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L’importanza di conoscersi: l’isola alla prova di sé stessa

71xtiismesl-_ac_uf10001000_ql80_di Nicolò Atzori 

Mentre tutto intorno il mondo corre, s’agita e dimena, ebbro di una novità incalzante ma più prudente sulle riflessioni, stordito da venti di guerra, la Sardegna tiene il passo del presente ed elegge la sua prima presidente: Alessandra Todde, 55 anni, di Nùoro, è la prima donna a ricoprire la carica di governatrice della Regione. Quello che definiremmo un momento topico, insomma, si profila nello spartito vitale dei sardi consegnandosi alla storia, al di là delle congiure di palazzo e di una presunta “indolenza culturale” denunciata, a più riprese, dalla meno recente storiografia quando non dalle figure decisionali di punta.

Sorniona nel cuore del “nostro” Mediterraneo, teatro mai così irrequieto, anche l’Isola va, come nell’omonimo titolo del lavoro di Gianfranco Bottazzi, già docente di ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro presso l’Università di Cagliari e autore di E l’isola va. La Sardegna nella seconda modernizzazione (2022) [1], di cui ragioniamo e che confermano la costante attenzione di Dialoghi Mediterranei verso il mondo che ci circonda e di cui siamo parte. Le riflessioni esposte, infatti, seguono quelle – a cui rimando – del precedente numero su Ottana e sulla crisi dell’industria petrolchimica sarda, che già ha indotto chi scrive a ragionare dei cambiamenti strutturali in atto nell’isola di Sardegna. In perfetta sequenza, l’opera di Bottazzi consente, in certo modo, di riavvolgere il nastro rispetto al cambiamento e rispetto all’idea di modernizzazione, della quale in Sardegna si nutre una sorta di avversione ormai storicizzatasi.

Il risultato è un’opera di insolita precisione, intreccio di economia, sociologia, storia e antropologia tesa alla decostruzione di una scrittura dell’Isola che, insufficiente e spesso autoreferenziale, ha facilmente ottenuto di appiattire il confronto sul tema; un volume, è evidente, dal quale non solo è benefico ma urgente trarre linfa e ispirazione per nuovi e più precisi approcci.

Il risultato, di ampio respiro interdisciplinare, sembra restituire una Sardegna a diverse velocità e dal rapporto sempre piuttosto problematico col concetto di modernizzazione, amante mai corrisposto, che ha francamente dimostrato di potere metabolizzare con grande difficoltà. Da queste parti, a ben vedere, è noto un carosello di fallimenti e dismissioni, inizialmente edulcorate dalla nobiltà delle missioni «con l’obiettivo “sociale” di venire a capo del malessere delle cosiddette “aree interne”», e risoltesi – a conti fatti – in scenari certo descritti con «amaro disincanto» da Michelangelo Pira o Pasolini, premurosi nel descrivere vere e proprie catastrofi antropologiche, ma che è bene e doveroso scandagliare per non cristallizzarsi in quello che Bottazzi chiama «sempiterno paradigma della nostalgia». La Sardegna, in effetti, comincia a parlare tardi la lingua del fordismo, approdato massicciamente per mano statale e con i caratteri di un organismo già in compimento e quanto mai famelico, con esiti ulteriormente «distorsivi» o estremamente peculiari in ragione della velocità dei processi che coinvolgono un’impalcatura socioculturale, quella sarda, a carattere clientelare e particolaristico come altrove e, ad esempio, dove 

«le reti sociali sulle quali si tessono legami solidaristici sono soprattutto la famiglia e la comunità di villaggio, che spesso non è altro che una grande famiglia allargata. Queste reti non si dissolvono completamente quando le persone si allontanano dalla comunità di origine. Il cambiamento non è istantaneo e molti elementi della vecchia struttura sociale, tali le reti amicali e familiari, sopravvivono nella società moderna-industriale. Quando si trasmigra nell’ambiente urbano-moderno – fatto di relazioni personali fredde e superficiali – diventa straordinariamente importante sapere chi si conosce, non tanto perché questo garantisca un trattamento particolaristico, quanto perché la rete di relazioni ti fa sentire meno solo». 

pietre-di-paneMi riesce impossibile non ricordare le pagine intense di Pietre di pane: un’antropologia del restare, bellissimo romanzo antropologico in cui Vito Teti getta un ponte tra la Calabria e il Canada, terra promessa dei tanti, tantissimi emigrati calabresi che in un altrove lontano ristabiliscono i propri riferimenti collettivi validando nuove grammatiche d’identità giocate sui concetti di restanza e alterità [2].

Una regione che non aveva ancora metabolizzato la “prima”, insomma, si configura, grazie ai «canali della globalizzazione», nelle sue strutture funzionali, all’indomani della modernizzazione industriale, dove sembra affondare le sue radici quella crisi della politica che, catalizzata dal paradigma neoliberista, si ritrova a gestire un corpo sociale sempre più distante dal fatto politico – che sembra invero subire – e, io credo, dalla sua costruzione in sede pubblica. Problemi, a ben vedere, declinatisi oggi al massimo della loro potenza in ragione del massiccio utilizzo dei canali di comunicazione digitale. Secondo il filosofo Byung-chul Han, infatti, la rapidità e la diffusione virale dell’informazione – che definisce infodemia – inficia il processo democratico della sua ricezione, di cui i media digitali catalizzati da smartphone e strumenti della produzione comunicativa monopolizzano modi e tempi, sgretolando qualsiasi possibilità discorsiva con una comunicazione accelerata e frammentata; in una parola, affettiva, laddove consenta che si impongano «non gli argomenti migliori, bensì le informazioni dotate di maggiore potenziale d’eccitazione»[3].

In sostanza, la comunicazione digitale provocherebbe una inversione del flusso delle informazioni, diffuse senza passare dallo spazio pubblico perché unidirezionali: prodotte in spazi privati e inviate a spazi privati, il che configura una comunicazione senza comunità principalmente rafforzata dai social media quali spazi ultimi del confronto e del dibattito pubblico. Si tratta di processi di cui meglio cercherò di dire nel paragrafo successivo, ma qui ci consentono di caratterizzare ulteriormente l’inserimento del nostro oggetto, la Sardegna, all’interno del valzer delle culture “globali” che, onnipresenti e diffuse soprattutto alla luce di una comunicabilità ipertrofica dei fatti umani, individuano necessariamente «dei cambiamenti socio-antropologici, si tratti di mode superficiali o di più profonde trasformazioni», ma sempre orientabili alla luce del costante richiamo ai valori storici come sinapsi di senso intercondivise. 

vottzziIl solco dei maestri 

«Si deve leggere Bottazzi» era un consiglio, dal sapore perentorio, che facilmente ricorreva durante la stesura delle tesi di laurea, soprattutto se di area umanistica e inerenti allo studio del territorio. Da ex studente dell’Università di Cagliari, diverse volte ho incontrato le ricerche di Gianfranco Bottazzi in materia di Sardegna; per un ricercatore che ha mosso i primi passi in un corso triennale o magistrale di studi umanistici accompagnato dalla geografia, la storia e l’antropologia, come mi è capitato, si è trattato di ricerche preziose per saggiare una personale idea di Sardegna nell’impalcatura del mio pensiero e per situare al meglio il mio impegno verso una sua migliore comprensione. Bottazzi era così presente e supportava la mia ricerca mentre mi laureavo in geografia umana tentando di restituire la complessità territoriale di Sardara, mio paese d’origine, per tornare, con I fattori immateriali dello sviluppo [4], fra le mani di uno studente ormai lavoratore quando della stessa realtà indagavo, in vista della laurea magistrale, l’antropologia, che ancora frequento con passione.

Per chi si interessi, insomma, di anatomia della Sardegna contemporanea, particolarmente per la mia generazione e per quella immediatamente precedente è stato facile scoprire in Gianfranco Bottazzi una sorta di latore di un’ermeneutica dell’Isola alla quale non sembravamo troppo avvezzi, strattonati da un lato verso il rigore della ricerca filologica e certosina e dall’altro verso la musicalità di una narrativa, non puramente anti-accademica (in quanto tendenze all’enfasi ridondante della realtà sono avocabili allo stesso specialista), di sicuro idealizzante nelle sue pretese di fossilizzazione bucolica della varietà isolana, decantata e raccontata come un Eden perduto. I precedenti in fatto di Sardegna sono tanti e noti, e non sarà banale ricordare, fra i più antichi, l’imponente Dizionario Angius-Casalis (1833-1856) [5], fenomenale resoconto geografico ed economico del territorio oppure, di non meno rilevante valore, la trattazione di taglio più geomorfologico del Lamarmora (1839) [6], che apre alla multiformità dello spazio isolano.

In ogni caso, è comprensibile che a prevalere in certi meno recenti scritti pure già sistematici in materia di Sardegna sia un certo taglio “impersonale”, particolarmente rispondente alla cultura conoscitiva del tempo e che, se certamente non ridimensiona l’alto valore descrittivo e di testimonianza ancora assolutamente imprescindibile per lo studio diacronico del tessuto antropico sardo, certo è difficile riconoscergli una statura scientifica organica. Come non manca di sottolineare il Bottazzi, vanno quindi accolti con un plauso i “recentissimi” contributi veramente compositi, tra geografia e antropologia [7], in continuità coi quali sembra situarsi la sua opera e, aggiungo io a quelli citati, Sardegna. Geografia di una società di Antonio Loi (2006), della quale sembrano quasi raccogliere il testimone.

71xqdcjcpyl-_ac_uf10001000_ql80_Inoltre, tante narrazioni sulla Sardegna tendono a consegnare al senso comune, come emerge nel volume, una Sardegna “incompiuta”, quasi ciclicamente chiamata a rinegoziare un rapporto col mondo, soprattutto quello altrui, che i sardi non hanno mai fino in fondo percepito come risorsa.  Evidentemente, il libro di Gianfranco Bottazzi, capace di situare le stesse mitologie in tema di Sardegna all’interno di un quadro – anche numerico – complesso ed estremamente articolato, dà conto di una polisemia ritmica già analizzata in Eppur si muove. Saggio sulle peculiarità del processo di modernizzazione in Sardegna (CUEC 1999), dove l’autore esplora una terra che, come tutto l’Occidente europeo, si appresta all’esorcizzazione delle distorsioni del Secondo conflitto mondiale predisponendone le condizioni per il superamento che sia morale prima che economico, suggellato dal trentennio glorioso (1945-1975).

Pure esponendo argomenti e costruzioni descrittive di non facile accesso, dunque, Bottazzi è abile nell’accompagnare il lettore fornendo gli appigli interpretativi che le epistemologie esplorate richiedono. Fra questi, emergono – per dirne solo alcuni – gli approfondimenti sul “ruolo” individuale nella società tradizionale e poi in quella moderna inteso come indicatore della mutata concezione e articolazione delle interazioni personali fra comunità precedentemente rurali e contesti cittadini, rei di generare oggettivazione e impersonalità relazionale; sull’idea di “posto di lavoro” come  “sistemazione”, particolarmente riconducibile al “giogo fordista” della promessa di stabilità e di sicurezza sociale (bene esplicato grazie al costante supporto bibliografico [8]) e sull’incertezza come forza individualizzatrice affrontata da Bauman [9]; sugli indicatori del mercato del lavoro; sulle recenti politiche del lavoro che consentono di collocare e valutare la Sardegna come parte di un sistema che, al netto delle criticità specifiche, problematico lo è anche altrove.

In questo, l’imponente ma mai opprimente documentazione statistica, pure del tutto autonoma, risulta supportare in maniera efficace un impianto discorsivo dalla prosa chiara e precisa, immettendo il lettore nel fulcro delle questioni storiche della debolezza sociale ed economica dell’Isola. Allo stato attuale, quella sarda sembra un’economia in continua trasformazione, che se da un lato cerca di portare a compimento il superamento dell’agricoltura per rispondere ai mercati moderni, dall’altro vi ritorna – soprattutto negli ultimi anni – quasi in ossequio al suo predominante valore sociale che non ne ha comunque impedito una lenta rarefazione, rendendola «del tutto insufficiente a coprire il fabbisogno interno della Sardegna».

9788891781390_0_536_0_75Principio intorno al quale sembrano giocarsi le sorti dell’Isola, in ogni caso, sembra essere quello della terziarizzazione che ha dato della de-industrializzazione una traduzione economica in forma capillare, quella dei servizi e delle micro-imprese diffuse ovunque, aperte ai nuovi mercati, con lo stesso ripensamento degli spazi prima impiegati in senso industriale e ora al centro di nuove progettualità in linea con l’urgenza di un presente operoso, come si è avuto modo di dire anche nel precedente numero di Dialoghi Mediterranei (n. 66, marzo 2024). Gioverà, allora, segnalare una ulteriore precisa trattazione in materia come il Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai piani di rinascita di Alberto Boscolo, Lorenzo Del Piano e Luigi Bulferetti, impegnatisi nel ripercorrere le tappe salienti che hanno condotto alla moderna fisionomia dell’Isola tra innovazioni, resistenze e miti.

Ciò che credo sia importante notare, oggi più che mai, è che specialmente i fatti culturali sardi – per l’entità dei processi antropologici che hanno coinvolto le strutture sociali ivi vigenti – rispondono ad un paesaggio di significati all’interno del quale gli individui gravitano come altrove suggellando in loro funzione i patti relazionali e quelli con l’istituzione, quando non decidendo di organizzare a priori la propria vita, come marcatamente accade in altre aree del cosiddetto Mezzogiorno.

Quelle che tanti cittadini e amministratori tendono a bollare semplicemente come arcaismi o, nella migliore delle ipotesi, “tendenze immobilizzanti” rispetto ad un progresso da realizzarsi whatever it takes, non possono certo venire bypassate con un pulsante, trattandosi di effettive specificità storiche e socioeconomiche nel bene e nell’infor-male, per utilizzare un gioco di parole col quale mi riferisco, ad esempio, «alla diffusione di attività produttive di beni e di servizi – dunque produttive di reddito – che non vengono rilevate o non sono rilevabili dalle normali informazioni statistiche». Si tratta, continua Bottazzi, «di un vasto ed eterogeneo insieme che costituisce la cosiddetta economia informale, una parte della quale è composta da tutte quelle attività, del tutto lecite, che non passano per il mercato, non formano cioè oggetto di compra-vendita monetaria»; mettendo in conto, ahinoi, quella che viene normalmente definita «economia sommersa» e che riguarda in larga parte attività irregolari, che vìolano in tutto o in parte le norme vigenti e che vanno dall’evasione fiscale al lavoro nero (senza contratti e versamenti contributivi), etc.. Certe dinamiche, ad esempio, non sono estranee ai livelli di consumo delle famiglie sarde, come sottolineato significativamente più alti di quanto non sia il PIL regionale, e rispondono a modi di vita che, prima di qualsiasi operazione di “svecchiamento” o “innovazione” arbitraria, “calata dall’alto”, vanno compresi nel profondo e con sufficiente distacco, sì da avvertire il calore di quella flebile fiamma che arde, da queste parti, sul punto d’equilibrio tra valore e disvalore.

Vorrei quindi segnalare una suggestiva convergenza proposta da Bottazzi tra il concetto di path dependence – ovvero una locuzione, in uso in tante discipline, per grandi linee «indicante che le decisioni passate influenzano il comportamento di oggi» – e quello di su connotu – ovvero “il conosciuto”, per estensione le prassi vitali e quindi i saperi tecnici, sociali e d’uso dello spazio vigenti fino ad un certo periodo della storia – che, depurato delle accezioni più integraliste che propugnano un ritorno al passato-in-quanto-tale per rispondere alla spersonalizzante grettezza del presente, varrebbe forse per sottolineare e ribadire l’importanza – su un piano progettuale e riformista – di «quei tratti essenziali e profondi in grado di informare, da millenni, la nostra capacità di stare nel mondo con consapevolezza, efficace introspezione e senso di radicamento»[10], come li definii riferendomi alla complessità della tradizione. 

7Identità e autorappresentazione: indicazioni dall’ecosistema digitale 

Sebbene morigerati secondo vulgata, i sardi si compiacciono (am)abilmente di certa unicità del loro percorso umano, e certo non lesinano di descriverlo al meglio delle loro possibilità espressive, mostrando di averne cari alcuni aspetti di cui operano una selezione scandita da tratti di straordinarietà e genuinità oggi meglio spendibili nell’harem del marketing digitale.

Certo, è facile rendersi conto di come sia ancora poco agevole assumere quale campo di ricerca un terreno così distante e irto di insidie come quello, famelico, del mondo virtuale e digitale, ma lo è in misura maggiore omettere o peggio ridurre a corollario dell’esistere concreto uno spazio che ci segue, volenti o nolenti, ovunque andiamo, nello smartphone come nella presenza individuale stessa [11].

E lo è paradossalmente, avendo la rete compiuto diversi decenni e la comunicabilità digitale più di uno: lo studio delle interazioni sociali nei contesti comunicativi digitali contemporanei è una disciplina e prende il nome di netnografia [12]. Secondo la sua postura, atta al rilevamento delle connessioni tra individui, della loro capacità – nei modi, nelle forme e nei tempi – di stare e fare gruppo, si può quindi tentare una lettura di alcune delle tendenze auto-rappresentative che il sardo digitale mette in atto nel pensare sé stesso mediaticamente. La prima di queste, dal carattere ricorrente e di vecchia data, riguarda i “giovani”, “senza futuro” per il senso comune nostrano di cui la stampa è, ovviamente, parte integrante.

Proprio mentre scrivo, mi guizza davanti, effimero e a mo’ di “notifica” – quindi di “ricevi e deglutisci” senza esitazione – come piace, il titolo di un noto quotidiano sardo: “Amiamo la Sardegna, ma non torneremo”, è scritto lapidario in riferimento a tre giovani studenti sardi accasatisi – udite – in Romania e Bulgaria. In casi simili, si innesca un algoritmo demonizzante il cui prodotto corrisponde molto spesso ad un’idea di Sardegna “dove non c’è nulla” a priori o, peggio, dove nulla funziona, con i poco più che ventenni chiamati, in modo quasi processionale, a scelte drastiche come i trasferimenti. Eppure, nello stesso articolo si legge anche, se lo si apre, che galeotto fu il test di medicina non superato, contingenza che mi pare prefigurare ben altre considerazioni. Questo, ovviamente, non significa che nell’Isola non esista un problema giovanile strutturale, che per meglio situare e approcciare troviamo nuovamente un appiglio in Bottazzi, il quale a più riprese si sofferma sulla figura dei cosiddetti né-né o NEET (acronimo inglese per Not (engaged) in Education, Employment or Training), ovvero i giovani dai 15 ai 29 anni che non lavorano e non sono impegnati in alcuna attività di formazione, che in Sardegna raggiunge valori tra i più alti nel contesto italiano ed europeo (circa il 25% del totale). Come nota giustamente il sociologo, però, ai dati impietosi a livello di abbandono scolastico e generica dispersione, fa da contraltare una geografia complicata internamente, 

«con tanti piccoli centri dai quali chi vuole studiare deve con fatica pendolare quotidianamente verso altri luoghi, ma un discorso andrebbe fatto sul costo sostenuto dalle famiglie e sulla qualità dell’istruzione, dai risultati delle periodiche valutazioni delle competenze degli studenti […] alla tipologia di istituti di istruzione presenti nel territorio, la tipologia dei quali non sembra sempre avere una logica rispetto al territorio stesso». 

Contestualmente, come ha osservato Marcello Tanca, nel caso della Sardegna 

«il tema della o delle identità territoriale/i appare particolarmente delicato e complesso: la connotazione in termini perlopiù “negativi” e “sfavorevoli” dell’insularità è ormai un topos che ricorre con tale frequenza nella letteratura geografica sulla Sardegna, sia essa di matrice accademica o non accademica, da essere diventata ormai il fulcro esplicativo delle caratteristiche sociali, economiche, politiche e (persino!) antropologiche dell’Isola; una sorta di acritico automatismo, fatto proprio anche dalla Commissione Europea (che la definisce come una caratteristica geografica che limita lo sviluppo) non al passo con le più recenti acquisizioni epistemologiche, perciò non soddisfacente sul piano scientifico né utile sul piano sociale» [13]. 

8All’interno dell’immaginario geografico collettivo possiamo inoltre situare le tendenze comunicative riguardanti la sfera del patrimonio culturale, al cui alveo è possibile ricondurre tanti dei leitmotiv frequentati online e fruiti (e catalizzati) digitalmente. Il racconto della propria cultura, da parte sarda, è variopinto e intenso, e l’ecosistema comunicativo configurato dai social media fornisce importanti indicazioni sul modo nostrano di intendere sé stessi come individui, gruppi e classi in rapporto alle istituzioni, loro avulse e non soltanto, con diversi spunti significativi sullo iato – a tutti i livelli – tra realtà effettiva e realtà percepita, nodo caro soprattutto a noi antropologi. Un’identità, per così dire, digitale.

Esso, soprattutto, risulta da una stratificazione articolata (e per certi versi compulsiva) di communities disparate, ad esempio i gruppi Facebook di appassionati di archeologia e storia sarda, nei quali è possibile registrare l’esistenza di vere e proprie fazioni il cui confronto cibernetico non di rado sfocia nell’aperta diatriba col mondo accademico, mai effettivamente a suo agio nel confronto con neofiti o sedicenti studiosi e chiamato a smentite semi-ufficiali [14]. Anzi, mi verrebbe da dire che il dibattito si risolva interamente dietro uno schermo, dal momento che né l’una e né l’altra parte nutrono consistenti motivazioni del perché debba trasferirsi in ben più esplicative sedi. Dello schema digitale, quello della guerra logica di logoramento, parlai già qui nel n. 56 (luglio 2022).

L’approdo al disincanto cosmogonico, popolato di giganti ed eroi e fate, in Sardegna è cosa recente almeno nel suo carattere ultra-mediatico, nell’ambito della cui dimensione si dispiega in tutta la sua carica “cristallizzante”; agevolando, cioè, la fissazione di alcuni aspetti pure specifici della struttura storico-antropologica sarda che ottengono di divenire – prima all’interno dell’economia delle communities digitali, in cui fungono da comuni denominatori relazionali, e poi addirittura nel dibattito politico – da un lato merce di scambio e dall’altro fattore primo di autoreferenzialità interpretativa e non di rado propagandistica.

Salina di Sant'Antioco (ph. Nicolò Atzori)

Salina di Sant’Antioco (ph. Nicolò Atzori)

Mi pare, in sostanza, che gli stessi espedienti e strumenti in forza al sistema dell’informazione ingenerino non poche ambiguità nella riscrittura concettuale della Sardegna moderna, e che anche per questo motivo si fa ancora più urgente la lettura degli studi del calibro di quelli di Gianfranco Bottazzi, idealmente preludio a qualsiasi considerazione programmatica debba coinvolgere la progettualità socioeconomica dell’Isola e, soprattutto, gli intendimenti dei suoi abitanti. Il lascito più grande di questo libro è la sensazione che de-costruire – ad esempio nel caso della dismissione di aree industriali sponsorizzate come positive a qualsiasi costo – non significhi automaticamente de-abitare, ma anzi liberi le possibilità inespresse di radicamento e permanenza nei luoghi, da riassumere come perni dell’impegno politico e destinatari del coraggio individuale; in cui, insomma, coltivare futuro ma senza mai perdere di vista la concretezza del presente.

Se la sensazione è quella di una regione che si appresta a vivere una nuova primavera, complice l’elezione della prima presidente e un gruppo di governo di area dichiaratamente progressista, è dall’inusuale pratica dello studio e della seria informazione che deve giungere la linfa per affrontare le sfide, pensare un domani e farlo collettivamente, da comunità e da regione nel vasto mondo d’Europa. L’isola va, si capisce, solo se sostanziosamente nutrita nella mente e nel corpo. 

«I sardi, insomma, non lo fanno meglio o peggio: lo fanno a modo loro, come ovunque nel mondo e in tutte le epoche; lo fanno, certo, ben consci di abitare una realtà unica a suo modo, che non cambierebbero con nessun’altra, anche coi suoi problemi eterni e apparentemente insormontabili [...] Perché non saremo mai più di quanto comprenderemo, a qualsiasi livello e su qualsiasi piano. E perché siamo sardi, certo, ma sulla faccia della terra» [15]. 
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024 
Note
[1] Bottazzi G., E l’isola va. La Sardegna nella seconda modernizzazione, Il Maestrale, Nuoro 2022
[2] Cfr. Teti V., Pietre di pane: un’antropologia del restare, Quodlibet, Roma 2011
[3] Han B., Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Einaudi, Torino 2023: 26 e ss.
[4] Bottazzi G., I fattori immateriali dello sviluppo. Riflessioni sulla Sardegna in prospettiva europea, CUEC, 2013
[5] Angius V. Casalis G., Dizionario Geografico Storico Statistico Commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Maspero Marzoratti Vercellotti, Torino 1833-1856; 
[6] Se ne segnala il terzo volume, scaricabile liberamente qui: https://www.sardegnadigitallibrary.it/detail/6499b95fe487374c8f80333b
[7] Marrocu L, Bachis F., Deplano V., La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi, processi culturali, Donzelli, Roma 2015 e ancora Corsale A., Sistu G., Sardegna. Geografia di un’isola, Franco Angeli, Milano 2016
[8] Meldolesi L., Dalla parte del Sud, Laterza, Roma-Bari 1998
[9] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza Bari Roma 2011
[10]  https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/etnologia-del-vino-fra-rito-e-materialita-sguardi-sul-campidano/
[11] Non possiamo certo scordare l’esistenza di una identità digitale per ognuno di noi, attraverso la quale abbiamo oggi accesso a servizi amministrativi, svago, e non solo. 
[12] Rimando direttamente ad una intervista di Robert Kozinets, che ha coniato il termine: http://www.internationalcommunicationsummit.com/it/ics-newszine/ics-academy/la-netnografia-spiegata-dal-suo-fondatore-robert-kozinets
[13] Tanca M., Le identità della Sardegna tra vocazioni e determinismi geografici, Nur – Rivista di Cultura e Identità di Sardegna, 1/12: 8-10
[14] https://www.olbia.it/frontiere-della-fantarcheologia-sarda-i-fenici-non-esistono
[15] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/fenomenologia-comunicativa-della-terra-di-nessuno/ 

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Nicolò Atzori, dottorando di ricerca in antropologia sociale presso l’Università degli Studi di Sassari, è una guida museale e didattica (CoopCulture) attiva a Sardara, paese del Campidano centrale. I suoi interessi di ricerca spaziano dall’antropologia del patrimonio – con particolare riferimento all’antropologia museale – all’antropologia digitale, ma non manca di una prospettiva d’indagine incentrata sul paesaggio e sulle tradizioni popolari. Formatosi, fra le altre cose, nell’ambito delle digital humanities, tenta di coniugarne l’approccio a quello della ricerca etnografica ed etnologica in senso classico, secondo l’orientamento dell’antropologica storica. Sta frequentando il master di Antropologia Museale e dell’Arte della Bicocca.

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