insomma, l’“Impero genovese” non è un avversario da trattare alla leggera poiché dà prove di pianificazioni intelligenti, di mosse commerciali spietate che persegue con fermezza, e sostiene con grande astuzia militare. All’astuzia di tali avversari bisogna rispondere con la stessa moneta, cioè usando la stessa arma e superandoli in qualità. Ne offriamo un esempio. Tirante deve affrontare la flotta genovese, ma lo rende riluttante la superiorità numerica e di mezzi che questi dimostrano, per cui decide di sentire il parere dei suoi marinai, i quali per la loro lunga carriera sono esperti di battaglie navali. E ottiene due risposte che vale la pena riportare perché offrono elementi importanti per capire i termini in cui si poneva il giudizio complessivo sui genovesi. Ecco la risposta del primo marinaio:
«È cosa risaputa, Signor Capitano, che i Turchi passano il mare su ventitre grosse navi dei Genovesi, i quali fanno pagare due ducati di nolo per ogni persona, e tre ducati per cavallo. E pur di non perdere questa entrata si lascerebbero tagliare a pezzi: è gente che non accetta mai cattivi affari. Trasportano tanta gente in numero così grande che dovrebbe venire mezza Cristianità in nostro aiuto per essere in grado di sconfiggerli e assoggettarli alla nostra volontà. Noi abbiamo dodici navi e tre galee, ed essi hanno ventitre navi grandi, le maggiori e le migliori di tutta Genova, e inoltre hanno quattro baleniere e due saettie. Per cui noi vi consigliamo di non voler battere la testa contro il muro, perché non si tratta di battaglie di terra, le quali non possono paragonarsi a quelle di mare: perché quando le tolde sono chiuse non c’è più modo per fuggire» (cap. CLXIV: 463).
Un altro marinaio osserva che è possibile battere le navi genovesi:
«Ascoltate il mio consiglio e vedete se vi piace, e se non vi piace potete sceglierne uno degli altri, perché tra due mali bisogna scegliere il minore. È certo dunque che essi hanno ventitre navi molto grosse e hanno circa trenta navi in tutto, e chi vorrà vincere e conquistarle tutte dovrà fare in questo modo, se vorrete attenervi al mio consiglio. Voi avete dodici navi e quattro galee: scaricate le vostre navi in modo che si muovano leggere; quelle nemiche andranno molto cariche e non potranno fare tanto sforzo di vela come fanno le vostre. Dipenderà dalla vostra volontà accettare la battaglia o abbandonarla. Sarà grande gloria per voi osare attaccare con dodici grosse navi l’intera flotta dei Genovesi e dei Turchi» (ivi: 464)
Come il lettore può prevedere, Tirante accoglie il consiglio e attacca assicurandosi una grande vittoria. La prima risposta non potrebbe essere più feroce nel descrivere l’avarizia genovese; la seconda asserisce l’importanza strategica ma anche il dovere morale di schiacciare avversari di tale genia. La spregiudicatezza dei genovesi nel perseguire i propri interessi economici emerge spesso nel Tirante, come nel caso seguente:
«Tuttavia, signore, la mia principale intenzione quando sono partito dalla mia terra, il mio proposito era di andare a Rodi per soccorrere quel santo ordine che era sul punto di essere completamente distrutto a causa dei crudeli Genovesi, ai quali piace solamente la gloria dei vinti e non dei vincitori, e i quali non hanno clemenza né pietà per il loro prossimo Cristiano, anzi chiaramente fanno partito con gli infedeli» (cap. CI: 211).
E i Cristiani non sono gli unici ad odiare i genovesi, ché contro di loro inveiscono gli stessi infedeli con in quali qualche volta si associano quando a loro convenga. Tale sentimento viene espresso chiaramente nel momento in cui il sultano sconfitto dai Cristiani viene condannato a morire, e una causa della sua condanna è proprio quella di essersi alleato con i Genovesi:
«Oh, cavaliere di poco valore! Con il tuo viso rivolto all’indietro hai signoreggiato dodici re coronati, i quali ti sono stati sempre obbedienti. Ti sei accordato con la mala intenzione dei tuoi parenti prossimi e Cristiani falsi, i Genovesi, che non hanno pietà per nessuno, che non sono né Mori né cristiani, solo perché tu sei nato in quella mala costa di Genova» (cap. CVII: 230).
Ora, con l’eccezione dell’episodio che ha per protagonista Almedixier, tutti i passi e gli episodi qui riportati presentano i genovesi come “gruppo”, quindi sembra che manchino gli incontri “corpo a corpo”, per così dire, in cui più evidente e reale appaia l’odio viscerale verso i grifagni pattugliatori del Mediterraneo. Ma c’è almeno un episodio che rende quest’odio palpabile e carnale. Ha luogo a Rodi, ma viene presentato a Tirante mentre si trova a Nantes: l’episodio è di grande importanza perché provoca l’assedio della capitale di Rodi da parte degli infedeli e dei Genovesi, ed è l’evento che stimola Tirante a muoversi per liberarla. Nel leggere questo racconto si tenga presente che l’“ordine” di cui si parla è quello di San Giovanni di Gerusalemme che nella sua chiesa custodisce delle reliquie molto preziose di cui i genovesi vorrebbero impossessarsi. Il modo in cui tramano di fare questo furto è detto nel brano che segue; e aggiungiamo, per precisare meglio, che il tutto si svolge nella settimana santa.
Gli uomini del Sultano arrivano al porto di Rodi la Domenica delle palme, e si incontrano con due frati Genovesi dell’ordine di San Giovanni, i quali hanno deciso di tradire gli abitanti dell’isola. Ciò che non vien detto nel brano che riportiamo è che lo scrivano di un comandante genovese ha informato una prostituta del piano del tradimento, e questa a sua volta lo confida ad un suo amante che è un frate dell’ordine. Da tutto questo intrigo nasce la difesa che leggeremo, e leggeremo anche della vittoria, che però costerà cara ai vincitori, in quanto costituirà la causa dell’assedio che Tirante riuscirà a rompere. La storia è avvincente e ne riportiamo per intero la parte del “corpo a corpo” che speravamo di trovare:
— «Ti prego, figliolo – disse il Maestro – di dirmi il modo come ciò dovrebbe avvenire, perché io ti prometto, a fede di religioso, che la pena che avresti dovuto avere si convertirà in grande aumento e innalzamento dell’onore tuo perché io ti farò, dopo di me, il maggiore di tutto il nostro ordine.
Il cavaliere si inginocchiò e gli baciò la mano. Poi disse:
— La signoria vostra deve sapere che due frati genovesi del nostro ordine ci hanno venduti, perché dietro il loro consiglio sono venute queste navi di questi malvagi genovesi con grande moltitudine di uomini e poco cargo. E questi traditori che abbiamo nel castello hanno commesso una grande malvagità ché nel deposito delle armi hanno tolto tutte le noci delle balestre e vi hanno messo del sapone bianco e del formaggio perché al momento del bisogno non possiamo servircene. E domani, che è venerdì della Passione, hanno scelto gli uomini più forti e decisi di tutte le navi per entrare nel castello, e ciascuno di loro porterà una balestra smontata che hanno appena inventato: non ha l’arco legato al fusto con un filo, come si usa nelle altre, ma con la staffa risulta abbastanza corta che con un piccolo perno si carica molto bene. E ciascuno porterà la spada e nasconderà l’armatura portandovi sopra una sottana nera lunga fino a terra. E perché nessuno se ne accorga, verranno a due a due dentro il castello con la scusa di adorare la Croce e di sentire gli offici. E quando ci sarà molta gente al momento di celebrare i divini offici, potranno uscire facilmente dalla chiesa, e con l’aiuto dei due frati, i quali avranno già presa la torre dell’omaggio, faranno entrare gli altri, e prenderanno tutte le altre torri che le stanno vicine. E prima che la Signoria Vostra ne abbia sentore, la metà del castello sarà già presa, e nessuno di noi insieme a voi scamperà dalla morte o dalla prigione.
— Poiché è così, andiamo segretamente alla camera delle armi, e vedremo prima di tutto se è vero quanto dite delle balestre.
E delle cinquecento e più balestre che c’erano ne trovarono solo tre che avevano la noce che non fosse di sapone e di formaggio. Il Maestro a quel punto rimase sbalordito e riconobbe che il cavaliere gli aveva detto la verità. Immediatamente fece convocare il consiglio dei cavalieri, e fece prendere i due frati genovesi. Il Maestro volle farli torturare, e loro confessarono circa la maniera in cui dovevano morire senza pietà alcuna il Maestro e tutto l’ordine. Li presero e li gettarono in un sottano della torre, in un posto dove c’erano molti serpenti e scorpioni e altri animali vili.
Per tutta la notte nessuno dormì, anzi segretamente raddoppiarono le guardie e scelsero cinquanta cavalieri giovani e disposti a ricevere quelli che sarebbero venuti. E tutti gli altri si armarono perché, nel caso fosse necessario un aiuto, potessero darlo. Al mattino, appena aprirono le porte, i genovesi cominciarono a venire a due a due, e venivano facendo finta di dire le Ore. Dovevano passare per tre porte. La prima era del tutto aperta, con due portinai che facevano la guardia. Alle altre porte non potevano entrare se non per il piccolo portoncino, e quando erano dentro il gran cortile davanti alla chiesa, ad aspettarli c’erano i cinquanta cavalieri ben armati che li prendevano e li disarmavano e senza far toccare loro i piedi per terra li lanciavano gli uni sopra gli altri in fosse profonde, e anche se gridavano non potevano sentirli da fuori. In questo modo morirono quel giorno mille trecento settanta cinque genovesi, e se di più ne fossero entrati, di più ne sarebbero stati uccisi. Il capitano, che stava fuori, vide tanti genovesi entrare e nessuno uscire, subito tornò alle navi. Il Maestro, vedendo che non entrava più nessuno, fece uscire fuori dal castello la maggior parte dei cavalieri e comandò che prendessero quanti genovesi trovavano, e in quella giornata fu fatta di loro una grande strage.
Il capitano, non appena si trovò sulla nave, fece imbarcare tutta la sua gente e ordinò di fare vela alla volta di Beirut, perché sapeva che lì si trovava il Soldano. Il capitano andò davanti a lui e gli raccontò tutti i fatti che gli erano accaduti a Rodi. Tennero consiglio fra di loro a istanza e richiesta dei genovesi, e fu convenuto da tutti che il Sultano in persona passasse all’isola di Rodi con le maggiori forze possibili, e che con le loro navi potevano fare il passaggio in due o tre viaggi. Il Sultano fece mettere in ordine venticinque mila mammalucchi e li mandò nella detta isola» (cap. XCIX: 199-201).
I genovesi non potevano uscirne peggio: scornati e militarmente disfatti. La finzione letteraria offre il vantaggio di trovare forme di vittoria che appagano, almeno idealmente, la sete di vittoria e di rivalsa, e le soddisfazioni di tale origine sono tanto più intense quanto più rispondono alla realtà che le ispira. L’antipatia per la trionfante presenza di Genova era la matrice vera di racconti simili a quello appena letto. Non c’è dubbio che quel sentire avverso era diffusissimo, ed è quasi certo che un’esplorazione in altri autori vicini al mondo di Martorell produrrebbe un dossier di rivalse simili contro un avversario così invadente da spuntare in ogni angolo di quell’ampio scenario qual era il Mediterraneo.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
______________________________________________________________
Paolo Cherchi, “professor emeritus” della University of Chicago, dove ha insegnato letteratura italiana e spagnola e filologia romanza dal 1965 al 2003, anno in cui è stato chiamato dall’Università di Ferrara come Ordinario di letteratura italiana, e da dove è andato in congedo nel 2009. Si è laureato a Cagliari in filologia romanza, ha conseguito un PhD a Berkley (1966). Si è occupato prevalentemente di letterature romanze nel periodo medievale e rinascimentale. Fra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il tramonto dell’onestade (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016); Petrarca maestro. Linguaggio dei simboli e della storia (Roma, Viella, 2018); Maestri. Memorie e racconti di un apprendistato (Ravenna, Longo, 2019); Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi verso l’Europa scettica e critica (1500-1750) (Padova, libreriauniversitaria.it.edizioni); Quantulacumque lucretiana. Nuove piste di ricerca sulla fortuna di Lucrezio nel tardo Rinascimento (Generis Publishing, 2022); Studi ispanici. Fonti, topoi, intertesti (Milano, Ledizioni, 2022). Nel 2016 è stato cooptato come socio straniero dall’Accademia dei Lincei.
______________________________________________________________