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L’indagine ritrovata del 1907 su una piccola comunità siciliana in America

pungitopo-immigrazione-cop-12x17di Mariano Fresta

Le storie di tutti gli emigranti finiscono in buona parte per somigliarsi: nelle biografie dei protagonisti si racconta delle misere condizioni di vita che costringono molti ad emigrare dalla loro terra per cercare lavoro e sfuggire alla povertà; il racconto poi continua illustrando le difficoltà che essi incontrano nell’ambientarsi nel nuovo paese, l’ostile e a volte razzistica accoglienza, gli alloggi fatiscenti, affollati, privi di tutti i servizi; si passa quindi alle peripezie vissute nella ricerca di un lavoro qualsiasi e, infine, il racconto si conclude, dopo anni di lavoro improbo e di enormi sacrifici, con il riscatto, le immagini di una vita decorosa e  a volte anche con il riconoscimento di una affermazione nella società.

La storia è dunque sempre uguale, anche se cambiano i luoghi, anche se le persone di cui si parla hanno culture e personalità diverse, anche se l’autore, che ce la narra, riesce a trovare nuovi argomenti capaci di appassionarci. Ci sono poi le opere degli storici e i saggi di taglio sociologico che privilegiano la descrizione asettica delle vicende, che ci presentano tabelle e grafici, statistiche e cartine. In ogni caso, questi testi sono tutti utili perché ci mettono a disposizione dati e vicende umane con cui ricostruire la storia delle emigrazioni e la nascita di nuove città e di nazioni, alcune delle quali destinate a diventare importanti.

Il libro che ho davanti ha tutte e due queste caratteristiche, quella che mediante le statistiche vuole essere quanto più oggettiva possibile, e quella che in qualche modo vuole coinvolgere il lettore con il racconto dei fatti. Si tratta di un testo, Immigrati italiani in America, Hammonton, N.J. 1907 (Editrice Il Pungitopo, Gioiosa Marea 2020), di Emily Fogg Meade, una sociologa statunitense, tra l’altro madre della famosa antropologa Margaret Meade, che fu incaricata di svolgere un’inchiesta e di scrivere la relativa relazione sulla comunità di italiani arrivati nella Contea di Atlantic City tra il 1860 circa e i primi anni del 1900. L’inchiesta doveva servire a conoscere la situazione degli immigrati italiani in quel territorio, come si erano insediati, se si erano integrati, per controbattere le accuse di un certo generale F. Walker rivolte contro gli italiani e basate su pregiudizi di natura razziale.

Di questo doppio scopo il libro porta i segni: se da un lato, infatti, l’aspetto sociologico ha un buon rilievo scientifico almeno per i dati e le statistiche riportati in numerose tabelle, dall’altro le argomentazioni con cui si vogliono rintuzzare le prese di posizione del generale Walker spesso sono dettate dal buonsenso e non si allontanano da un approccio umanitario alla questione.

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Hammonton, anni 20

Comunque sia, il volume ha alcuni aspetti molto importanti da un punto di vista antropologico, perché la comunità di italiani di Hammonton, di cui la Meade si occupa, era quasi tutta composta da persone provenienti dalla Sicilia e soprattutto dallo stesso villaggio, Gesso, ubicato nelle vicinanze di Messina. Alla fine del volume, in un’appendice intitolata Gesso (Messina)-Hammonton (New Jersey), solo andata, Federica Cordaro ricostruisce la parte della vicenda che la Meade aveva trascurato per ovvi motivi logistici, con un saggio dal titolo: L’emigrazione da Gesso verso gli Stati Uniti d’America 1892-1924. Questo contributo, pur nella sua brevità, ci illustra la situazione della gente di Gesso e ci parla delle vicende emigratorie e della loro consistenza, facendoci capire meglio i risultati dell’inchiesta della studiosa americana.

Nei nove capitoli che costituiscono l’opera la Meade tratta di temi che le servono per ricostruire la storia dell’immigrazione, i lavori di bonifica effettuati nel territorio, le attività economiche, le relazioni sociali, la scolarità, ecc.; tutto con l’intento di dipingere un quadro in cui gli Italiani, malgrado mostrino qualche difetto, sono presentati come persone di cui ci si può fidare, che sono capaci di produrre e che sono anche socievoli e simpatiche e predisposte a diventare buoni cittadini americani.

L’immigrazione in quelle zone sulle coste dell’Atlantico era vista come una novità strana perché in genere gli italiani preferivano fermarsi nelle città, essendo abituati nei loro paesi d’origine a non vivere in campagna in case sparse. Il territorio di Hammonton, infatti, prima dell’arrivo degli Italiani, ospitava pochi abitanti, che vivevano di piccole industrie e di commercio e non si preoccupavano di bonificare e sfruttare i dintorni dominati da una selvaggia foresta di pini, che dava il nome alla zona, e da terreni molto acquitrinosi e malsani. Ma quella che era considerata una situazione poco appetibile fu invece un motivo di richiamo per gli immigrati: infatti, la terra era fertile e soprattutto era a buon prezzo e poi c’era il mare vicino che rendeva mite il clima. La zona piacque agli italiani che vi si insediarono immediatamente, così, scrive la Meade, come gli immigrati dei secoli precedenti che avevano colonizzato l’America, cosa che all’autrice appariva come un titolo di merito.

Inoltre il bosco offriva la possibilità di guadagni immediati perché produceva tanti frutti selvatici, come mirtilli e more che, raccolti senza altro investimento che il lavoro, potevano essere smerciati nei mercati delle vicine cittadine. Così, forti della sicurezza che dava loro il denaro ricavato dalla vendita dei frutti durante la stagione estiva, gli italiani si potevano dedicare negli altri mesi a disboscare il terreno e a bonificarlo dagli acquitrini. Il terreno così lavorato era sfruttato per la coltivazione di altre piante da frutta come fragole e poi uva, pere, pesche, mele, prugne e perfino patate dolci che costituivano una caratteristica del luogo. Quest’opera di bonifica e di impianto dei frutteti si intensificò durante la Guerra civile, quando i mercati cittadini offrirono occasioni di maggiore consumo di frutta; fu quello anche il periodo di maggior afflusso di immigrati italiani.

La comunità crebbe per forza propria, senza nessun intervento governativo, fu una crescita “naturale”, scrive la Meade, che sottolinea sempre quegli aspetti che, nell’agire degli immigrati italiani, le ricordano lo spirito pionieristico dei primi colonizzatori americani, la loro capacità di esercitare la libera iniziativa e il loro coraggio. Ciò che agli occhi della Meade rendeva uguali gli immigrati italiani agli americani era proprio l’avventurosa spinta imprenditoriale, la capacità di superare i problemi e lo scopo di raggiungere una vita agiata. La Meade ritiene ottimisticamente, in contrapposizione con l’opinione di Walker, che «si può concludere con certezza che l’italiano, se posto nelle medesime circostanze, può realizzare altrove quanto è stato in grado di realizzare a Hammonton». A tutte queste affermazioni, tuttavia, ogni tanto si contrappongono giudizi poco lusinghieri che vengono espressi in maniera piuttosto ingenua, forse inconsapevolmente.

Dopo un’introduzione che riguarda l’immigrazione dei primi italiani nella Contea di Atlantic City e la loro emancipazione, la Meade racconta brevemente la storia della famiglia Campanella che rappresentò il primo nucleo abitativo di Hammonton. I Campanella provenivano da Gesso ed erano così poveri da essere disprezzati dagli stessi connazionali; la sociologa ci informa che essi, come tanti altri, per sfamarsi, erano costretti a ricorrere a piccoli furti, specie di ortaggi e di frutta. Qualche tempo dopo il loro arrivo, però, i Campanella, essendo riusciti a superare le difficoltà, cominciarono a richiamare da Gesso parenti e amici, tanto che in poco tempo Hammonton si trasformò in una cittadina molto attiva, diventando un centro di riferimento per la coltivazione, la raccolta e il mercato della frutta.

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Hammonton, anni 30

Ovviamente non fu tutto facile per i siciliani di Gesso, perché l’accoglienza spesso si dimostrò ostile e l’integrazione fu lenta ed ostacolata da un’atmosfera razzistica, di cui la stessa Meade non era immune: quando, infatti, vuole riportare il modo di esprimersi degli italiani imita il loro povero inglese in cui i verbi non sono mai coniugati ma sempre riportati all’infinito (“quando io avere …). E talora, per elogiare gli italiani, per parlarne bene, si lascia sfuggire frasi del seguente tenore: «Gli italiani si sono rivelati buoni cittadini e la loro presenza ha ostacolato l’aumentare del lavoro dei neri».

Alla Meade e ai suoi connazionali sembrava strano che i siciliani non approfittassero del basso costo della terra per acquistare ampie proprietà terriere e si accontentassero di piccoli appezzamenti, non più  estesi di uno o due acri; per qualcuno si trattava di insufficienza intellettiva degli italiani, ma la Meade, alla fine, spiega, giustamente, che gli agricoltori italiani preferivano la piccola proprietà perché nei loro paesi di origine non esistevano ampie proprietà terriere e oltretutto perché il piccolo appezzamento di terreno consentiva loro di avere tempo libero da dedicare ad altri lavori. Per questi immigrati, infatti, che volevano lasciarsi alle spalle la povertà, era pressante il desiderio di abbreviare i tempi del loro riscatto e della loro emancipazione e sapevano che l’unico modo per raggiungere lo scopo era quello di guadagnare molto anche svolgendo più lavori. Soprattutto gli uomini addetti alla raccolta dei frutti selvatici avevano la possibilità di svolgere più attività: la sociologa da un lato ammira questa dedizione al lavoro, dall’altro, contraddicendosi con quando scritto prima, rimprovera agli italiani di essere privi di iniziativa, cioè di non saper trovare altre soluzioni.

Al comportamento cauto degli italiani nell’acquisto di piccoli lotti di terreni, in contrasto con la vastità del territorio e del basso prezzo dell’offerta, è legata una qualità che la Meade non sa se definire negativa o positiva. Lei parla della sobrietà e della parsimonia degli italiani ma giudica negativamente il fatto che, per risparmiare qualche centesimo, gli italiani portavano la frutta al mercato in cassette usate e in confezioni poco gradevoli alla vista; in un altro momento ammira la loro capacità di economizzare sul fitto degli alloggi (abitando numerosi in piccoli vani), cibo e divertimenti con lo scopo di comprare un lotto di terreno e costruirsi una piccola abitazione.

Ad Hammonton esistevano delle piccole industrie: due fornaci per mattoni, una vetreria, una calzificio e un calzaturificio. La maggior parte degli italiani proveniva dai lavori agricoli, spesso erano braccianti senza un mestiere ben definito; quando molti di loro furono impiegati in queste industrie, nacquero diversi problemi di ambientazione perché, non avendo idea di cosa fossero il lavoro e la disciplina della fabbrica, molti, avendo un’altra occupazione, si assentavano spesso e andavano in fabbrica senza regolarità. Nonostante questo nel 1906 la metà degli operai occupati era costituita da italiani. Anche le donne andarono a lavorare in fabbrica, ma per motivi razziali le italiane lavoravano in reparti diversi da quelli dove c’erano le americane.

Chi non era occupato a raccogliere mirtilli e fragole e nelle fabbriche, trovava lavoro come manodopera giornaliera presso le ferrovie, nei cantieri delle opere pubbliche. La Meade scrive che molti, essendo analfabeti e senza un mestiere particolare, trovandosi in povertà accettavano di svolgere quei lavori umili che gli americani disdegnavano: «L’italiano, in realtà, è disposto a fare ogni tipo di lavoro, anche se poi la sua efficienza non è pari alla sua buona volontà». Qualche donna era assunta dalle imprese commerciali perché queste avevano bisogno di qualcuno che facesse da interprete con una clientela incapace di parlare l’inglese.

Gli elementi più interessanti del rapporto della Meade sono quelli che riguardano gli aspetti antropologici dell’immigrazione. La studiosa però non li tratta in un’esposizione unitaria, perché probabilmente li guardava e giudicava con gli occhi del curioso piuttosto che con quelli dello scienziato e forse le sfuggivano quei legami che, unendo tutte le notizie in suo possesso, le avrebbero permesso di vedere una cultura peculiare dietro comportamenti apparentemente strani o incoerenti.

Qui proverò a mettere organicamente insieme le informazioni sparse della studiosa per cercare di individuare quelle situazioni che ci possono aiutare a ricostruire il processo di integrazione degli italiani ad Hammonton.

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Hammonton, anni 30

Il tenore di vita

La Meade mette a confronto le condizioni di vita a Gesso con quelle di Hammonton: in Sicilia i futuri immigrati vivevano in miseria e in condizioni di sopravvivenza, l’alimentazione era pessima e costituita da erbaggi vari, pane e formaggio, niente carne; in America, invece, cambiando le condizioni, man mano che diminuiva la povertà aumentava il consumo del burro e della carne; ciononostante si continuavano a mangiare erbe selvatiche (il tarassaco, soprattutto). Olio ed olive erano fatte venire dall’Italia. La sociologa sottolinea il fatto che ad Hammonton gli italiani mangiavano prodotti freschi, mentre nelle grandi città gli immigrati spesso erano costretti a consumare gli scarti dei grandi mercati.

 La casa

Molti italiani compravano un acro di terreno allo scopo di poter fabbricare, quando le loro condizioni economiche lo avrebbero permesso, una casa. Delle 43 nuove case costruite nel 1905, venti erano proprietà degli italiani. La Meade fa notare che se molti italiani, per costruire la casa, erano ricorsi «intelligentemente» ai mutui, altri, non fidandosi delle banche, tenevano con sé il denaro, tanto che ad alcuni, che erano morti per un qualche incidente, furono trovati addosso ingenti somme di denaro. Nel riferire queste notizie la studiosa ci fa capire che propendeva per una società in cui la circolazione del denaro fosse fondamentale e non considerava che il modo di vedere le cose degli italiani era il risultato di una loro lunga esperienza fatta in una società in cui le banche erano poche e con funzioni diverse rispetto a quelle americane.

La casa in genere era costituita da due stanze e cucina, con lavanderia esterna e la latrina ricavata con fogli di lamiera. Per arredamento usavano mobili usati e scadenti, a parte il letto fornito di materassi di lana e coperte abbellite dai ricami e dai merletti prodotti dalle donne di casa. Molte abitazioni erano provviste di acqua corrente e stanza da bagno: ventinove famiglie italiane nel 1906 avevano il telefono. Gli spazi intorno alle case erano poco gradevoli, perché invece di adornarli con aiuole di fiori come facevano le famiglie americane, gli italiani preferivano coltivarci ortaggi o addirittura impiantarci piccoli vigneti, le cui tecniche di coltivazione, tradizionali dei luoghi di origine, risultavano incomprensibili alla studiosa. La casa, dunque, evidenziando molte contraddizioni (il telefono vs le latrine esterne; l’acqua corrente vs gli orti davanti casa) può essere presa come il simbolo di un processo di integrazione non privo di contraddizioni.

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Hammonton, anni 20

L’istruzione e la salute

Nel 1903 dei quasi 1300 bambini in età scolare 346 ragazzi e 331 ragazze erano italiani. Nell’anno scolastico 1906/07 risultava che la popolazione scolastica delle scuole elementari era costituita per il 50% da italiani, mentre nelle superiori gli italiani erano fermi al 5,3%. Non si forniscono dati antecedenti al 1903, tuttavia si può ipotizzare che la percentuale di bambini italiani nelle scuole elementari sia dovuta ad un processo di integrazione bene avviato.

Accanto al tema della scolarità, la sociologa affronta quello della salute; nei primi tempi, a causa della precarietà degli alloggi e del loro affollamento, malattie come la malaria, la tisi e la broncopolmonite erano piuttosto diffuse e causavano episodi di mortalità infantile. Addirittura, la Meade ci informa che nel 1906 il Governo italiano stava per prendere provvedimenti atti a costringere il governo americano a migliorare le condizioni di accoglienza.

Ad Hammonton, però, la situazione era migliore rispetto a quella di altre parti, perché la cittadina si trovava in un ambiente rurale, in cui si viveva spesso all’aria aperta; si poteva stare a contatto con i vicini americani e soprattutto tutte le scuole erano pubbliche, aperte a ricchi e poveri, americani e immigrati. In queste condizioni favorevoli, la crescita, lo sviluppo fisico e la salute dei figli degli italiani si equivalevano con quelli dei ragazzi americani; ancora migliori sarebbero state le condizioni per i ragazzi della seconda e terza generazione, per l’accresciuto benessere delle loro famiglie: «I figli», conclude la Meade, «sono cresciuti come veri ammirevoli cittadini americani».

Le relazioni sociali

La studiosa notava, poi, che rispetto alla situazione famigliare americana, formatasi in un clima sociale di stampo capitalistico e molto individualizzante, quella degli italiani, legata ancora almeno per la prima e in parte la seconda generazione alla tradizione contadina di partenza, era più compatta e solidale; per questo la giudicava positivamente e forse anche con qualche rammarico: «La vita familiare degli italiani – come quella degli  ebrei – potrebbe sotto molti aspetti essere presa a modello dagli americani. I legami familiari sono forti e i piaceri della vita sociale sono vissuti e goduti da tutta la famiglia».

Se la vita famigliare le sembrava da imitare, non altrettanto positivo è il giudizio sul comportamento generale degli italiani che non partecipavano alla vita pubblica e si disinteressavano della politica non esercitando il loro diritto di voto. Molto positivi, invece, erano la vicinanza e il contatto sociale con le famiglie americane, perché sugli immigrati agiva l’emulazione che li spingeva ad avere le comodità in casa, a vivere secondo uno stile di vita più moderno, ad accettare le innovazioni tecnologiche.

Negli interstizi delle sue argomentazioni sulla presenza e sui comportamenti degli italiani di Hammonton, la Meade lascia cadere altre notizie utili che interessano l’antropologia e che suggeriscono considerazioni che si possono fare sulle genti costrette ad emigrare e a stabilirsi in Paesi nuovi per clima, lingua, usi e costumi. Sono notizie che ci permettono di capire perché spesso l’integrazione è difficile, perché ogni tanto avvengono vicende a prima vista inspiegabili, come scontri ideologici e anche fisici tra immigrati e abitanti del posto. Parlando della socialità degli Italiani, la Meade racconta dell’ostilità dei residenti americani nei confronti delle processioni religiose di queste genti cattoliche provenienti dall’Italia meridionale: per una mentalità protestante, ma anche per i cattolici di origine nordeuropea, queste manifestazioni dovevano apparire piuttosto prive di effettiva devozione, barbariche e intrise di superstizioni. In un primo momento non furono permesse, perché rumorose e perché disturbavano la normalità della vita cittadina; ma alla fine le processioni furono consentite grazie al giudizio favorevole dei commercianti americani che si erano accorti che durante le feste degli immigrati la gente era più propensa a spendere ed essi guadagnavano di più.

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Hammonton, anni 30

Altre costumanze degli immigrati siciliani che lasciano perplessa la Meade e con lei gli abitanti americani di Hammonton sono le celebrazione dei matrimoni e dei battesimi: scandalizzata, riferisce che la festa per un battesimo può protrarsi fino a tre giorni. Allo stesso modo non sono apprezzati i pianti e i lamenti a proposito dei funerali, che la Meade ritiene scomposti perché non riesce a vedere che dietro alla manifestazione così rumorosa del lutto c’erano gli antichi riti funebri ancora vivi nei territori della Magna Grecia da cui molti immigrati provenivano. C’è quasi un muro invalicabile tra la cultura arcaica, compatta e solida degli immigrati e quella che si sta formando in America sulla base della libertà delle singole persone e del liberismo economico. Perché gli immigrati vi si potessero integrare occorreva aspettare la seconda e la terza generazione, come la stessa studiosa ebbe modo di verificare.

La Meade, nonostante faccia molti sforzi per capire queste persone, ogni tanto esprime perplessità davanti a quegli usi che gli immigrati si erano portati appresso con il loro bagaglio culturale; a volte irride certe credenze come quella di seguire le fasi della luna nei lavori dei campi e dell’orto; non riesce, infine, a darsi una ragione del perché le donne immigrate si fossero portate dietro l’uncinetto, i ferri da calza, la macchina da cucire. La studiosa non ricorda o forse conosce poco il fatto che questi immigrati venivano da piccoli paesi dove i membri della comunità avevano forti legami parentali fra loro e vivevano in condizioni di sopravvivenza e di autoconsumo: ecco perché le donne si portavano dietro gli attrezzi per cucire o fare la maglia ed ecco la sobrietà di cui spesso la Meade parla senza sapersi decidere se si tratta di un pregio o di un difetto.

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Hammonton oggi

La lettura dell’opera della Meade è poco entusiasmante e non aiuta molto a ricostruire un quadro coerente e completo delle condizioni di vita degli immigrati siciliani italiani. Probabilmente ciò dipende dal fatto che l’inchiesta fu avviata per motivi politici contingenti: occorreva, infatti, controbattere le tesi anti-immigratorie del generale Walker che ricorreva a banali stereotipi contro le popolazioni del Sud Europa, ritenute intellettualmente inferiori ed incapaci di svolgere lavori impegnativi. La Meade ribatte colpo su colpo questi pregiudizi non con discorsi socioantropologici e storico-filosofici, ma cercando risposte concrete idonee a dimostrare con i fatti la falsità delle accuse del generale. Ciò però la costringe a spezzettare le argomentazioni, ad inseguire l’avversario sulla sua stessa strada, con il risultato di abbassare il livello della ricerca. Il suo tentativo di stabilire un confronto tra le condizioni di vita degli ibissoti (così si chiamano gli abitanti di Gesso) proprie del loro paese d’origine e quelle in cui vivono nella loro nuova patria, non è molto convincente per le notizie approssimative che riguardano il villaggio siciliano.

Manca forse all’inchiesta della Meade il lavoro “sul campo”, perché l’impressione è quella di una ricerca compiuta a tavolino, con notizie di seconda mano riprese da giornali e da testimoni e poche, forse pochissime attinte direttamente dagli immigrati interessati. Nonostante i limiti, tuttavia, il libro della Meade è un altro mattone utile a ricostruire la storia dell’emigrazione italiana verso gli Usa e altrettanto importante per ricordarci, come scrive Marcello Sajia nella presentazione, che emigrazione ed immigrazione suscitano sentimenti e ideologie contrastanti di cui siamo testimoni ancora oggi.

L’ultimo capitolo del libro si conclude con i suggerimenti che la Meade dà agli uomini politici e agli amministratori americani su come organizzare l’accoglienza degli immigrati italiani. Secondo lei è necessario: 1) mettere a punto piani ben organizzati; 2) stanziare un supporto economico per tali piani; 3) apprezzare l’immigrato italiano considerandolo un’acquisizione positiva e auspicabile. Se in questi ultimi trenta anni, avessimo messo in pratica i consigli che la Meade rivolgeva 115 anni fa ai suoi connazionali, forse non ci sarebbero stati e non ci sarebbero i tragici esodi cui siamo costretti ad assistere anche oggi.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.

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